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Il fuoco. 47

per timore di venire ucciso come i suoi fratelli maggiori che erano morti prima di lui. Questo mito vuol dire che l’eroe solare per non morire si nasconde, si salva per mezzo delle acque; condannato a perire in un pozzo, a naufragare in un fiume, in un mare, in un diluvio, le acque sono per esso liberatrici, salvatrici, anzi che cagione della sua rovina.

A questo mito di Agni, ossia del piccolo eroe solare che si nasconde nelle acque e si salva miracolosamente da’ suoi persecutori, si congiunge un’altra nozione, parimenti vedica, del fanciullo Agni parricida.

Il parricidio è cosa mostruosa e si condanna la mitologia perchè quasi lo celebra, e lo giustifica. Ma, se il mito si dichiara, ogni carattere mostruoso scompare. Abbiamo già veduto che il mondo apparve generato dal cielo, ossia da Dyaus il luminoso che fecondò Pr’ithivî la larga volta celeste. Si paragonarono dunque il Dyaus e la Pr’ithivî a que’ due legni, alle due aranî, le quali confregandosi l’una contro l’altra, generavano nell’età vedica il fuoco sopra la terra; un legno è superiore, l’altro inferiore; il fuoco giace ne’ due legni. Immaginati i due legni, e quindi pure le due aranî celesti, come padre e madre del fuoco, poichè il fuoco che si sprigiona dal legno, lo consuma, era naturale la rappresentazione del piccolo Agni ossia del fuoco come un figlio parricida e matricida. Onde il poeta vedico stesso inorridisce a tanto delitto, ed esclama nell’inno settantanovesimo del decimo libro dal Rigveda: «O Dyaus o Pr’ithivî, questa verità io dico a voi; appena