L'acqua

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Il cielo Il fuoco
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LETTURA SECONDA.


L’ACQUA.




Abbiamo veduto il Cielo cosmogonico, il Cielo autore di tutta la creazione, ove siede il biblico Jehova creatore del mondo, ove ha il suo trono il Dio creatore Brahman. Se il Cielo è il principio di tutta la creazione, onde fu pure creduto che le anime degli uomini siano discese dal cielo, come si spiega che le cosmogonie, biblica, babilonese ed indo-europea figurino pure spesso il mondo come nato dalle acque, che sia uscita dalle acque la Venere Afrodite, che nella sua origine celeste rappresenta l’aurora del giorno e della vita e nella sua personificazione terrestre esprime la primavera dell’anno, il principio della generazione, la natura primogenia, concetto che raffigura specialmente la Venere lucreziana?

Se riportiamo i miti alla loro prima origine, non vi è contraddizione fra queste due immagini. Anzi noi vediamo ad evidenza che fra l’aurora Urania che è l’aurora Vedica, l’Afrodite ellenica, la Venere lucreziana, vi è quella naturale progressione caratteristica di forme mitiche che tre popoli di [p. 23 modifica]carattere così diverso, come l’indiano, il greco, il latino dovevano creare. L’immaginazione gigantesca del genio poetico e speculativo indiano mantenne specialmente il suo mondo fantastico nel cielo ov’esso nacque; il genio di un popolo specialmente marittimo come il greco fece molto spesso discendere i suoi numi sul mare, quindi Ouranos il cielo si feconda nel mare e vi genera Afrodite, e il mare ellenico appare popolato di Dei; il genio pratico di un popolo agricoltore come i Romani adorò specialmente una Venere terrestre, una madre produttrice di tutte le cose utili all’uomo. Ma la Venere latina e la Venere ellenica, risalendo, per mezzo d’Urania, alla Venere celeste, ritorniamo al primo concetto d’una creazione nel cielo, che abbiamo già detto raffigurarsi ora come una terra privilegiata, un giardino mirabile, un paradiso, ora come un oceano; il quale agitandosi diede origine all’ambrosia, dalla quale poi si generano nel mito indiano, tutte le cose, come dalla spuma del mare, ossia dal mare agitato ellenico, vien fuori la Venere greca. Quando pertanto si dice che il cielo diede principio alla creazione e quando si dice che la prima creazione si è compiuta nelle acque, noi abbiamo bensì due miti diversi, ma il fondamento naturale originario di questi due miti è uno solo, la contemplazione del cielo. La fantasia popolare procede nella creazione del linguaggio, e però anche de’ miti che non sono altro se non un linguaggio popolare figurato, per via d’analogia; ogni immagine nasce per analogia, per trasposizione di una nozione, di un accidente da un [p. 24 modifica]oggetto all’altro, da un luogo all’altro, da un momento all’altro. Questo moto continuo della immaginazione popolare, nella ricerca di analogie, moltiplica i miti all’infinito. Essa trasferì le immagini che desta nell’uomo la contemplazione delle vicende naturali d’ogni giorno che si rinnova al primo giorno del creato, al gran giorno cosmogonico. Ora, se noi riflettiamo a quello che un uomo il quale viva in mezzo alla natura, osserva ancora intorno a sè nello spazio di ventiquattro ore, non ci meravigliamo più che l’uomo primitivo attribuisse al cielo il principio della vita. Quando cade il sole, s’alzano le ombre, la terra s’occulta alla vista dell’uomo, la natura sembra davvero rientrare nel caos tenebroso; un vivo terrore s’impadronisce allora dell’animo dell’uomo, un profondo sgomento che cessi la vita; ma egli rialza gli occhi al cielo stellato, e spera da esso il ritorno della luce risvegliatrice de’ mondi. Dal cielo scende a noi la luce; qual meraviglia che si figurasse Dio nel cielo. Dio che, come abbiamo osservato, secondo l’etimologia, vuol dire il luminoso? Onde ogni luminoso celeste è diventato un Dio. Qual meraviglia che il cielo ove siede il Dio luminoso, onde l’uomo aspetta ogni giorno la risurrezione della vita, sia pure apparso non solo come la sede degli Dei immortali, ma come la sede della immortalità? Che, nel cielo, ove la luce si mantiene eterna, ove gli Dei si cibano di ambrosia ossia di luce eterna si collochi la sede dell’immortalità, della vita eterna, dell’eterno paradiso? Che si speri tutto dal cielo, che al cielo ascendano tutte le speranze dei mortali? Ora se il cielo è il [p. 25 modifica]luminoso per eccellenza, ricordiamo le espressioni figurate che si mantengono ancora vive nel nostro linguaggio. Quando noi diciamo sempre: un’onda di luce, un mare di luce, raffiguriamo evidentemente la luce come un liquido luminoso. È quindi naturale il pensare che il cielo, chiamato negli inni vedici Dyu, il luminoso, di che ha conservato pur traccia la lingua latina nell’espressione: sub Dio vivere che un francese tradurrebbe vivre à la belle étoile, siasi rappresentato come un oceano luminoso; questo cielo stellato, che il mito greco raffigurava come un Argo dai cento occhi, si trasforma quindi in un oceano solcato dalla nave Argo, dagli Argonauti, i quali vanno alla conquista del Vello d’oro, ossia alla conquista del cielo aurato, dell’Aurora, rappresentata dai greci come una Medea custoditrice del vello d’oro. Questo stesso oceano è solcato da Ercole quando ritorna dall’orto delle Esperidi, che rappresenta specialmente il cielo aurato occidentale, l’aurora vespertina. Questo oceano stesso, secondo la finzione mitica, ogni notte, in una nave misteriosa invisibile all’occhio mortale, solca il sole muovendo da occidente ad oriente, onde risorge luminoso al mattino.

Il cielo è ancora l’oceano sopra il quale i poeti orfici immaginavano che si muovesse l’uovo cosmico onde il mondo emerse; l’oceano onde l’Hiranyagarbha o germe d’oro indiano, i Brâhmanda uovo di Brahman, uscì per creare i mondi. Il cielo vien raffigurato dalle acque sopra le quali secondo il racconto biblico, soffiò per creare, lo spirito di Dio; il cielo è l’oceano inondante il [p. 26 modifica]mondo, sopra il quale la nave di Manu, il primo uomo, rigeneratore degli uomini, il Noè indiano si salva dal diluvio. Posto che il cielo divenne un oceano, in quell’oceano s’immaginò ora che il sole naufragasse, quando cadeva la sera, ora che fosse accolto in una nave misteriosa e salvato per divino intervento. Del naufragio dell’eroe solare e del suo miracoloso salvamento sono numerose le figure mitiche, non pur nella tradizione indo-europea, ma ancora nella semitica, ove Noè che si salva nell’arca, Mosè salvato dalle acque del Nilo, Mosè che attraversa il mar Rosso, Giosuè che attraversa il Giordano, rinnovano lo stesso portento. L’equivoco tra il mare ed il fiume non è soltanto biblico, ma anche vedico. Nella lingua vedica la voce sindhu significa fiume e mare. Il Dio Indra attraversa non uno ma novantanove fiumi; l’eroe solare Bhug’yu caduto nell’oceano inondante è liberato dai due eroi Açvini, i Dioscori indiani, sopra una nave dai cento remi, sopra un carro tirato da volanti cavalli. Come Castore e Polluce sono figli di Giove cigno, ossia nati dall’uovo di Leda fecondato da un cigno, così i due fratelli vedici gli Açvini appaiono talora tirati da cigni luminosi, ossia essi stessi sono personificati dal cigno, come il Lohengrin della leggenda di San Graal, che naviga misteriosamente sulle acque tirato da cigni. Lohengrin è anch’esso una figura mitica dell’eroe solare, che la leggenda medievale ha poi svolta poeticamente, e di cui il genio di Riccardo Wagner ha così bene espresso il carattere misterioso e come divinato e il riposto senso mitico. Quante [p. 27 modifica]sono le immagini poetiche figurate dal popolo nel cielo, tanti sono i miti ai quali esso diede occasione. Il popolo non ama le astrazioni; degli oggetti che vede distingue ed anima le qualità, le quali pigliano moto e persona e si combinano fra loro, ora per concordia, ora mischiandosi fieramente nella lotta. Le persone sono rappresentate secondo gli oggetti che più frequenti e più famigliari si presentano alla vista dei popolo. Il mito ellenico finge il delfino che salva il fanciullo Arione dal mare. Il delfino fu osservato venire a galla nelle tempeste; come dal naufragio salva sè stesso, s’immaginò che liberi i naufraghi privilegiati. Ora, essendo stato osservato che il sole si tuffa ogni sera nel mare, sia poi questo veramente il mare che avvolge la terra, come lo osservano i popoli marittimi, sia l’oceano celeste, e che da questo naufragio si liberasse miracolosamente, s’immaginò che un delfino, o, in generale, un animale acquatico, un pesce, lo salvasse. Il gran pesce nel ventre del quale Giona è ingoiato, è anch’esso un pesce liberatore, come il mostro marino che nel Râmâyana ingoia da una parte Hanumant, per lasciarlo uscire dall’altra parte, non è un animale omicida, ma un ausiliare dell’eroe mitico che lo salva dalle acque. Qual è questo animale acquatico, questo pesce cornuto, o con la gobba, questo delfino o balena, che tira fuori dal mare l’eroe che vi è caduto? Nella leggenda del diluvio indiano questo pesce liberatore cornuto cresce nell’acqua prodigiosa; di picciolissimo diviene grandissimo; ora se io vi ponessi questo indovinello: Vi è nel cielo un [p. 28 modifica]corpo che si muove; esso incomincia così piccolo che appare invisibile, e di giorno in giorno cresce; quando il sole si tuffa nel mare, esso vien fuori e solca l’oceano celeste e sta sopra le onde fin che il sole non ritorni a mostrarsi, ora voi indovinate. Una sola risposta sarà pronta; quel corpo, mi direte, è la luna, la luna che indica la via ai viandanti smarriti; che nel Râmâyana trae i scimii guerrieri fuor della grotta, che è il vero filo d’Arianna pel quale l’eroe solare ellenico può uscire dal labirinto in cui si trovava perduto. Si crede veramente, nel mito, che il sole naufragato nel mare, caduto nel pozzo, smarrito nella selva oscura o nel labirinto, si salvi nella notte, o nell’inverno, per l’intervento speciale della luna, la buona fata, la buona vecchierella, la Madonna delle nostre novelline popolari che prende sotto la sua protezione l’eroe sole, il bel giovine, l’eroina aurora, la bella fanciulla, e, a malgrado de’ loro errori, li trae a salvamento.

Le acque dell’oceano celeste non furono soltanto acque cosmogoniche, non furono soltanto ambûs o madri come le chiamano i Vedi, generatrici dell’uovo cosmico, dell’uovo d’oro, il cielo luminoso, e poi particolarmente il fuoco solare; ma le madri essendo pure le prime, le più sapienti, le più amorose medichesse, gli stessi poeti che attribuirono alle onde celesti una virtù generatrice, ne attribuirono pur loro una rigeneratrice, ricreatrice, ristoratrice, salutifera. Le erbe magiche hanno la loro virtù solamente pel succo che contengono ricavato dalle acque dell’oceano celeste. Nel nono inno del decimo libro del [p. 29 modifica]Rigveda dedicato alle acque, queste vengono celebrate non pur come amorose madri e come dee, ma come balsamiche e salutari. «Il Dio Soma, canta il poeta vedico, mi ha detto: trovarsi nelle acque tutti i rimedî ed il fuoco che porta la salute a tutti. O acque, arrecate il rimedio per la guarigione del mio corpo, e perchè io possa vedere lungamente il sole. E quello che in me possa esservi di malato, o acque, portatelo via.» Le erbe e le acque hanno del pari virtù salutifera; Soma è celebrato, negli inni vedici, come re delle erbe e come re delle acque. Il Soma è pure chiamato col nome di Am’rita, ossia di ambrosia, l’acqua od erba divina, l’acqua od erba celeste, l’acqua miracolosa per la quale gli Dei sono immortali, per la quale anche i mortali che hanno il privilegio di entrare nel regno dei beati, acquistano essi pure l’immortalità. Il miracolo così frequente nel mito, nella leggenda, nella novellina popolare, di eroi ed eroine che muoiono e vengono richiamate in vita, si rinnova per virtù specialmente di un elisire di lunga vita ch’essi bevono. Ora quest’acqua risuscitatrice è l’onda celeste, l’onda luminosa del cielo, come spesso ancora la pioggia lucente, la lucente rugiada. Non dimentichiamo mai l’immagine del cielo acquoso. Il sole che si tuffa nel mare ogni sera, vi naufraga; ma il naufrago beve; e nel vedere il sole risorgere sempre da quel naufragio fu cosa naturale il supporre che quell’acqua celeste avesse una virtù privilegiata, che fosse ambrosia, per il possesso della quale la leggenda indiana fa combattere gli Dei e i Demonî, come a produrla, [p. 30 modifica]secondo la leggenda cosmogonica indiana, concorsero in proporzione uguale i Demonî e gli Dei. Qual’è il senso di questa duplice leggenda? Che cosa vuol dire la nozione del concorso degli Dei e de’ Demonî che lavorano per produrre l’ambrosia e si combattono quindi per possederla? Il senso è questo solo. Dal caos uscirono la luce e le tenebre. Le forme luminose furono rappresentate dagli Dei, le forme tenebrose dai Demonî. Il cielo essendo occupato ora dalla luce ora dalla tenebra, s’immaginò che Dei e Demonî, dopo averlo insieme creato, combattessero pel suo possesso, ossia per il possesso dell’acqua luminosa, dell’acqua della immortalità. Le grandi battaglie epiche hanno tutte per loro principal fondamento questo concetto mitico, essenziale a tutta la mitologia indo-europea. Ciascuno di voi intende ora la ragione principale del culto consacrato alle acque. Le acque luminose sono pure acque generatrici e rigeneratrici; attraversando le acque celesti, si trova l’immortalità. Quindi pure, per reminiscenza di que’ miti celesti, il culto prestato a certi fiumi terrestri, al Lete, per esempio, nelle onde del quale le anime de’ trapassati dovevano ritrovare l’oblio; l’uso di molti indiani malati o moribondi di gettarsi nel Gange, con la speranza di esser condotti più presto per quella via acquosa al regno de’ beati, l’uso pure indiano di comporre il rogo funebre in vicinanza d’un’acqua corrente, anzi, se si può, d’un confluente con la speranza di accompagnar meglio l’anima del morto in paradiso, ossia alla sede di Brahman, e la pratica superstiziosa tuttora vigente in alcuni [p. 31 modifica]luoghi d’Italia di porre vicino al morto una scodella piena d’acqua, che certamente deve servire di viatico all’anima. Negli inni vedici, la medichessa celeste ora, appare l’aurora luminosa, ora una Sarasvati, propriamente l’ondosa, l’acquosa, la fornita di scorrevolezza, che ora rappresenta l’aurora, ora la nuvola; entrambe si muovono, entrambe splendono, o per i raggi del sole o per i lampi che l’attraversano; dell’una stillano benefiche rugiade; dall’altra pioggia fecondatrici. Invocata col Dio Varuna, re delle acque (apsu râg’ â) la Sarasvatî accresce con la virtù magica riposta nelle sue acque vigore agli uomini ed agli Dei. La bevanda d’Indra o Indrapâna è l’acqua ravvivatrice della Sarasvatî celeste. Come l’aurora che si muove è paragonata nel Rigveda ad una bella fanciulla, ad una ballerina celeste, così le onde del cielo aurato, e le onde pluvie della nuvola parvero fanciulle saltellanti. La linfa diventò ninfa; le onde o acque scorrenti si chiamarono naturalmente nel linguaggio vedico apsarâs; ma la parola apsarâs può anche interpretarsi le scorrenti sulle acque; si videro quindi nelle nuvole, nelle onde, delle naiadi che danzano sulle acque, le quali si ritrovano poi in vario aspetto in quasi tutte le tradizioni e credenze indo-europee, con aspetto ora benigno, ora fallace e sinistro. Le apsare sono le ninfe; ma presso la nuvola femmina, fu supposta la nuvola maschio; presso la nuvola danzante una nuvola tonante, presso una ballerina celeste, un musico celeste, presso l’apsâra un gandharva (un centauro), parola che secondo, l’etimologia, sembra [p. 32 modifica]significare quello che va ne’ profumi, come l’apsara quella che scorre sulle acque. I gandharvas, specie di angioli vedici, ma più materiali, discendono talora sopra la terra a tentare le figlie de’ mortali, onde il poeta dell’Atharvaveda ne muove loro lamento: «Fattosi bello alla vista, il gandharva segue la donna; noi lo allontaniamo di qua con la sacra formola potente: Vostre spose sono le apsare, o gandharvi, voi siete gli sposi essendo voi immortali, non dovete andar dietro a donne mortali.» Così talora nelle nostre leggende popolari, reminiscenze dell’antica prima leggenda degli amori degli angioli con le figlie della terra, il diavolo appare talora in forma di bel giovine per sedurre le inesperte fanciulle. La leggenda di Fausto e Margherita è la forma più popolare dell’antico mito. Il gandharva piglia già nella stessa tradizione indiana forma demoniaca; egli guarda le fonti miracolose, attraendo ad esse tutti gli incauti ignari del segreto, e fa sopra di ossi quello che l’orco e il drago e le sirene perturbatrici della mente (manomuhas o che fanno impazzare) sono pure chiamate la apsaras nell’Atharvaveda delle tradizioni occidentali, potenti nelle acque e gelosi custodi del loro tesoro, che è per lo più l’acqua della forza, l’acqua della vita. Nel Râmâyana, il gandharva tiene pure l’erba che deve risanare gli eroi mortalmente feriti, e richiamarlo in vita. Soma il re delle erbe e delle acque è pure chiamato re de’ gandharvi; ora Soma identificandosi pure spesso con la luna, in questa qualità, noi possiamo immaginare che le ninfe e i musici celesti non siansi sempre [p. 33 modifica]rappresentati dalle nuvole e nelle aurore, ma talora anche dalla luna e dalle stelle; se il cielo notturno è un mare, la luna e le stelle sono le sirene di quel mare; esse attirano con la loro bellezza il sole navigante vespertino a muovere incontro ad esse; e così l’eroe solare allettato dalla loro bellezza, si perde, L'apsarâ o ninfa è chiamata ora nuvolosa e lampeggiante, ora stellata. Le ninfe stelle risplendono. Ora notate a quale mito diè occasione un equivoco del linguaggio. La stessa radice div, nella lingua indiana, significa brillare e giuocare (in latino abbiamo pure jucundus presso jocus); le stelle brillanti apparvero stelle giuocanti. Quindi l’appellativo vedico dato alle apsarâs ossia alle ninfe di aksgakâmâs o amiche dei dadi; quindi pure nell’Atharvaveda, il gandharva che ha, dicesi la pelle color del sole, ossia aureo e brillante, e la ninfa od apsarâ sono insieme invocati perchè proteggano il giuoco de’ dadi. Le acque e le apsare sono del pari invocate, nel Rigveda, per ottenere un figlio che liberi il padre dei debiti, che possa vincere nel giuoco il suo avversario, per riparare ai debiti fatti dal giuocatore coi dadi.

Che cosa significa questo curioso indovinello vedico? Vi ho detto dell’equivoco nato sulla parola div che significa brillare e giuocare. I raggi solari che splendono sembrano fare un giuoco di luce, e furono paragonati a dadi luminosi gittati; il sole ogni sera giuoca in cielo co’ suoi raggi ossia co’ suoi dadi, come il re Nala, personaggio mitico anch’esso, una gran partita, e la perde, e fa debiti; s’invocano allora la luna o le stelle luminose, [p. 34 modifica]s’invoca l’alba luminosa perchè giuochino per l’eroe solare che ha perduto, ossia perchè, come dice l’Atharvaveda, ungano al giuocatore le mani di burro, affinchè i dadi possano meglio scivolare, perch’egli possa vincere. L’apsarâ detta payasvatî ossia lattifera, che sembra qui specialmente rappresentare l’alba mattutina, viene chiamata essa stessa sadhûdevinî, parola equivoca, che potè significare ben risplendente e bene giuocante; essa danza coi dadi; coi dadi accumula ricchezze, delle quali viene poi l’aurora a farsi dispensatrice ai mortali. L’apsarâ lattifera o Payasvati e l’apsarà ondosa o Sarasvati si confondono; quindi leggiamo pure che la ninfa Sarasvati, la quale, come aurora, prende nome di Duhitar divas o figlia del cielo, libera dai debiti il padre Divodâsa, propriamente il devoto, il servo del cielo, un appellativo dell’eroe solare mattutino. Come si chiamava una volta il padre di questo Divodâsa? Come si chiamò di poi quando l’aurora giuocava per amor di suo figlio? Una volta, è detto, il suo nome era Bahvaçva ossia, avente molti cavalli; poi si chiamò vadhryaçva ossia il privo di cavalli. Dunque al giuoco egli perdette specialmente i suoi cavalli. Ora io richiamo la vostra attenzione ad un motivo assai popolare nella tradizione indo europea. Quando l’eroe delle novelline popolari è caduto in disgrazia, per lo più, lo vediamo diventar pecoraio, guardiano di armenti, stalliere del re (il re Nala, dopo avere perduto il regno al giuoco de’ dadi, lo riguadagna come auriga; la leggenda di Nala parmi congiungersi strettamente col mito vedico dì Divodâsa); [p. 35 modifica]per lo più questo stalliere ha la fortuna di toccare il cuore della bella figlia del re, la quale conoscendo i segreti paterni, giuoca per lui e lo aiuta a far fortuna: la novellina termina spesso con le nozze dello stalliere con la figlia del re. Voi ricordate pure che Ercole spazza le stalle di Augias. Ora voi avete potuto dal mito vedico trasparentissimo intendere qual è il significato originario mitico della nostra umile novellina popolare, e riuscirete, almeno per questo esempio, a sentire una parte di quella attrattiva che possono avere per noi la ricerca delle novelline e lo studio della mitologia comparata. Ma, poichè un fiore ed una rondine non fanno, come si dice, primavera, e un solo esempio potrebbe non bastare a convincervi, avendovi poco innanzi rammentato il nome di Lohengrin, e richiamata la sua leggenda ad un antico mito indo-europeo, debbo aggiungervi che essa appartiene pure al gran ciclo delle favole e leggende, delle quali la forma più luminosa e più poetica è rappresentata dal duplice mito ellenico di Apollo e Dafne, d’Amore e Psiche, la forma più popolare dalla novellina francese La belle et la bête, la forma più antica dal mito vedico degli amori dell’eroe tonante divino Purûravas con la ninfa od apsara Urvâcî. In un inno vedico a Urvâçî, propriamente la larga che s’avanza, una specie di Pr’ithivi celeste, dice di sè medesima: «io arrivai come la prima delle aurore.» Nello stesso inno, lo sposo di lei, quando essa gli sfugge, la chiama aurora e donna crudele; essa lo consola promettendogli un figlio di nome l’asishta, cioè il luminosissimo; per merito del figlio, [p. 36 modifica]anche Purûravas può salire al cielo. Il mito è evidentemente solare. Appena il sole si lascia vedere, l’aurora scompare; ma il sole può di poi salire al cielo. Così Apollo insegue Dafne: Dafne scompare in una pianta d’alloro; Apollo trionfa nel cielo. Nel Rigveda il mito accenna già a divenir leggenda; nel Çataphata Brahmana abbiamo già una leggenda intiera, la quale suona così: «Una apsarâ o ninfa celeste chiamata Urvâcî amò l’eroe Purûravas figlio d’Ida, e, trovandolo, gli disse: «Abbracciami tre volte al giorno, ma non mai contro il mio volere, e ch’io non ti vegga mai senza le tue vesti reali.» Così ella visse a lungo con lui. Allora i suoi primi amici celesti, i gandharvâs dissero: «Quella nostra Urvaci da lungo tempo rimane fra i mortali; facciamola tornare. Dove Urvâçî e Purûravas abitavano, vi era pure una pecora con due agnelli. I gandharvi ne rapirono uno.» Allora Urvâçî disse: «essi mi pigliano ciò che mi è più caro, come se io vivessi dove non c’è un eroe, e nemmeno un uomo.» I gandharvi rapirono anche il secondo agnello, ed essa ne fece ancora rimprovero allo sposo. Allora Purûravas guardò e disse: «Come mai il luogo ove io abito può esser privo d’un eroe o d’un uomo?» E per non perdere tempo nel cercare i propri abiti, si levò com’era. Allora i gandharvi fecero splendere un raggio, e per quel raggio, come se fosse di giorno, Urvâçî vide suo marito senza le vesti regali. Allora essa scomparve; «ritornerò» disse, ed andò via. Allora egli pianse l’amica perduta e si ritrasse presso il Kurukshetra. Trovasi colà un lago chiamato [p. 37 modifica]Anyatahplaksha pieno di ninfe, e mentre il re passeggiava sopra la sue rive, le ninfe scherzavano nell’acqua in forma d’uccelli, certamente cigni (i quali in parecchie novelline li vediamo portar via le vesti dell’eroe o della eroina, o in altre molte portar via lo stesso eroe o la stessa eroina; i cigni negli inni vedici trasportano pure il carro solare). Allora Urvâçî scorse il re, e disse: «Ecco l’uomo con cui ho abitato per tanto tempo.» Dissero allora le compagne: «Mostriamoci ad esso.» Urvâçî consentì e le ninfe si manifestarono. Allora il re le riconobbe e disse: «Oh sposa! resta, crudele; parliamo un poco. I nostri segreti, se noi non li riveliamo ora, non ci porteranno più tardi fortuna.» Essa gli rispose: A che parlarmi? Io sono arrivata come per la prima delle aurore. Purûravas, ritorna nella tua dimora. Io sono come il vento difficile ad essere raggiunta.» — «Se è così, rispos’egli dolorosamente, se è così, il tuo primo amico cada ora per non ridestarsi più; se ne vada egli lontano, lontano; cada egli come corpo morto; gli avidi lupi vengano a divorarlo.» Essa gli rispose: «O Purûravas, non morire, non cadere, non ti divorino i lupi...» La ninfa celeste alfine s’intenerì e soggiunse: «Torna da me l’ultima notte dell’anno.» L’ultima notte dell’anno egli si recò alle auree sedi, e quando vi fu salito, i gandharvi gli mandarono la ninfa Urvâçî. Allora essa disse: «i gandharvi ti permettono di esprimere un voto ch’essi soddisferanno; eleggi.» Purûravas allora: «Eleggi tu per me.» Ed ella: «Allora dirai ai gandharvi: permettetemi di essere uno di voi.» [p. 38 modifica]Il giorno dopo, per tempo, i gandharvi gli accordarono un dono; ma quando egli ebbe detto: «Possa io diventare uno di voi», essi risposero: «Il fuoco sacrificale, per grazia del quale l’uomo potrebbe diventare uno di noi, non è ancora noto all’uomo.» Allora essi iniziarono Purûravas ai misteri del fuoco sacrificale; quando egli ebbe compiuto il sacrificio, divenne uno dei gandharvi.» Ed ecco, in qual modo un mito si concatena con un altro. Noi abbiamo qui già la nozione d’una pena inflitta per aver rivelato ciò che doveva rimaner nascosto; e si accenna pure, nel fine della leggenda, al fuoco, del quale conoscendo il segreto, l’eroe Purûravas diventerà un immortale. Questo primo mortale, che conosce il mistero del fuoco nel mito indiano, non vi suscita egli già prontamente al pensiero l’immagine di quello stupendo ellenico Prometeo rapitore del fuoco agli Dei? I vedici gandharvi, che emergono dalle acque celesti, insegnano il mistero del fuoco a Purûravas. Vedremo nella prossima conferenza, come, secondo i poeti vedici, il fuoco sia nato dalle acque e quali altre relazioni coi miti indiani abbia il mirabile mito ellenico sull’origine del fuoco. Ora, se nelle acque, ossia nell’elemento meno combustibile la fantasia popolare suppose pure che siasi acceso il fuoco, qual meraviglia che essa abbia veduto in esse naufragarsi e salvarsi eroi solari, generarsi gli Dei con l’ambrosia che li fa immortali, animarsi gran parte di quel mondo fantastico che diede vita alla prima poesia popolare ed alle prime epopee? Qual meraviglia che noi contempliamo ora l’oceano celeste [p. 39 modifica]altrimenti da quello che apparirebbe ad un pilota o ad un idrografo, se potessero immaginarsi il cielo stellato, il cielo lucente, il cielo pluvio come un vero oceano? Ma un tale oceano può essere percorso soltanto dalla navicella alata della nostra fantasia; chi n’è privo, e chi nella storia del pensiero umano non sa attribuir nessuna parte alla fantasia, rimanga in terra. La mitologia fu tutto un giuoco fantastico; ma anche la fantasia ha le sue leggi; e a scoprirle occorre un po’ di poesia. Spiegando poi la mitologia, ritroviamo pure l’origine di alcuni dommi religiosi, l’essenza dei quali è ora tutta pura, ideale, divina, ma che hanno essi pure, talora, un primo fondamento mitologico. Nella prima creazione cosmogonica, quando dal caos si svolge la luce, secondo il concetto indiano, sopra le acque cosmiche corse il vento creatore. Così la Bibbia narra che lo spirito di Dio, nel principio delle cose, era portato sopra le acque. Ma il Caos, come una gran nuvola acquosa, tenebrosa, in cui soffia il vento, fa pur sentire il fischio di quel vento, lo strepito dell’onde agitate e commosse, il tono della tempesta che fa ribollire le acque, produrre la bianca schiuma, l’ambrosia, onde nascono tutte le cose, onde nasce la madre Afrodite agitata da Eros, l’amore, come il vento cosmogonico vedico è agitato da Kâma, il desiderio e l’amore. Nel principio delle cose vi erano dunque le acque, il vento, la tempesta caotica; la nuvola cosmogonica era un Sarasvati, ossia una gran madre acquosa. Ma la parola Sarasvati, secondo la etimologia, vale la fluida, l’acqua è la fluida per [p. 40 modifica]eccellenza; la luce è ancora fluidissima, ma la proprietà d’esser fluida fu pure data alla parola; e Sarasvati la dea delle acque, diventò pure nell’India una dea della parola, una dea della musica, del linguaggio; anzi nella leggenda vedica a Sarasvatî si dà il nome di Vâc’ ossia Parola e si rappresenta questa Vac’ come una persona viva, prima creatrice de’ viventi. Non vi pare mirabile la corrispondenza fra questa nozione vedica della Parola creatrice e la variante del concetto biblico dello spirito di Dio che passeggia sulle acque sostituito da quell’altro: «In principio era il Verbo o il Logos? La parola è soffio, è spirito, è vento che suona; onde si comprende come, senza contraddizione, presso l’inno vedico che diceva: in principio era il vento, sia venuta la leggenda vedica a soggiungere: in principio era la parola; che, dopo il versetto biblico: «Lo spirito di Dio si muoveva sulle acque» si aggiunga subito: «Dio disse: Sia fatta la luce, e la luce fu fatta.» Lo spirito di Dio che parla crea. La parola è luce; il silenzio tenebra. L’idea teologica della parola creatrice di Dio, si fonda sopra una nozione naturale che diede occasione ad un mito cosmogonico. Ma la evoluzione del mito cosmogonico rivela a noi un altro grande e stupendo e poetico mistero religioso. L’acqua che appare principale elemento di creazione, nella cosmogonia biblica, come nella indiana, nella leggenda del diluvio ritorna come acqua lustrale, che purga il mondo, che lo lava, e da cui emerge un nuovo uomo puro, pio, virtuoso, Noè nella tradizione biblica, Manu nella indiana, Deucalione [p. 41 modifica]e Prometeo nella greca; l’acqua cosmogonica, l’acqua generatrice, diventa, nella leggenda del diluvio, un’acqua rigeneratrice, un’acqua lustrale. Le lustrazioni con l’acqua divennero quindi popolari a quasi tutta l’antichità. Sopra questa credenza antichissima si fonda puro lo splendido rito cristiano del battesimo. Come l’indiano faceva da tempo antichissimo abluzioni nei suoi sacri fiumi, nei suoi sacri stagni, sperando mondarsi da tutte le colpe, così apparve in Giudea Giovanni il battezzatore che dovea nelle onde del sacro Giordano battezzare il figlio di Dio fondatore della religione cristiana. L’antico culto dell’acqua trovò una nuova e più splendida e più spirituale consecrazione nel Cristianesimo. L’acqua del Battesimo non deve ora più dar vigore alle membra del fanciullo, ma mondarlo dal peccato originale, pel quale egli è mortale, ed assicurargli la sua parte d’immortalità. L’acqua diventò non solo la purificatrice de’ corpi, ma molto più quella delle anime. Chi riceve il Battesimo e intende il senso riposto del sacramento, si purifica e diventa degno di salir poi al Regno immortale de’ Beati. Il rito cristiano non solo non contraddice all’antico mito delle acque generatrici e rigeneratrici, all’antico culto delle acque lustrali, ma lo purifica, lo idealeggia, ne fa una nuova credenza più spirituale. Negli antichi monumenti cristiani trovansi perciò spesso rappresentati i seguenti soggetti: Adamo e la creazione, l’Arca di Noè, Giona, Arione ed il delfino; sono tutte rappresentazioni nelle quali si vide, senza dubbio, dai primi artisti cristiani ed agiografi una grande affinità con la [p. 42 modifica]vita di Gesù Cristo, che passeggia sulle acque, che prende per suoi discepoli semplici pescatori, che fonda la sua religione sopra il sacramento del battesimo. Nei più antichi anelli cristiani il Salvatore appare pure in forma di un delfino con un’áncora, simbolo della speranza, della salute, ossia della speranza di campare l’uomo dal naufragio spirituale. L’abate Martigny ricorda, nel suo Dizionario delle antichità cristiane, un geroglifo battesimale cristiano, nel quale appare un fanciullo seduto sopra un pesce. E il vescovo Orientius, nel quinto secolo dell’era volgare, scriveva: Piscis natus aquis auctor baptismatis ipse est (Il pesce nato nelle acque è lo stesso autore del battesimo). Tertulliano paragona i Cristiani a pesciolini, poichè nascono nell’acqua come il pesce Gesù Cristo; e soggiunge che, come il pesce fuori dell’acqua non vi è salute, così non vi può essere pel cristiano fuori dell’acqua battesimale. Da questi e simili esempî chiarissimi appare evidente che la magnifica allegoria morale cristiana del battesimo rigeneratore si svolse sopra antiche nozioni mitologiche, le quali alla loro volta si fondavano sopra l’osservazione poetica de’ fenomeni naturali più singolari. Dai miti si ascende talora ai dommi, dalla mitologia alla religione, per quel bisogno continuo di una superiore idealità che tenta ai voli più sublimi l’intelletto dell’uomo. La base di ogni gran monumento religioso è per lo più una mitologia; sulla sua vetta siede splendida e serena la teologia; ma salire dall’una all’altra non è da tutti; la mitologia è una umile creazione spontanea; la teologia [p. 43 modifica]un’alta creazione riflessa; il domma dell’acqua battesimale, se fosse inteso come dovrebbe, ossia se ogni cristiano sapesse qual beneficio gli può venire dalla purità, di cui l’acqua battesimale è simbolo, s’accosterebbe più bramoso a quell’onda vivificatrice, a quell’ambrosia divina, per la quale s’acquista veramente la virtù e la dignità di godere la vista delle cose divine. Anche il nostro maggior poeta, prima di lasciare il Purgatorio, guidato da Matelda all’acqua sacra di Eunoè, vi si disseta ed attinge in essa il vigore e il candore necessario per salire al Paradiso:

 Io ritornai dalla santissim’onda
 Rifatto sì, come piante novelle
 Rinnovellate di novella fronda,
 Puro, e disposto a salire alle stelle.