Lepida et tristia/Divagazioni in bicicletta
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DIVAGAZIONI IN BICICLETTA
Qui certamente tu vivi, e qui ti possiamo cercare ed adorare ancora, noi solitari innamorati del tuo bel nume.
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Ma l’accademia, la scuola, i contabili delle lettere con le sottigliezze preziose, con le selve dei loro ragionamenti, con la prepotenza della loro infallibilità; gli adoratori del bello con i loro Baedeker dell’estetica; tutto questo ed altro mi ha stancato e svogliato dall’antico mio costume di cercare la patria ed il suo nume, nei libri e nelle opere d’arte. Troppi insetti vi depongono le loro uova.
Io credo che gli stessi spiriti magni, gli operatori, i pensatori, i poeti che segnarono i gradi della storia nostra, non molto si allietino di tanti onori.
Io credo, ad esempio, che se alcun umile viandante ripete nella sincerità del suo cuore un verso di lui, di Dante Alighieri, perchè germogliò spontaneo nel cuore, attraversando
lo dolce piano |
ciò deva essere molto più grato al Poeta di tutte le selve selvagge dei commenti, di tutte le accademie che si celebrano in suo onore.
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Per queste evidenti ragioni che, oimè, non otterranno la generale approvazione, ho messo da un lato i libri e sono saltato in bicicletta.
Io dunque, o cara patria, ti cercherò nel colore del tuo mare, nella fìsonomia delle tue valli, ne’ profili de’ tuoi monti, nel profumo de’ tuoi fiori e de’ tuoi campi. Io vi interrogherò e voi, per vostra umanità mi risponderete.
I pioppi sussurranti al vento della sera, il mare mormorante che si desta al tepore del sole mi hanno spesso onorato della loro confidenza, la qual cosa non sempre mi successe con gli uomini.
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Oimè, che per vedere terre, monti e marine, anche di questa piccola parte del mondo che è l’Italia, non basta il buon volere e il dolce richiamo delle cose! Danari occorrono, ed io se pagassi l’oste con il compenso di un gentile pensiero o col rivelargli quale è il vero, profondo significato, poniamo, del mare che invano fu sempre sotto i suoi occhi, miopi per tutto fuor che per la sua azienda, sarei crudelmente beffeggiato.
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Dunque piccolo spazio mi è concesso percorrere e non per difetto di volontà.
Una bicicletta di origine americana ma che stando da anni in mia compagnia ha preso un certo amore all’Italia, mi permette autonomia di movimento e di fermata, e sopratutto risparmio di spesa. Questa servizievole bicicletta ha un solo inconveniente.
Io la rilevai da uno dei più famosi uomini sportivi che vi siano in Italia; gran signore e di generose abitudini (però la bicicletta la pagai a contanti).
Ora quando ci fermiamo in qualche umile osteria, è seccante sentirsi dire ogni volta, dalla bicicletta: «Quand’ero col primo padrone, dovevi vedere dove si andava ad alloggiare!»
Tranne questo difetto, è una macchina eccellente che per i monti fa miglior prova che in piano.
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Lunedì degli ultimi di questo luglio sono partito per Ravenna, solo, in bicicletta, dunque, prima del giorno.
Il sole mi si levò sopra Bellaria, la indimenticabile Bellaria, a quell’ora addormentata nelle sue cento fra ville e casette, lungo le dune del mare, addormentato anche lui. Solo l’Uso, l’antico Rubicone, bisbigliava ancora fra i tamarischi le storie di Cesare vittorioso.
Dopo Cervia la via diventa piana e bellissima e si addentra nella pineta di cui i tronchi disposti come le colonne degli antichi templi, si diramano e si abbracciano in alto in forma di ombrelle. E fra i tronchi luceva in lontananza la linea cilestre del mare con una incomparabile dolcezza. Questa di Cervia è quanto ancora di più intatto rimane di quella selva litana famosa: «la divina foresta spessa e viva» dove Dante vide sorgere;
una donna soletta che si già |
Ora lustre occhieggiano le acque salmastre fra i pini, e la ninfea si apre e diffonde il suo melanconico profumo nel grande silenzio.
E sulla linea verde delle paludi grandeggia lontano un tempio e una torre tonda. Siamo a Sant’Apollinare in Classe. Quivi le navi di Roma imperiale, quivi le galere bizantine approdarono: triremi con vele di porpora recarono quivi i re del mondo: sonava l’opera de’ navalestri nel grande arsenale: sorgevano mirabili edifici. Oggi è il deserto: solo rimane questa mina di tempio. Pure davanti a questa ruina v’è una voce che dice: — Fermati, qui la voce dei secoli ti aspetta! Ho detto «deserto», ma la parola pecca manifestamente di esagerazione poetica: dietro S. Apollinare sorgono alcuni bassi e disadorni edifici recenti. Due alti camini gettano un largo nembo di fumo; e se la notte vedete alcune tenui e splendenti fiammelle, esse non sono le anime dei bizantini, degli ariani chiusi nelle immani arche marmoree del tempio: sono le lampadine elettriche e quell’edificio nuovo è una raffineria di zucchero di barbabietola.
Ebbene, ben venga la barbabietola, e cada a terra la selva dantesca; sorga l’officina operosa e fumante, e l’antica torre bizantina che gettò la luce del suo faro sulle acque del mare che già qui presso mormorava, frani in ruina. Pianga il cuore del poeta purchè rifiorisca il valore in questo popolo italico «da le molte vite», cui forse, per troppo volger di tempo, aduggiò l’ombra e il peso delle memorie.
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Ma ecco una nota più gaia.
Io aveva un fine berretto con la visiera e una maglia tutta bianca, e a pena m’accostai al tempio vidi un ragazzetto correre verso casa urlando a squarciagola: — Memma memma, l’è arrivò un inglès (mamma, è arrivato un inglese). — Io non ci fo caso, entro in chiesa e, naturalmente, mi levo il berretto. Ma l’impressione del freddo — sudato come era — fu tanta che, visto lì vicino un gruppo di muratori che facevano colazione (in Romagna a far colazione, bestemmiare Dio che è il governo del cielo, il governo che è il Dio della terra, si comincia abitualmente presto) domandai ad uno di essi la sua giacchetta. Era una giacchettaccia tutta sporca di gesso, di cui alzai il bavero e strinsi sul petto le falde.
Proprio in quel momento con gran premura e con un gran mazzo di chiavi entra la guardiana. Il ragazzo mi riconosce e mi indica alla mamma.
La donna mi guarda, si rivolge al ragazzo e puntandomi contro il dito, con un disprezzo intraducibile, dice forte — Quel l’è un inglès? — Buttò via le chiavi e mi rivolse superbamente le spalle trascinandosi dietro con dispetto il figliuolo.
Di questo magnifico tempio bizantino del secolo V, consacrato dall’arcivescovo Massimiano a S. Apollinare, non restano che le colonne di marmo greco, reggenti le tre navate, e la tribuna. Delle pitture musive parietali, di marmi, del pavimento, della travatura a stelle d’oro nulla rimane: asportato, distrutto, rifatto tutto. Anche oggi il vento del mare e la salsedine, entrando per gli aperti fìnestroni, finiscono per corrodere quanto di intatto avanza ancora del prezioso mosaico che copre la tribuna. Questo del resto è uno dei templi meglio conservati di Ravenna!
Io non dimenticherò mai l’impressione che mi fece la vista di quel musaico!
Quelle figure palliate a linee rigide, così grandi che si curvano per tutta la vòlta, fra piante, animali e simboli; quegli stellati cieli, que’ prati, ove le capre pascono i mistici gigli, quelle luci di oro o di azzurro, que’ prodigiosi giuochi di ornato bene hanno un significato, una ragione di essere ed esercitano una suggestione potente. Oh, come al confronto è poca cosa l’artificioso simbolismo esotico che tanto piace agli esteti di mestiere!
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Da Sant’Apollinare a Ravenna il tragitto è breve: cinque chilometri. Con tutta sincerità: a chi è per temperamento disposto a melanconia ed ha qualche notizia di arte e di storia, non è consigliabile la visita a Ravenna; tutt’al più bisogna fare come fanno i nostri buoni romagnoli delle città vicine: vi vengono pei loro affari, li sbrigano, e poi vanno a mangiare delle eccellenti tagliatelle e a bere dell’Albana squisita al «Cappello».
A Ravenna il peso delle memorie è ingombrante; la desolazione dell’oggi le ingigantisce in un modo doloroso. A Ravenna v’è troppa roba: vi è Grecia e Roma, Bisanzio e Venezia, Giustiniano e Teodorico, San Vitale e Belisario, Dante e la Divina Commedia, Pier Traversaro e Pietro di Dante, Gastone di Foix e Giorgio Byron, Francesca e la Guiccioli. E per quanto abbiano distrutto di musaici, vi rimane ancora tanto di figure, di oro, di fiori da farvi sognare vostro malgrado.
Oh, quelle sempre ricorrenti grandi imagini di simboli, di animali mistici e di fiori, di santi bianchi, di vergini che splendono nell’oro: e quando uscite dai templi, quel diffuso splendore di cielo disteso sulla linea bassa delle paludi e dei pini! L’oriente, dipartendosi, vi ha lasciato bene la ineffabile sua luce! Oh, il fascino delle figure di Giustiniano, di Teodora nella tribuna di San Vitale! oh, sepolcro d’oro di Galla Placidia! oh, statua sepolcrale di Guidarello Guidarelli! Che l’archeologia vi rispetti!
In verità io credo e sento che la storia e che gli uomini scomparendo lasciano pure qualche cosa d’immortale e di inafferrabile, e di non registrabile negli elenchi degli storici.
Io non lo negherò: l’anima mia fu compresa dal terrore per il tempo che distrugge: ma pure e più fortemente fu vinta da un desiderio di amare. Non sogno di gloria, non trionfo di armi, non desiderio di sapienza mi stimolavano più vivamente tra quelle tristezze di memorie e di marmi, no: ma il desiderio di amare, di sorgere con l’amore alla comprensione di tutto ciò che sfugge alla ragione.
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Intendiamoci: Ravenna non è come Roma, come Venezia, come Firenze, dove i monumenti saltano agli occhi. A Ravenna bisogna andarli a cercare e scoprire, cosa non facile anche perchè il genio paesano si è esercitato a mutare i nomi a quasi tutte le vie. Vero è che questa devastazione di una fra le città più gloriose del mondo è relativamente recente.
Ravenna al tempo di Dante (era già corso quasi un millenio dal tempo del suo splendore) dovea serbare, benchè antica e diruta, come la ricorda il Boccaccio, tutte le grandezze delle civiltà sovrapposte: la romana, la gota, la bizantina, l’una trionfante sull’altra senza però distruggersi ma glorificantisi l’una con l’altra: non era un’età, non era una regione sola: era l’occidente e l’oriente, il genio latino e il genio germanico che si erano incontrati lì, nella foresta dei grandi pini. La visione dell’impero che vibra per tutte le cantiche della Commedia, che assurge concreta nel VI del Paradiso, Dante — secondo me — non l’ebbe interamente nè da Roma, nè dai libri; ma da Ravenna: lì v’era la materia che gli parlava il profondo linguaggio delle cose che nessuno sapeva interpretare meglio di lui. Recatevi in San Vitale, aspettate un poco nel silenzio di quella tribuna — sogno d’oriente — e sentirete l’anima vostra immergersi nel tempo, giù: la figura di Giustiniano, prima fra gran corteggio, vi guarda dall’oro del musaico e dice:
«Cesare fui e son Giustiniano». |
Così quest’altra idea mi venne in mente visitando Ravenna: quel non so che di simmetrico, di misticamente adorno che informa il purgatorio e il paradiso dantesco, non fu in parte, se non inspirato, almeno regolato dalle pitture musive di Ravenna? I profeti, le vergini di Sant’Apollinare Nuovo, procedenti con la corona fra gigli e rose, le figure aggirantisi per le cupole de’ due battisteri, non sembrano forse illustrazioni della Divina Commedia?
Io non cito che alcuni dei monumenti che ancora si conservano, tutt’il resto oggi è rovina e si direbbe mito se i preziosi cimeli che si scavano — la più parte a caso — non ne facessero testimonianza: ma al tempo di Dante dovea essere da per tutto un triopfo di figure luminose da imporsi necessariamente alla fantasia.
Gli stranieri che dai grandi centri dell’attività moderna vengono numerosi a Ravenna (l’albo del Museo reca per la più parte nomi stranieri) io credo si compiacciano in questo cimitero di morti e di vivi; ma per un italiano è cosa che stringe il cuore.
Perchè le devastazioni superano il credibile: il sacco di Ravenna, seguito alla celebre battaglia nel 1512, che arse, spogliò, spopolò, ruinò per sempre la città, deve essere stato forse di minor danno che le manomissioni dei frati, dei gesuiti e degli accademici nei secoli XVII e XVIII. Per quella brava gente la mistica linea del tempio bizantino, la purezza di quell’arte costituiva un’offesa al loro senso artistico: buttavano giù quello che per antichità minacciava di cadere, facevano minacciare quello che stava ritto. — Volute, curve e biacca — biacca, volute, linee spezzate, — santi e angeli idropici — fu la parola d’ordine.
Così, ad esempio, si profanò tutto San Vitale; così le colonne del tempio Ursiano, splendida basilica a cinque navate, abbattuta nel 1733, vennero segate come fette di salame e insieme con le transenne o balaustre, traforate a giorno, miracolo di ricamo nel marmo, servirono di pavimento al nuovo tempio. Che dire poi della ignoranza della indifferenza della popolazione?
Nel 1854 facendosi degli scavi per il porto, i lavoratori trovarono un oggetto d’oro: lo trafugarono, lo spezzarono, lo fusero. Era la famosa corazza di Teodorico, completa, d’oro, lavorata a giorno, con intarsiatura di pietre preziose — un valore inestimabile: non ne rimane che un pezzettino di pochi centimetri — salvato Dio sa come, e che si conserva nel Museo. E la rabbia dei restauratori? Quante teste di poveri santi vennero asportate e vendute, Iddio lo sa!
O se invece di spendere il danaro ad ingombrare le piazze di enormi massi di marmo di Carrara, che tutti assicurano rappresentare i soliti eroi del risorgimento, avessero provveduto meglio perchè la salsedine e l’acqua del sottosuolo non finiscano col far franare ciò che ancora rimane!
Ma via, meglio lasciar Ravenna — meglio e più igienico correre in bicicletta! e così feci una bella mattina dando un ultimo addio alla tomba di Teodorico il cui monolito scomparve in breve tra il verde.
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Ridente il mattino, luminosissimo il sole per la verde landa: o sole benefico, quanta gloria e quanta miseria umana tu illumini! guai se in te, divina materia, fossero i lampi di corruccio che tormentano l’anima umana!
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Rifeci la via percorsa, e lasciata la riva del mare, presi per la montagna rimontando la valle della Marecchia.
La valle della Marecchia è una delle più storiche e pittoresche che io mi conosca. L’alta regione del Montefeltro è un incanto di verde e di alpestre solitudine. Gli svizzeri la sfrutterebbero a meraviglia con alberghi, belle strade, obbligo a contemplazioni e visite storiche. I buoni romagnoli è molto se vi fanno correre una diligenza in cui io non consiglierò nessun amico a viaggiare. Di alberghi non ne parliamo.
La via si svolge da prima tra le colline, lungo le sinuosità del corso medio del Marecchia che vi forma bella e grande vallata.
Dietro di me era il convento della Villa, bianco in mezzo a gran chioma di piante fra cui un cipresso che la tradizione dice piantato da San Francesco quando peregrinò per quella regione, e indi passò in Casentino, ove dal conte Orlando, signore di Chiusi, ebbe in dono quel selvaggio ed aspro monte della Vernia che fu consacrato poi dall’eroica follia del suo martirio, come in dolce stile di monastica semplicità è narrato nei Fioretti che dal santo hanno nome.
Io non voglio proprio affermare che il poverello d’Assisi, il serafico santo nostro Francesco, avesse un ingegno molto positivo — sempre secondo i criteri moderni — in quella sua ostinazione a volere sposare Donna Povertà a dispetto di ogni esempio della vita e di ogni buon consiglio del padre suo; e perciò vivere miserabile e mendico, ramingando scalzo, a pena coperto di rozzissimo saio tanto l’estate come l’inverno. Tutto ciò è ben impratico, a dir poco, tanto più se si pensa che egli avrebbe potuto andare in paradiso lo stesso, conservando la sua ricchezza come fanno tanti che pure sono destinati alla gloria del cielo, almeno secondo ogni ragionevole presunzione. Andare in paradiso in carrozza è uno dei migliori affari che si possano stipulare in questa vita e nell’altra. S. Francesco invece anelò di andarvi a piedi e scalzo, e come ciò non bastasse, camminando proprio dove la strada aveva più rovi e spine ed ortiche. E non basta: anche certi ragionamenti speculativi e morali tenuti di verno in mezzo alla neve e con un vento di bora che dovea farsi sentir assai bene sotto la tonacella, dimostrano che il Santo era originale più del bisogno. E se frate Leone, che gli era compagno, non gli disse: «Orsù, padre, affrettiamoci prima a Santa Maria degli Angioli: quivi ragioneremo dell’Umiltà finchè vi talenta: ma poniamoci al coperto, se no in breve morremo di gelo!», se questo non gli disse, fu solo per il grande rispetto che avea per lui: ma è presumibile che lo pensasse, tanto è vero che alle interminabili tirate del Santo rispondeva a pena poche parole, come a sottintendere: «Padre, per carità, qui si congela!»
Nè sarà necessario ricorrere agli studi in proposito del signor Cesare Lombroso — gran ricercatore della demenza, anche dove ella non c’è — per persuaderci che in quella ostinazione di volere in tutto e per tutto imitare Cristo, era in S. Francesco qualcosa della nobile follia che trasse Don Chisciotte a seguire gli esempi dei più celebrati cavalieri e paladini di Britannia e di Francia.
E venendo infine a quelle famose stimate che il Santo riportò in sulla Vernia, copia conforme delle ferite che Cristo ebbe in sulla croce, e per le quali poco dopo il Santo fu tratto a morte immatura, dirò che uno spirito scettico e moderno, visitando la Vernia, può recare altra opinione di quella contenuta nelle sacre leggende francescane.
Uno spirito scettico contemplando gli orridi burroni del
crudo sasso fra Tevere ed Arno |
può domandare a quelle schegge taglienti come immani coltelli, se ne sanno qualcosa delle famose stimate.
E tutta questa mia divagazione a qual fine? alcuno può chiedere.
Semplicissima è la risposta: «La follia di S. Francesco, se follia fu, è di tal natura che non temette contagio per il passato evo di mezzo in cui gli ingegni erano tanto rozzi che nessun filosofo naturale sorse — come oggi sorgono — a determinare con precisione matematica i campi della pazzia e della ragione.
E se non fu epidemica per il passato, molto meno lo sarà al presente; e Donna Povertà, fatta vedova e deserta da questo terzo marito, ha un bell’aspettare che altri volontariamente la sposi con la sua gemma!»
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Ma già le colline dai fertili pendii cedono agli alti poggi: i monti perdono la loro luminosità azzurra e lontana e si accostano con più determinato profilo. La pendenza ascendente del piano stradale comincia a farsi più sensibile per le ruote della bicicletta; ma per compenso la valle restringendosi, presenta una mirabile varietà di aspetti, ad ogni svoltar della via.
Massi ferrigni e lividi sporgevano dai monti e lungo la via qua e là: un odore caldo di prugne mature e di musco saliva dalle siepi e dai greppi, nel meriggio caldo e dormente.
Dolce è pure il meriggio caldo nella campagna, quando il lontano mare manda ai monti riarsi il fiato fresco e ristoratore della sua brezza. Dolcissimo è l’andare per la bella campagna nell’estivo meriggio quando non c’è orario di partenza nè orario di arrivo.
I popoli che non hanno orari, obbietterà qualche savia e ordinata persona, senza dubbio si trovano nella più fiera barbarie. Verissimo è in fatto. Licurgo, quando impose la civiltà ai fieri suoi Eraclidi, prescrisse per prima cosa un orario di occupazioni ginnastiche. Ma si convenga con me che un individuo civile, senza l’aculeo dell’orario ai fianchi, è più di ogni altra persona in condizione di essere felice.
Tale era io allora, e nessuno mi impedi di scendere dalla bicicletta e condurre a mano la fida compagna.
Quando la strada, per qualche raro tratto discende, allora si monta di nuovo in sella e si percorre di volata tutta la discesa senza toccar pedale. Da quell’impulso la bicicletta è sospinta sino ad un terzo della costa susseguente. Quivi essa si ferma da sè e vi dà il buon consiglio di scendere, giacchè lo sforzarsi per lunghi tratti di salita può esser cagione di qualche perturbazione del cuore.
Voi scendete e contemplate il paesaggio — come facevo io allora — oppure vi date ad osservazioni filosofiche politiche. Il meglio però è non pensare a nulla. Giunto al sommo della costa, si fa una seconda volata e così di seguito. Viaggiando in montagna, ho sempre adottato questo sistema ingegnoso, rapido e salutare.
Esso è consigliabile, ed ha il solo inconveniente che la bicicletta, vinta dall’ebrezza della discesa, non voglia più salire la contropendenza, ma preferisca precipitare in qualche sottoposto burrone. In tal caso, rimanendo in vita, è necessario riparare, quasi ah integro, la propria macchina.
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Dunque andavo di tratto in tratto a piedi, contemplando il paesaggio.
Ecco sfilano i monti, incoronati di memorie. Prima è Verucchio, culla dei Malatesta antichi, appollaiata sull’alto del poggio, là dove esso scoscende in balze dal colore ferrigno.
Segue S. Marino:
l’azzurra vision di San Marino |
come ben nitidamente canta Giovanni Pascoli, nostro, e di nostra terra natio.
S. Marino — che per chi lo guarda di fronte, presenta la maestosa sua curva con le tre torri e le tre penne — ora appariva di fianco come un gran triangolo nero lanciato nel cielo: e le tre penne, o vertici turriti, viste di scorcio, parevano protendere fieramente come aste vigilanti, quasi fuor di base, verso la gran lama azzurra dell’Adriatico, verso la costa dalmatica da cui venne il monaco errante che diede nome e libertà di secoli al monte.
Oh, libertà di S. Marino! solo paese del mondo a mia nozione dove un campo, grande da alimentare una famiglia, paghi di colta — là non dicono nè meno «tassa» — lire due per semestre, e una casa soldi diciotto!...
Io, anni addietro, viaggiando per queste libere balze, pensavo a questi benefici di una civiltà semplice e patriarcale, quando un doganiere italiano s’avventò contro la mula, mi strappò lo sigaro che fumavo, mi sequestrò un altro sigaro che avea in tasca, mi frugò, mi applicò la contravvenzione e fu grazie e gentilezza se non mi condusse sino dai signori carabinieri per la identificazione.
Ebbene: un partito illuminato e progressivo si agita e si propone di trasformare o almeno di riammodernare l’ordinamento di quell’antica republica, la quale per la sua costituzione ricorda da vicino gli antichi comuni medioevali italiani.
Che l’idea sia eccellente, proprio io non so. Per mio conto, quando sorge una fazione potente in una città o in uno stato; la quale vuole decisamente una ben determinata riforma ovvero istituto, consiglierei senz’altro di lasciar fare e metter in pratica ciò che più talenta.
Dopo tutto la vita è una serie di esperimenti; e gli esperimenti di civiltà in ispecie, sono come delle cambiali tratte all’ordine dei nipoti. Costoro alla loro volta le girano ai loro più lontani nipoti, e così sempre di seguito senza mai finire. La cosa finirebbe solo il giorno in cui il sole fosse seccato di tenere accesi i lumi della ribalta e dicesse: io spengo!
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Dopo S. Marino viene un curioso sasso montano spaccato a forma di V. Il quale dalla leggenda popolare è chiamato il Sasso d’Ortando perchè dicono che Orlando impazzito, furens o furioso, si elevò sul detto monte e con la durlindana lo spaccò. Dopo è rimasto sempre così, e così lo chiamano tuttora.
Ecco una leggenda che non mi pare spregevole per intendere come in fondo l’Ariosto dando quel carattere grottesco e nel tempo stesso terribile ad Orlando, non vi aggiunse gran che di suo, ma non fece altro che riprodurre con la magia dell’arte ciò che in fondo era nella coscienza del nostro popolo.
E una seconda tradizione orlandesca ricordo che risponde al medesimo senso: essa non si trova nei libri degli eruditi e perciò la riporto: Per la via Flaminia, a tre chilometri da Rimini, ad un luogo detto il Terzo, cioè ad tertiam lapidem è, a punto, una colonna miliare romana alta un tre metri. Ebbene il popolo la chiama con un vocabolo che non è decoroso di riferire; ma vuol dire press’a poco come la traccia del passaggio dell’eroe carolingio.
Ma la cosa più ammirevole pensando al franco Orlando, figlio di Berta dal gran piè e nipote di Carlomagno, consiste in cotesta ben strana combinazione, che tutti coloro fra gli altri popoli, che furono insigni per qualche loro anormale virtù — santi, guerrieri, eroi, poeti, avventurieri, apostoli, ecc., — ebbero dal più al meno a che fare con l’Italia; alcuni anzi vi si connaturarono completamente, come avvenne ad Orlando.
Della qualcosa l’onore per lo meno, se non il beneficio, è stato grandissimo.
⁂
S. Marino ora si vede da tergo: ora da presso sopra un monte da ogni parte scosceso a picco per più di duecento metri, biancheggiano i maschi di una fortezza: S. Leo, la famosa carcere politica ai tempi del cessato governo pontificio, dove, fra gli altri, fu ospite forzato e vi morì il famoso conte di Cagliostro, Giuseppe Balsamo: c’è ancora la cella dove è morto, e si conserva l’atto mortuario.
Quell’antico carcere dove nel lento martirio crebbe l’idea della patria, lassù fra la benigna pace dei monti, faceva tristezza, come del pari facevano tristezza questi lenti versi di Dante:
Vassi a S. Leo e discendesi a Noli,
Montasi su Bismantova in cacume
Con essi i piè, ma qui convien ch’uom voli.
Alpestre e mirabilmente selvaggio di querce e di castagni si faceva intanto, di mano in mano, il paesaggio appenninico. Dietro a noi il Maiolo levava la sua piramide tragica per paurose leggende e sfumava oramai; davanti il gran monte di Carpegna si disegnava nitidamente e così la doppia amba del monte Simone.
Qualche convento solitario: rari aggruppamenti di case apparivano sino a mezza costa dei monti: un odore anche più acre e forte di muschio, di mentastri e di ginestre si librava nel caldo pomeridiano.
⁂
Tutta questa ultima regione con altre molte borgate e castella, sino a Pennabilli che ne segna l’estremo confine, forma il Montefeltro, con caratteri fisici ed etnici suoi propri. La popolazione vi è laboriosa, sana, ossequente alla religione ed alla legge. I conti di Carpegna, antichissimi signori di quella terra e da cui pervennero i Montefeltro e i Malatesta, benchè oggi siano in modesto stato, conservano nel remoto borgo di Carpegna un palazzo d’aspetto feudale e vi godono di un ossequio non vile e che molto onora chi ne è l’oggetto.
Ivi nulla quasi della riottosità e della prepotenza romagnola, nulla o quasi di quell’istinto di ribellione alla legge che è caratteristico della regione posta:
Tra ’l Po, e il monte, e la marina e il Reno. |
Però chi vuole fare esperimento delle cose dette, chi vuol conoscere questa buona gente montanara del Montefeltro, faccia presto a recarsi lassù.
Le cose cambiano presto ai nostri giorni, e i sentimenti che troviamo oggi, è molto dubbio se perdureranno sino a domani.
Concludendo sulle cose dette, se per la via da me percorsa non vi sono nè alberghi con tutto il comfort moderno, nè mezzi rapidi di locomozione, per compenso abbondano le memorie e le glorie.
Uno potrebbe rispondere che i Baedeker ne tacciono il nome. Ebbene esse sono scritte con larga parola e più che lievi accenni nelle storie d’Italia, nelle leggende di S. Francesco, nel poema di Dante e infine non è esclusa la possibilità che quell’industre popolo che fa adorare agli erranti, doviziosi stranieri, la tomba di Guglielmo Tell, renda celebrati e frequentati anche i luoghi del Montefeltro.
⁂
A Pennabilli la via cessa. Esso è l’ultimo confine a cui si spinga la diligenza: una di quelle diligenze che fanno venire il mal di mare e che in quel giorno fece l’ultimo tratto di strada, onorata dalla compagnia della mia bicicletta.
Dunque chiusa era la strada; però da parecchi anni si lavorava per la costruzione di un tronco di via che congiunge quel lembo estremo del Montefeltro con la Toscana. Il lavoro in mezzo a liti giudiziarie, incertezze di lavoro, incurie e difficoltà reali procede così lentamente che non vorrei assicurare che oggi pure sia terminato.
A me del resto la cosa interessava mediocremente, avendo già l’animo preparato e disposto a raggiungere su per i monti e per i sentieri, con la bicicletta alla mano, la via di Toscana, Invece le cose andarono meglio di quel che io mi ero pensato, e ciò sarà detto più innanzi.
⁂
Il mio arrivo a Pennabilli non destò alcun entusiasmo nella popolazione. Il postiglione, non so se per consuetudine per rispetto alla mia compagnia suonò a riprese il corno, ma con mediocrissimo effetto.
Un’importante funzione religiosa tratteneva la popolazione verso la chiesa; e i preti della processione erano moltissimi come si conveniva a borgo che da tempo antico è diocesi vescovile.
Pennabilli raccoglie le sue poche case attorno a una piazzetta con porticato e chiesa. Non vi sono, per quanto se ne faccia ricerca, nè hôtels e nè meno trattorie. Qualche famiglia del luogo tiene a disposizione dei rari forastieri una o due stanze, per allestirvi le quali vanno sottosopra tutte le donnette del vicinato: e voi ne avete l’animo pieno di mortificazione. Per mangiare v’è un’osteria che ha adottato un sistema ingegnosissimo di contabilità, comodo per il proprietario e per gli avventori.
Io non ho nessuna difficoltà a renderlo di publica ragione; libero, liberissimo qualunque albergatore svizzero lombardo di trarne profitto se intendesse piantare un hôtel lassù, come stazione climatica.
Ma il nome di quest’oste di Pennabilli che sarebbe degno della riconoscenza mondiale se il suo sistema venisse adottato, io non riporterò qui per rispetto alla sua modestia.
Ecco il sistema: egli fa pagare una lira ad ogni avventore che pranza, non un centesimo di più. In quel giorno oltre ad un galletto arrosto, minestra, frutta, vino di bottiglia, c’era anche un piatto di tartufi.
Chi non ci crede provi e vedrà se io vi aggiungo una sillaba di mio.
L’onestà inerente ad una vita patriarcale e semplice, produce di questi frutti.
Quella sera, essendo la luna piena, il municipio risparmiò il petrolio alle due lampade che hanno la missione di rendere luminosa la piazzetta di Pennabilli.
Per mio conto, dopo aver constatato la completa serenità del cielo, andai a dormire in sulla prima sera e non mi destai che al canto dei galli. Quando mi destai, sopra il vertice del Maiolo saliva la stella di Venere, nuncia silenziosa dell’amore, di una dolcezza argentea senza nome. vera gioventù delle cose, ridente eterna sulle nostre superbe miserie!
⁂
La via biancicava a pena nell’incerto mattino, ma ben presto le stelle caddero e l’aurora fiammeggiò sul mare in fondo alla valle del Marecchia. Tra Mercatino e Pennabilli si apre la via di cui prima ho parlato: essa fa trebbio e v’è una colonna che dice — via per la Toscana. — È un’illusione, perchè dopo cinque chilometri circa la via si perde tra le paludi del fiume e del confluente suo, il Messa. Molti operai e manovali vi lavoravano in quel giorno a costruire dighe e ripari; più innanzi gettavano la massicciata o semplicemente tracciavano la via; così per circa sei o sette chilometri, e quella gente vedendomi passare i guadi o tentare i passi con la bicicletta sulle spalle o a mano mi compassionava in tuono canzonatorio; giacchè per il villano tutto ciò che non fu fatto o è audace o originale desta il senso del ridicolo. Dopo due ore di fatica non comune, finalmente raggiunsi il tratto solido e l’ultima schiera di operai mi disse «bravo!» e di cuore e mi assicurò che le mie gomme erano le prime a calcar quella via; e in fatto due villanelle che pascolavano il loro gregge mi accertarono di non aver visto mai di quei cavalli che mangiano aria.
Questa via che si congiunge con l’antica strada di Badia Tedalda, corre fra i monti in lieve salita, continua, sempre lungo il corso del Marecchia: la ghiaia non è calcata da ruote, il paesaggio è silvestre: qualche mulino in fondo al fiume, viandante nessuno. Solo un uomo che faceva la mia strada mi si accompagnò, un uomo con un ragazzo; ambedue col sacco in ispalla: nei tratti ciclabili io montavo in sella, percorreva cinque o sei chilometri ma finivo sempre per incontrare il mio uomo davanti a me cha pareva prender gusto a quel giuoco. Ciò mi sorprese non poco, ma la spiegazione del mistero mi fu data osservando le sue gambe lunghe, aduste e moventisi come compasso e sapendo la sua professione di onesto contrabbandiere. Pigliava le scorciatoie, che di que’ monti sapeva ogni più riposto sentiero. Quando fu ben certo che io non aveva nessuna parentela con la finanza e nemmeno con la benemerita arma dei carabinieri, diventò il più allegro e piacevole compagno del mondo e con quella sua parlantina toscana — egli era di Caprese — mi veniva raccontando una serie di avventure di contrabbando piacevolissime e d’altro genere di sapore boccaccesco, tanto più grate perchè avevamo finito una formidabile colazione di uova e prosciutto al Mulino del Ronco: mulino selvaggio in fondo al fiume. Alcune donne discinte, tre uomini torvi e sudici ascoltavano con me l’allegro narratore; sotto mormorava il filo d’acqua del Marecchia e i dossi dei monti si elevavano verdi nel sole.
Lasciai il mulino alle dieci e come mi si aprì un sentiero abbastanza ciclabile, montai in sella e allora le mie ruote ebbero definitiva vittoria sul terribile compasso del contrabbandiere; non lo vidi più.
Dopo due. ore di cammino, giunsi a te, Badia Tedalda, melanconica, erta sotto le roveri. Mezzogiorno sonava tra quel verde. Entrai in un’osteria per dissetarmi della lunga salita. Una fanciulla maremmana, bruna, gagliarda, linda, in una cucina bianca con molti lucidi rami, piatti e fiori, lini odorosi di lavanda, rimestava in un paiuolo la più aurea delle polente. E quando fu cotta e si staccava dal rame, la riversò su d’un tagliere, poi cominciò ad affettarla e sopra vi spargea un intingolo di funghi porcini o prunoli che mai profumo di cucina di re fu più squisito. Quindi levato un formaggio pecorino, bianco e grasso, cominciò a grattugiarlo e a cospargere la vivanda.
Certo la giovanetta era bellissima, la favella pura, le movenze avevano una grazia naturale piena di dignità, ma il profumo di quella polenta fumante e negra di funghi fu superiore ad ogni seduzione. Io cedetti tre volte privando del loro pasto que’ buoni montanari. E la ragione mi andava dicendo: «Vedrai che con tutta questa polenta dentro, farai fatica ad arrivare a Pieve Santo Stefano!»
Ma l’aria dell’Appennino presso il crinale vibra che è una delizia. Sembra che abbia delle intonazioni superbe di gloria nazionale. È un’ascensione verso l’alto. Da Badia Tedalda all’Alpe di Viamaggio sono sette chilometri di ascesa splendente di sole, di vento, di solitudine, di verdi monti. La polenta e i funghi furono digeriti, non così il tuo accento e la tua figura giovanetta, che nella gentilezza dell’atto e della voce, nella pulizia della dimora e delle vesti segnavi attraverso il deserto dell’Appennino il passaggio ad una regione italica ben diversa da quella che avevo lasciato.
Passai l’Appennino all’Alpe di Viamaggio o della Luna, presso la fonte dell’Imperatore. Chiamano nettamente, in Toscana, Alpe la linea di spartiacque; e poggi, i contrafforti e gli sproni. Lassù v’è un trebbio; una via scende a San Sepolcro, l’altra a Pieve Santo Stefano. Presi questa. Dall’Alpe al fondo della valle del Tevere sono circa undici chilometri di discesa a giravolta, ma così malagevole che ancor mi meraviglio di esser giunto incolume al largo viale di rubinie che conduce alla Pieve: certo la palma della mano era rattrappita pel lungo frenare e le gomme ardevano per l’attrito.
Pieve Santo Stefano, specie dopo il valico dell’Appennino, è un oasi. Occultata come pudica tra i monti, presso il Tevere — un Tevere piccino, niente affatto classico — è di una lindura che incanta. Le vie sono lastricate di sasso, le case sono adorne, la gente vi è cortese, il palazzo del comune alza la corona merlata, secondo lo stile di Toscana, con cotti e fregi di grande valore, infine ogni bisogno di vita costumata, civile e pulita può quivi essere soddisfatto compiutamente.
Da Pieve alla Vernia sono chilometri undici, più che meno, in ascesa quasi continua. Dalla valle del Tevere si passa in quella dell’Arno. La via difficilmente è carrozzabile, se non co’ buoi; molto meno è ciclabile.
Mi fu consigliato di lasciare la bicicletta alla Pieve e preferire la groppa di un giumento.
Questo consiglio mi sembrò ragionevole pensando che i frati francescani, gelosissimi del loro eremo della Vernia, debbono essere anche nemici delle cose nove, misoneisti, come si dice oggidì.
Una bicicletta nella foresteria del convento avrebbe potuto essere giudicata come una violazione o per lo meno dare segno di poco rispetto alle cose sacre.
S’aggiunga l’ossequio alla tradizione: È notorio che San Francesco era un famoso camminatore, non tanto forse, per vigoria delle gambe quanto per quella irrequietezza e bisogno di non star mai fermo in un luogo nè con la mente; la qual cosa è un segno non solamente dei santi veri come San Francesco (anche nostro Signor Gesù Cristo, bisogna convenirne, era un uomo di una irrequietezza straordinaria; camminava anche per il mare); non solo — dico — dei Santi, ma anche dei poeti, degli inventori e trovatori di cose mirabili e dalle quali poi gli uomini trassero straordinarii benefici.
Cristoforo Colombo fu un grandissimo vagabondo; Ulisse non era mai pago del luogo a cui approdava; Giordano Bruno fu un cavaliere errante per la sua Idea. Anche Dante fu un irrequieto straordinario, tanto che l’Italia gli parve poca e varcò i confini del mondo reale. Che dirò di Torquato Tasso, vagabondo come nobile belva ferita, di Vittorio Alfieri, di Giacomo Leopardi, di Giorgio Byron, di Percy Bysshe Shelley che vi morì? Irrequietissimi a conoscenza di tutti.
Anche quel sereno poeta e umanissimo filosofo, che parve tutto decoro, tutta mansuetudine, tutto onore ai suoi contemporanei, io voglio dire Francesco Petrarca, fu tra gli uomini più agitati dalla mania del moto che io mi conosca. Non istava bene in nessuna città; e tanta fu la passione dei viaggi che diventò persino alpinista, la qual cosa allora non era di moda.
Concludendo: tutti questi uomini che furono dalla scienza moderna affidati in vario grado alle cure di Cesare Lombroso e suoi fidi discepoli, ebbero una spiccatissima tendenza al moto irrequieto. Dalla qual cosa un filosofo profondo ed umano potrebbe dedurre una conclusione ben più sottile e dolorosa di quella a cui giunsero i seguaci di quella scuola modernissima, avere cioè quei famosi personaggi avuto in sè alcun elemento o germe di pazzìa: il che può essere vero, ma certo è troppo poco ed è spiegazione troppo umile.
Comunque sia la cosa, è certo che San Francesco avea una spiccata tendenza e quel genere di sport che i giornali si ostinano a chiamare con il più inelegante e goffo dei vocaboli «podismo!»
La cosa passò eziandio in proverbio, e dicesi andar col cavallo di San Francesco per significare che si va a piedi. Bisognava proprio che il buon Santo non ne potesse più per ricorrere all’aiuto di un giumento; e questa circostanza gli accadde appunto percorrendo, un sei secoli e mezzo prima di me, la montagna per la quale io mi avviava.
Leggasi a questo proposito quanto è raccontato nel capitolo primo delle Considerazioni delle sacre sante Istimate, che si contengono ne’ Fioretti.
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Per tutte queste ragioni lasciai all’albergo la bicicletta e inforcai la groppa di un mulo.
Questo mulo sapeva la via con quella perfezione che — a gran confusione degli scolari — solo le bestie raggiungono dopo aver ripetuto molte volte una cosa, perciò io potevo abbandonarmi alla meditazione con la maggior sicurezza: e il montano luogo selvaggio e la purezza intensa del cielo e il profumo dei mentastri e delle ginestre che mi sfioravano in una con le querce, davano al pensare un’intellettualità senza pari. Riandava con la mente il viaggio che San Francesco fece alla Vernia come è ne’ Fioretti: dove si racconta come peregrinando San Francesco con frate Leone in terra di Romagna, fu nel Montefeltro ad un nobil castello ove si celebravano grandi feste. Quivi onoratamente accolto, fu da Orlando, signore di Chiusi, donato di un monte divoto in Casentino, che era appunto la Vernia.
Dopo alcun tempo il Santo con alcuni suoi compagni si recò al detto monte, fondò il convento, fu visitato dal Signore, ne ricevette le stimmate, si ispirò fra il profumo della foresta e il canto degli uccelli a quel — Cantico del sole — che più tardi gli germogliò dal cuore d’infra gli olivi di San Damiano, ove Santa Chiara vegliava, lagrimando, la immortale passione di lui.
Ma a poco a poco andando silenziosamente — il mulo sterpava ogni tanto qualche cespuglio che di per sè gli si offriva lungo la via, e questo era il solo rumore — quel singolarissimo canto mi rifiorì nella memoria, ancorchè da molto tempo letto, e oramai quasi obliato. Me lo suggerivano in quella gloriosa giornata di luglio, le ginestre, il murmure dei rivi, la luce, le piante, il trillo degli uccelli: nasceva insomma dalle cose il cantico mirabile del frate estasiato:
Laudato sie, mi Signore, cun tucte le tue creature, |
O le antiche dispute de’ dottori della Chiesa, o le superbe anatomie degli antropologi e de’ filosofi su San Francesco, come mi apparvero poca e peritura cosa di fronte alla grandezza di quest’anima dell’umile frate, diffusa e disposata con tutte le cose create, palpitante con esse con non terminato amore, allora e sempre!
O selva della Vernia, sul monte sublime, o vivo tempio di abeti e di faggi, o schiere di rondini roteanti fra i fiori, i rami, i raggi del sole che saettano di frecce la densità delle frondi e dei tronchi, vivete voi per la virtù dell’anima che palpitava fra voi?
Attorno è quasi il deserto delle nude rocce, solo verde spessa viva è la selva della Vernia. O selva della Vernia, possa tu durare sacra e intatta e la tua vetusta nobiltà ti salvi da qualche esperto locandiere che pianti un albergo climatico, internazionale, all’insegna di San Francesco!
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Superata l’ascesa di due grandi poggi, si è ai piedi della Vernia. Il monte della Vernia, alto 1128 metri, come masso erratico in mezzo alla grande valle del Casentino, sorge in forma di triangolo e posa sul lato maggiore, il minore discoscende per quasi duecento metri fra candidi sassi smisurati dal lato di levante, e da quella punta o Penna si discopre — quando è sereno il mattino — la lama del mare Adriatico. Tutto l’altipiano ascende verso la detta Penna ed è coperto di faggi altissimi e di pini che si distendono in vallette ed orridi interni e formano una vera selva di colonne sul tappeto roggio e muschiato. Il Sabatier, nel suo studio su San Francesco, chiama questa una delle più belle selve d’Europa. Tutto all’intorno poi il monte precipita come un’amba tra dirupi e sassi, ora nudi or ricoperti di muschio, ora levantisi isolati in forma di guglie e prismi chiomati di edere e di ginestre, ora avvinti da abbracciamenti di alberi, i quali dai fessi del monte sporgono i tronchi trasversalmente, muschiati la più parte sì che paiono mostruosi ragni verdi sospesi sull’abisso.
Di lassù, come da un’eccelsa nave fantastica, si domina un mare bianco sparso di rare ville e castelli, i quali allora barbagliavano nel sole. E la gran valle del Casentino, chiusa a settentrione dall’alto dosso della Falterona.
Ecco Vallombrosa, Camaldoli, Poppi, Chiusi, Bibbiena che spiccano biancheggiando lontano. Anche qui, volgendo gli occhi intorno alla cerchia dei monti, vengono in mente i versi di Dante:
Li ruscelletti che da’ verdi colli |
Il convento è nella parte inferiore del monte e vi si giunge cominciando a girare attorno alle basse falde. 11 sentiero da prima scoperto, si fa ombroso e infine si addentra fra una selva di colonne di faggi per verde vallicene ove i fiori, e le rosse foglie cadute dalle piante, formano pavimento vario di colore, di scorci: e i raggi del sole vi occhieggiano dall’alto e giocano. Per quel silenzioso verde pascono le mandre della badia, qualche cappuccio spunta da’ sentieri; e quando io vi giunsi, una compagnia di giovani monaci saliva, salmodiando, una verde erta: la fila dei bruni cappucci si profilava nella foresta: insomma un paesaggio ariostesco, una traslazione stupefacente dal regno della realtà al mondo dei sogni.
Il convento è un aggregato di molti e vari edifici bassi, fastigati, in pietra solidissima: «Nessun monte è nel mondo più sacro di questo», avverte una scritta sotto il portico ogivale che vi dà accesso, e io dico che nessun convento è più ospitale. Tutti arrivano, mangiano, dormono; le stalle sono piene di muli e di somieri: dei pellegrini, altri si riposa nelle stanze e sotto i portici della foresteria — dove le rondini, così care al Santo, con commovente tradizione garriscono e nidificano dimesticamente — altri si perde per le profondità del bosco, altri fa divozione o visita le chiese, i santuari, gli spechi, le reliquie, i cimeli, le opere d’arte, fra cui dei cotti di Luca della Robbia, sorprendenti di purezza e grandezza, altri si riscalda in una stanza a terreno cui lungo le pareti corrono dei sedili, e in mezzo, su due alari, ardono, anche di estate, tronchi interi: il fumo esce dalla vôlta della stanza materiata a modo di enorme cappa.
I buoni frati — a quello che mi si assicura — fanno tutti i mestieri: coltivano l’orto, lavorano da falegname, da sarto, da fabbro. C’è anche il frate medico. Inoltre essi vanno alla cerca ed hanno benefattori da per tutto; e chi regala un capretto, chi un vitello, chi uno staio di frumento, chi un barile di vino. Sono ottimi massai e parsimoniosi come ognuno può sperimentare se va a mangiare lassù dove la consuetudine dà facoltà di restare tre giorni. Ma però — dirà, taluno — il vino era acido e il pranzo non era luculliano nè bastevole. Ma intanto — risponderò io — che colpa ne hanno quei buoni fraticelli se lassù vengono delle fami da lupo?
E non sarebbe bastato un tozzo di pane per serbare animo grato? Essi vi hanno aggiunto la minestra, il vino, il companatico ed il formaggio. Che si poteva pretendere di più?
E non è noto che S. Francesco viveva di radici e di un tozzo di pane accattato per carità?
E pur quella volta che S. Francesco volle esaudire il desiderio di suora Chiara, vergine così santa e a Dio diletta, dove furono imbandite le mense?
In sulla piana terra, come era usato di fare, presso Santa Maria degli Angioli; e questa è parte integra del racconto di quello spirituale banchetto: «E fatta l’ora di desinare, si pongono a sedere insieme S. Francesco e Santa Chiara, e uno delli compagni di S. Francesco colla compagna di Santa Chiara, e poi tutti gli altri compagni s’acconciarono alla mensa umilmente. E per la prima vivanda, S. Francesco cominciò a parlare di Dio sì soavemente, sì altamente, sì maravigliosamente che discendendo sopra di loro l’abbondanza della divina grazia, tutti furono in Dio ratti. E stando così ratti, con gli occhi e con le mani levate in cielo, gli uomini d’Ascesi e da Bettona, e que’ della contrada d’intorno, vedeano che Santa Maria degli Angeli, e tutto il luogo e la selva ch’era allora allato al luogo, ardevano fortemente, e parea che fosse un fuoco grande, che occupava la chiesa, e ’l luogo, e la selva insieme; per la qual cosa gli Ascesani con gran fretta corsero laggiù per ispegnere il fuoco, credendo veramente ch’ogni cosa ardesse. Ma giungendo al luogo, e non trovando ardere nulla, intrarono dentro, e trovarono S. Francesco con Santa Chiara, e con tutta la loro compagnia ratti in Dio per contemplazione, e sedere intorno a quella mensa umile. Di che essi certamente compresero che quello era stato fuoco divino, e non materiale, il quale Iddio avea fatto apparire miracolosamente, a dimostrare e significare il fuoco del divino amore, del quale ardeano le anime di questi santi Frati e sante Monache: onde e’ si partirono con grande consolazione nel cuore loro, e con santa edificazione. Poi dopo grande spazio, tornando in sè S. Francesco, e Santa Chiara insieme con gli altri, e sentendosi bene confortati del cibo spirituale, poco si curarono del cibo corporale».
Notorio è del pari che i frati francescani erano cuochi inesperti e cucinieri pessimi, della qual cosa nessun esempio più manifesto di quello di frate Ginepro.
L’anima semplice di frate Ginepro fu assai mortificata quando il padre guardiano così gli disse: «Frate Ginepro, tutti noi andiamo fuori, e però fa che quando noi torniamo, tu abbi fatto un poco di cucina a ricreazione de’ frati. Rispuose frate Ginepro: molto volentieri, lasciate fare a me. Essendo tutti li frati andati fuori come detto è, disse frate Ginepro: Che sollecitudine superflua è questa, che uno frate stia perduto in cucina e rimoto da ogni orazione? Per certo, ch’io ci sono rimase a cucinare questa volta; io ne farò tanta, che tutti li frati, e se fossero ancora più, n’averanno assai quindici dì. E così tutto sollecito va alla terra, e accatta parecchie pentole grandi per cuocere, e procaccia carne fresca e secca, polli, uova ed erbe, e accatta legne assai, e mette a fuoco ogni cosa, cioè polli con le penne e uova col guscio, e conseguentemente tutte l’altre cose. Ritornando i frati al luogo, uno ch’era assai noto della semplicità di frate Ginepro, entrò in cucina, e vede tante e così grandi pentole a fuoco isterminato; e ponsi a sedere, e con ammirazione considera e non dice nulla, e ragguarda con quanta sollecitudine frate Ginepro fa questa cucina. Perocchè ’l fuoco era molto grande, e non potea troppo bene approssimarsi a schiumare, prese un’asse, e colla corda se la legò al corpo molto bene istretta, e poi saltava dall’una pentola all’altra, ch’era uno diletto. Considerando ogni cosa con sua grande ricreazione questo frate, esce fuori di cucina, e truova gli altri frati e dice: Io vi so dire, che frate Ginepro fa nozze. I frati ricevettero quel dire per beffe. E frate Ginepro lieva quella pentola dal fuoco, e fa suonare a mangiare: e gli frati si entrano a mensa, e viensene in Refettorio con quella cucina sua, tutto rubicondo per quella fatica e per lo calore del fuoco, e dicea alli frati: Mangiate bene; e poi andiamo tutti all’orazione, e non sia nessuno che cogiti più a questi tempi di cuocere; perocch’io ho fatta tanta cucina oggi, che io ne avrò assai più di quindici dì. E pone questa sua pultiglia a mensa dinanzi a’ frati, che non è porco in terra di Roma si affamato che n’avesse mangiato».
⁂
O lieta follia: o ebrezza intensa di fede! O ascetismo giocondo e laborioso quale solo poteva albergare nella serenità di un’anima italica! O povertà gioconda più di ogni fortunata ricchezza!
Vanno per il mondo gli umili frati beneficando e bene operando, di ogni rito o dogma felicemente ignoranti fuorchè della legge di Cristo e di S. Francesco.
E frate Ginepro, ancora, quando vede qualcuno che fosse mal vestito ed ignudo, si toglieva la tonaca e il cappuccio della cappa e davala al povero. E allora il guardiano gli comandò che per ubbidienza non desse a nessun povero tutta la tonaca.
Ora frate Ginepro imbattendosi in un povero che era quasi ignudo, questi gli domandò elemosina per amor di Dio.
E fra Ginepro con molta compassione gli disse: Io non ho se non la tonaca; ma io non te la posso dare per la obbedienza del mio Prelato; ma se tu me la cavi di dosso, io non ti contraddico.
Non disse a sordo; che subito codesto povero gli cavò la tonaca e se ne va con essa lasciando frate Ginepro nudo.
Tornato al convento, fu domandato dove era la tonaca. Risponde: «Una buona persona me la cavò di dosso e se ne andò con essa».
E frate Egidio voleva vivere affaticandosi corporalmente e con allegro cuore caricava sulle spalle la legna senza mercede a servizio altrui, e aiutava a cogliere le ulive e a pigiare il vino ai lavoratori. E quando si segava il grano, andava con altri poveri a cogliere le spighe, e se alcuno gli proferiva un manipolo di grano rispondeva: «Io non ho granaio dove riporlo».
E S. Lodovico, re di Francia, peregrinando per i santuari d’Italia, venne a Perugia ove dimorava il detto frate Egidio, che era stato dei primi compagni di S. Francesco. Domandò il re, con grande istanza, di frate Egidio, non dicendo niente al portinaio chi egli era: ma frate Egidio ebbe per rivelazione che quel pellegrino era il re di Francia. Esce dalla cella, corre alla porta e senza altra dimanda, o che mai si avessero veduti insieme, con grande divozione s’inginocchiano e s’abbracciano in silenzio. E stati per alcun tempo nel detto modo, si partirono l’uno dall’altro senza dirsi parola, giacchè la luce della sapienza aveva rivelato a frate Egidio il cuore del re, e al re Lodovico il cuore di frate Egidio; e guardandosi nei cuori meglio si conobbero che se avessero parlato: e questo avvenne perchè erano conscii del difetto della lingua umana, la quale non può chiaramente esprimere i misteri segreti.
Felice tempo in cui fiorivano queste pie leggende! Davanti agli occhi corporali ridevano agli umili frati le terre d’Italia, davanti agli occhi dell’anima rideva la gloria del Paradiso; e ben dolce era l’attesa, dolce pure la mistica frase, mormorata ogni tanto: Cupio dissolvi et esse cum Christo!
Felice tempo! Allora era cosa onorata e santa essere folli per eccesso di amore e per ebrietà di speranza!
Certo molti benefici il tempo e la saggezza presente ci hanno elargito; ma pure quante buone cose scomparvero che non torneranno mai più!
O, umili frati, in omaggio e in memoria delle gloriose gesta e della mistica follia dei vostri fratelli che vi precedettero nel tempo di Giotto e di Dante, io spezzai con devozione il nero pane che voi mi offriste: io trovai inebriante l’acida bevanda che voi mi porgeste per vino: io non vidi, io non udii che ai prelati, ai vescovi, agli onorevoli deputati del popolo voi offrite miglior stanza di quella offerta a me, imbandite più lauta mensa e sturate bottiglie di più autentico contenuto.
Piccole miserie a cui soggiacete vostro malgrado, forse. Caso mai l’avrete a vedere con S. Francesco. Io per me vi ringrazio del pane, del vino e del sale. Venni, partii e voi non chiedeste nè il mio nome nè la mia fede. Che si può pretendere di più?
Per mio conto risposi a cortesia con altrettanta cortesia: io ho creduto con divozione a tutto quello che mi hanno detto: all’orrendo masso sospeso per miracolo, all’acqua zampillata dalla pietra, al luogo dove il glorioso padre S. Francesco passeggiò con nostro Signore, all’uomo incredulo precipitato da una racapricciante altezza e risalito salmodiante mentre i monaci con la barella erano discesi per raccoglierne il cadavere; queste e molte altre leggende fiorite ho ascoltato e creduto. E perchè non prestar fede alle fole ed alle leggende quando pur crediamo a tante altre cose che il tempo e l’esperienza distruggeranno o dimostreranno erronee? A tutto dunque ho creduto; ma quando il padre che ci era guida venne fuori sostenendo che i Fioretti erano del Cesari, mi ribellai: un maestro di scuola lo poteva ben dire; ma per un francescano, alla Vernia per giunta, era un errore imperdonabile. Ah, non per.nulla il glorioso Santo affidò la sua memoria specialmente a frate Lupo, alle colombe sirocchie, a sora Luna e frate Sole; all’acqua umile e al robusto fuoco!
⁂
Il giorno dopo quasi insieme col sole cadente ero di ritorno alla Pieve. Ospiti e conoscenti mi furono festosamente attorno domandando se me l’era passata bene lassù dai frati, e mi volevano ancora fra loro; ma l’itinerario parlava chiaro: alla sera dovevo essere a Borgo San Sepolcro: circa venti chilometri, ma via bellissima, discendente col Tevere per la grande valle che esso forma; tale da percorrersi in un’ora: inoltre la luna nel cielo caldo e puro mi assicurava i suoi favori quando quelli dell’aureo fratello fossero venuti meno prima di giungere al Borgo.
Strinsi molte note ed ignote mani, anche le pneumatiche vennero calorosamente palpate da molte mani, giacchè questa è una passione costante dei grandi e dei piccini quando si trovano a portata di una gomma di bicicletta. Così lasciai l’ospitale Pieve e dopo un percorso piacevolissimo, l’avemaria suonava dal Borgo che esso si vedeva in fondo della lunga e dritta via che forma l’ultimo tratto.
Scesi al Fiorentino, locanda eccellente, cucina e vini squisiti — almeno tali mi parvero dopo quelli dei frati — pulizia, servizio e cortesia tutta toscana. Il trattore, ciclista anche lui, fu poi d’una compitezza non compresa, come ne temeva, nel conto. Uno dei piaceri del ciclista, giunto alla tappa dopo un lungo viaggio, è quello di detergersi in molta acqua, mutarsi abiti, farsi servire; e quella sera non mi poteva capitar meglio anche perchè la sala da pranzo invogliava, bella com’era, piena di eleganti signori, di stoviglie, di luce. I maccheroncini col pomidoro, un fritto di cervella, crema e composta sono degni di essere consacrati alla storia come la polenta di Badia Tedalda.
La mattina alle quattro, mentre godevo del più meritato riposo, il cameriere mi svegliò. Il trattore, ciclista, era già in piedi, avea rianimato i fornelli e preparava un caffè eccezionale. Stante l’ora, le gomme furono lasciate in pace e le stelle scomparivano in una languida biancura di puro mattino quando lasciai Borgo San Sepolcro, tuttavia addormentato.
Quello era un giorno di grande lavoro di pedale, almeno per me; l’itinerario portava la tappa ad Urbino; io inoltre non volevo tralasciare di visitare il passo del Furio, il che avrebbe portato una deviazione in più di circa trenta chilometri.
Da Borgo a San Giustino sono pochi chilometri: di li si piega a levante, si lascia la valle del Tevere e si sale continuamente a giravolta per circa venti chilometri sino a raggiungere l’Alpe al valico di Bocca Trabaria: è questa la via detta delle Marche, eccellente, larga, con isproni e manufatti di sostegno pregevoli del tempo del governo granducale. Le ferrovie hanno fatto perdere quasi ogni importanza a questa strada che congiungeva Marca e Toscana; tuttavia ancor oggi vi passa la diligenza che parte, credo, da Urbino e fa scambio sull’Alpe con altra che viene da Borgo San Sepolcro. Questa via è anche gloriosa per la fuga eroica di Garibaldi nel ’49. Una scritta sull’Alpe ne ricorda il passaggio e mi commosse più dei soliti monumenti.
Al passo di Bocca Trabaria, vera bocca scavata nel monte, fremeva il solito vento solitario e violento, che spira per tutto il crinale. Diedi un’ultima occhiata alla gran valle del Tevere, la quale si dominava ampiamente, solenne, italica, pingue, luminosa. Dall’opposto versante si apriva la valle del Meta, lì presso strettissima, tutta verde, degna della Svizzera. Si allarga e poi si confonde con altre valli e monti fra cui, presso l’Adriatico, vidi disegnarsi a pena il Carpegna e la doppia amba del Monte Simone. Più verso mezzodì brillava la linea del Catria, alle cui falde è il convento dell’Avellana di memoria dantesca. E sempre quest’ombra di Dante che ne persegue per tutta questa gloriosa Italia!
Di lassù scendere sino a Sant’Angelo in Vado, lungo la valle del Meta, fu un lampo. A Sant’Angelo colazione quasi spartana e in sella: il sole scottava, la via era polverosa ed alcune ragioni intime che mi sorpresero alla Pieve, in forma di lettera, mi costringevano ad avere un orario, in altri termini ad affrettare la fine del viaggio.
Però la sollecitudine non fu così grande che io a Fermignano non deviassi un lungo tratto dalla via che quivi si stacca e conduce ad Urbino. E di ciò fu cagione il desiderio di vedere il Furlo che è una specie di orrido, lungo la antica via consolare Flaminia, a poca distanza da Fossombrone.
Il Furlo nella istoria del brigantaggio, ha una pagina notevole, e il ricordo delle diligenze svaligiate è vivo tuttora nella memoria dei nostri vecchi.
⁂
La vista del Furlo vince l’imaginazione, e affinchè questa frase non sembri iperbolica, io voglio dire che qualunque viandante non può credere che quivi, tra Fermignano e Fossombrone, in cui non sono più monti nè poggi, ma colline dal dolce e ben coltivato pendio, possa trovar luogo questo bizzarro e pauroso scherzo geologico.
Si direbbe che il fiume Metauro trovando chiusa da ogni parte la valle, si sia aperta da per sè la strada verso il mare spaccando sino al fondo una collina grande a forma di mammella che gli intercettava il passaggio; e le acque che già si tinsero della strage di Asdrubale, scrosciano irose, nello stretto e sassoso fondo dell’abisso. Le due pareti del monte si innalzano ad altezza inuguale di cento o centocinquanta metri e fors’anche di più, ma sono così prossime e si svolgono con curva così bizzarra che sembrano toccarsi: certo il sole non vi trova passaggio se non per certi suoi giuochi di luce e solo quando vi cade a piombo; a pena piega ad occidente, entro il Furlo cadono le tenebre ed il rigido della sera.
Il macigno che forma le due pareti è bello, venato di rosso e termina a pinnacoli e guglie, sorrise allora dal sole morente e dove ben fissando con gli occhi in su si distingueva qualcosa di bianco e di moventesi, tratto tratto: alcune capre.
Per quel meandro, lungo oltre un miglio, i Romani fecero passare con semplice arditezza la via consolare Flaminia, importantissima, che congiungeva Roma all’Alta Italia, e a Fano si univa alla litoranea: era anche sin dopo il 1860 la via delle diligenze per Roma, ma il vapore oramai ne ha fatto una strada di importanza poco più che locale. Poche sono le opere d’arte, tra cui una galleria con sopra una semplice iscrizione del tempo, parmi, di Vespasiano.
Il timore di essere sorpreso dalla notte nella gola del Furio mi fece rimontare in sella senz’altro e retrocedere; ma appena ne fui fuori, mi accorsi con molta sorpresa che il sole era ancora sopra all’orizzonte, non per molto tempo certo, ma assai per arrivare ad Urbino prima di notte.
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Urbino, sull’alto del colle, si presenta bene, ampiamente turrita, svelta, quasi ridente: ma da vicino porta le terribili stimate delle cose morte. Io non so come ciò avvenga, ma io non credo che siano le cose che muoiano — il palazzo feltresco, montagna di arte e di marmi, è ad esempio di una giovinezza disfidante ancora gli anni attraverso tutte le deturpazioni possibili — ma sono gli uomini che insteriliscono, invecchiano presso le ombre delle grandi memorie, come i bambini che dormono accanto alle vecchiardi Una via lunga in salita, sudicia, seminata di donne che lavorano all’aperto, di bambini e d’altro, mi si aprì davanti a pena passata un’alta porta antica.
La mia bicicletta mise lo scompiglio. — Ih, come l’è brutt! — disse l’una forte; e questo era diretto a me, ma credo il giudizio per lo meno avventato e senza tener conto della polvere che mi bruttava.
Non era un complimento ospitale da parte delle pronipoti di Raffaello; ma non si creda che esso abbia influito sinistramente sul mio giudizio intorno ad Urbino, quando io dirò che il pranzo, all’unico albergo, fu pessimo e caro, che l’albergatore non mi venne incontro, nè mi salutò alla partenza; che dovetti da un panino, in un caffè, allontanare uno sciame di mosche; ed altre miserevoli cose della vita, inutili a ricordare.
Non volli andare a letto senza prima aver visto il palazzo de’ Montefeltro. Era circa mezzanotte: poche lampade ad olio, sostenute da lunghi bracci come forche, spandevano una luce da medio evo nel deserto delle vie salienti e discendenti: ma giunti al confine della città la gran mole mi si disegnò nel fondo del cielo, quadrata, solenne, animata.
La notte passò benissimo, senza sogni, toltane una serie di legioni con le aquile d’oro che muovevano compatte attraverso le gole del Furio e non finivano mai di passare. Evidentemente erano quelle di Livio Salinatore e di Claudio Nerone contro Asdrubale cartaginese!
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La rividi al mattino la gran mole, un mattino ridente e puro.
Il palazzo ducale, fondato e ideato dall’istesso Federigo da Montefeltro, col concorso di insigni artefici, nell’anno 1465, è un libro di marmo. Ci hanno lavorato i coboldi in compagnia de’ giganti, tanto ogni cosa è finita insieme e grandiosa. Passando per quel sogno di sale si sente la visione del prodigioso nostro rinascimento più che leggendo volumi di storia. È l’arte, è la politica, sono le armi, l’avvenire, il passato, il genio d’oriente e d’occidente che si sono incontrati sulla nostra terra in quel tempo felice, e si sono fusi al sole d’Italia? Io non so, ma è un sogno mirabile che sorge nell’anima da quella materia che parla tuttavia.
Parla e dice che quivi suonò il verso del Bembo, quivi la adamantina e pur non accademica ma popolare prosa di Baldassar Castiglione, qui cavalieri e dame illustri rallegrava l’arguto ed elegante parlare del Da Bibbiena. Qui forse Giulio II udì novella del giovanetto Santi, e gentili uomini e poeti, e savi quali Federigo Fregoso, Bernardo Accolti, Ludovico da Canossa, Giuliano de’ Medici, Ottaviano Fregoso, l’Ariosto si diedero convegno.
Quivi ogni cosa reca le tracce di una splendidezza e di un buon gusto senza pari. Negli intarsi; ad esempio, che coprono tutte le pareti dello studio di Federigo, è figurato il magnifico signore in corazza e gambali e attorno sono scolpiti i volumi degli antichi savi: Livio, Cicerone, Omero: sembra un simbolo ed una spiegazione storica. Dall’alto dei torrioni superbi quasi cento metri e che si inabissavano fra densi boschi, la cerchia appenninica fa degno contorno. Ecco il Catria, il Nirone, il Furio, il Carpegna e presso i boschi a i campi: non terre isolate allora, ma congiunte per simpatia di spirito col grande mondo e colla storia.
Ma oggi la corrente della vita si è allontanata e segue altra via. Quelle città medioevali, turrite, e ad arte costrutte in su le cime dei poggi o dei monti, guardano con sentimento d’invidia le città poste al piano, un tempo disprezzate e neglette, ma presso cui oggi corre la vaporiera, fannosi impianti elettrici e la civiltà del secolo XX eleva le torri de’ suoi nuovi castelli: i camini degli opifici.
Anche qui come a Ravenna, come nel palazzo Estense di Ferrara le devastazioni superano il credibile ed il possibile. Gli arazzi che coprivano le pareti di quelle stanze — tanto grandi che nello spessore delle finestre vi sono doppi sedili di marmo — furono portati via; il resto imbiancato, rovinato, abbattuto per creare stanze di uffici e prigioni. Di tutta la preziosa suppellettile non rimane che la memoria. Le porte fra stanza e stanza, massicce, di noce intarsiata che è un incanto, forti da resistere al cannone, furono anch’esse imbiancate: i fregi raffaelleschi, le stelle, gli architravi di marmo finamente lavorato a basso rilievo, sono corrosi dalle intemperie che vi entrano da tutti i finestroni aperti: una teoria deliziosa di putti di marmo su fondo azzurro, adornante il più belìo dei camini di quelle sale fu «privata delle sue punte» per non offendere i pudichi occhi di non so quale legato pontificio. Non ricordo altro, ma andate e farete una lista più lunga della mia.
Per il mio temperamento, qui come a Ravenna, meglio e più igienico correre in bicicletta e interrogare, più tosto che gli uomini e le loro opere, il mare ed i campi; come è detto al principio di queste pagine.