Le Mille ed una Notti/Storia d'Attaf o l'Uomo Generoso
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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NOTTE CDLXIII
STORIA
D’ATTAF O L’UOMO GENEROSO.
— Sire,» disse Scheherazade, volgendosi al sultano delle Indie, «eravi a Damasco, capitale della Siria, sotto il regno del califfo Aaron Alraschild, un signore chiamato Attaf, sì liberale e generoso, che pareggiava e forse superava il celebre Hatem, della tribù di Thay, la cui generosità è talmente passata in proverbio: che il suo nome è divenuto sinonimo della generosità1; cosa che fece dire ad un poeta arabo che Hatem ha fatto perdere il nome a questa virtù.
«Attaf avrebbe potuto far dimenticare similmente il nome di Hatem. Questi, come vostra maestà avrà spesso sentito raccontare, faceva uccidere qualche volta fino a quaranta camelli onde onorare gli ospiti; anzi, un giorno, non avendo per caso nulla da offrire ad un inviato dell’imperatore greco, fece uccidere per lui il proprio cavallo d’inestimabil valore, che passava pel più bello di tutta l’Arabia2.
«Questo sagrificio era grande, ma Attaf ne fece uno maggiore, allorchè, per salvar la vita ad un amico, gli cedette, come vostra maestà lo vedrà in questa storia, una vezzosa sposa, alla quale era teneramente affezionato.
«Il califfo Aaron, un giorno, stanco della moltitudine degli affari di cui erasi occupato, e volendo distrarsi, chiamò il suo gran visir Giafar il Barmecida, e Mesrur, capo degli eunuchi, ed andò con essi in una galleria che racchiudeva un’infinità d’oggetti rari e curiosi. Un gran numero di questi oggetti erano visibili; gli altri stavan chiusi in forzieri preziosi od in armadi di legno di sandalo. Il califfo, senza guardare quelli che colpivano maggiormente la vista per la loro magnificenza, disse a Mesrur d’aprirgli un armadio. L’eunuco l’aperse e s’allontanò alquanto. L’armadio era ripieno di libri, la maggior parte dei quali racchiudavano maravigliosi secreti e stupende predizioni. «Aaron Alraschild prende uno di que’ libri e legge le prime pagine. Quella lettura l’intenerisce, versa qualche lagrima, ma fra poco si mette a ridere; poco dopo ricomincia a piangere, e poi a ridere; in fine, piange ancora e ride per la terza volta.
«Giafar, attento alle diverse sensazioni che provava successivamente il califfo, non potè trattenersi dal dirgli: — Commendatore dei credenti, qual è mai il soggetto di questo libro, e perché vi fa piangere e ridere quasi nello stesso tempo, come fanno i mentecatti? Questo libro arabo è egli capace d’intorbidare la più sana ragione, lo spirito più solido e giudizioso che siavi al mondo?
— Giafar,» rispose il califfo, «scuso la tua curiosità; ma il paragone che fai delle diverse sensazioni ch’io provo con quella che accade ai pazzi, è fuor di luogo e temerario, ed il giudizio che fai di questo libro è totalmente falso. Per insegnarti qual n’è il merito e farti vedere ch’io non sono pazzo, allontanati dal mio cospetto, e non comparirmi davanti se non quando sarai meglio istruito, e che potrai dirmi tu stesso il contenuto di quest’opera; saprai allora perché ho pianto e riso nel medesimo tempo. Esci, ti dico, e se comparisci a me davanti prima di conoscere la cagione di ciò ch’oggi ti sembra singolare ed anche ridicolo, la morte più orribile sarà la pena della tua audacia.» Ciò dicendo, il califfo chiuse il libro, lo rimise nell’armadio e ne prese la chiave.
«Il decreto profferito da Aaron gettò il timore e lo spavento nell’animo di Giafar; escì pieno di dolore, e recossi a casa, camminando a lenti passi e riflettendo alla sua avventura.
«— Qual terribile caduta!» diceva tra sè; «perdo il mio grado, la mia fortuna, ed eccomi allontanato per sempre dalla presenza del califfo imperocchè come indovinare ciò ch’egli lesse, ed i motivi che ne fecero spargere le lagrime ed eccitarne il riso? —
«Giafar, immerso in tali riflessioni, stava per entrar in casa, allorchè suo padre, Iahia il Barmecida, già informato dell’accaduto, gli venne incontro e gli disse:
«— Figlio, hai avuta la disgrazia di spiacere al califfo; ma non bisogna disperare di riacquistarne il favore e soddisfare a ciò ch’egli esige da te. Questo avvenimento ha qualche cosa di straordinario e meraviglioso, che permette di sperar ciò che non si oserebbe attendere in una circostanza comune: ma solo il tempo può svelarci questo mistero, e metter fine al tuo infortunio. Oggi vuole il destino che tu t’allontani dal califfo; parti senza indugio, e recati a Damasco.
«— Padre,» rispose Giafar, «ho la maggior fiducia nei vostri lumi e nella vostra esperienza; son pronto a seguire i vostri consigli, e vado soltanto a salutare mia moglie.
«— Non entrare nel tuo palazzo,» riprese Iahia; «abbandona sul momento questi luoghi, ed obbedisci al destino che deve decidere la tua sorte, preparandoti gli avvenimenti che stanno per compiersi in te. —
«Giafar, docile ai suggerimenti del padre, salì tosto sur una mula che trovavasi alla porta del palazzo, e s’incamminò verso Damasco. Dopo un viaggio lungo e faticoso, durante il quale nulla gli accadde di notabile, si trovò allo spuntar dell’alba nella deliziosa valle chiamata il Gouthah di Damasco3, che si stende per più d’una giornata di viaggio intorno alla città. «Benchè tristo ed inquieto, Giafar vide con piacere quei luoghi riguardati con ragione come il primo dei quattro Ferdus, o paradisi dell’Asia4, o che passano anzi per essere stati altre volte il paradiso terrestre ove fu posto il primo uomo, allorchè venne creato colla terra grassa e feconda di quella fertile contrada. Giafar ammirava quelle ridenti campagne irrigate dalle fiumane che scendono dall’Anti-Libano, si dividono in molti rami riuniti da un’infinita moltitudine di canali, e vanno a metter foce in un immenso lago; quelle praterie sempre verdeggianti, smaltate di mille fiori, che una primavera perpetua fa sbucciare; quelle piante d’ogni specie, onuste di frutti i più belli e deliziosi del mondo.
«Mentre accostavasi alla città verso il tramonto, dopo aver attraversata la valle delle Violette5, vide venirsi incontro molte persone, una delle quali l’invitò, colle maniere più gentili, a metter piede a terra. Era costui Attaf, il quale passeggiava per caso da quella parte con vari suoi amici, e che, avendo da lungi riconosciuto Giafar, erasi affrettato a venirgli incontro.
«Giafar discese dalla mula; salutaronsi reciprocamente, e dopo i complimenti d’uso, Attaf invitò la compagnia a venirsi a riposare nel suo palazzo, poco discosta, e situato all’ingresso della città. Entrarono in una sala magnifica, le cui pareti erano rivestite di marmo, ornata di preziosi tappeti e divani ricoperti di stoffe ricchissime; nel mezzo vedevasi una gran vasca d’onde ergevasi uno zampillo d’acqua che andava quasi a percuotere la volta.
«Circa un’ora dopo fu servito un pranzo composto di gran numero di vivande le più squisite e delicate; si portarono indi bacili e brocche per lavarsi le mani. Una compagnia di suonatori entrò nella sala ed eseguì un magnifico concerto, dopo il quale si recarono le frutta e i dolci, e da ultimo il caffè. I convitati essendosi ritirati, Attaf, rimasto solo con Giafar, lo ringraziò dell’onore che gli faceva alloggiando in casa sua, e parve curioso di conoscere il motivo del suo viaggio. Il visir non fece alcuna difficoltà di palesarlo, e gli raccontò per disteso la sua avventura con Aaron Alraschild.
«Attaf, commosso della fiducia di Giafar, e sensibile alla sua disgrazia, esortollo a non affliggersi troppo, e lo pregò di fermarsi nella magione ove il caso l’avea condotto, assicurandolo che vi sarebbe sempre il padrone, e che potrebbe abitarvi dieci anni senza timore d’incomodarlo. Nel medesimo tempo fece preparare nel mezzo d’una sala un letto magnifico pel suo ospite, e vicino un altro piccolo per sè.
«Giafar fu alquanto sorpreso di quei preparativi, e chiese ad Attaf se non fosse ammogliato; avendogli questi risposto affermativamente: — Perchè,» riprese il visir, «non dormite colla vostra sposa?
«— Signore,» rispose Attaf, «la mia sposa non troverà male ciò che faccio e non me ne amerà meno. Non sarebbe un’inciviltà il lasciar sola una persona distinta come voi, ed andar a passar la notte colla sposa; alzarmi poi domani, e recarmi solo ai bagni? Agire a questo modo sarebbe, a mio credere, dimostrare una mancanza di convenienze e di riguardi quali si debbono ad un signore par vostro. Per certo tutto il tempo che mi farete l’onore d’abitar nella mia casa, non vi lascerò per andar a tenere compagnia alla mia sposa; ma resterò a voi vicino finchè tornerete a Bagdad. — «Giafar non potè trattenersi di ringraziare dapprima Attaf, disse indi tra sè: — È maraviglioso, ed è spingere un po’ lungi la gentilezza ed il desiderio di onorarmi. —
«All’indomani mattina, Giafar ed Attaf, alzatisi, andarono insieme al bagno. Il visir, dopo essersi bagnato, stava per riprendere i propri abiti, ma Attaf gliene presentò di più magnifici.
«Uscendo dal bagno, trovarono alla porta cavalli sellati. Vi salirono, e passeggiando nei dintorni della città, visitarono la tomba chiamata Cabralsett, e passarono così la giornata in un modo che avrebbe potuto divertir Giafar in tutt’altra circostanza. Il giorno seguente, andarono a passeggiare da un’altra parte.
«Quattro mesi così trascorsero. Al temine di questo tempo, il visir, annoiato di vedere che non gli accadeva nulla di straordinario, e che potesse fargli sperar la fine del suo esilio, s’abbandonò viemaggiormente al dolore e alla tristezza. Il suo ospite se ne avvide, e gli disse, un giorno che s’affliggeva al punto di piangere:
«— Perchè, signore, dolervi così? Cercate piuttosto di distrarvi, e ditemi soltanto ciò che vorreste fare a tal uopo.
«— È vero, generoso Attaf,» rispose Giafar, «che l’uniformità dei nostri piaceri, queste passeggiate, che si rinnovano tutti i giorni, per quanto siano deliziosi i luoghi che noi percorriamo, accrescono la mia noia. Preferirei, credo, passeggiar solo in Damasco, e visitare un giorno la moschea degli Ommiadi, che si riguarda come una delle quattro meraviglie del mondo6.
«— Chi v’impedisce, signore,» rispose Attaf, «di far ciò che più vi piace? Qualunque sia il diletto che ho di accompagnarvi, vi rinuncio volentieri, se la solitudine vi gradisce maggiormente, e può procurarvi distrazione. —
«Giafar si alzò tosto onde approfittare della libertà che gli lasciava l’ospite. — Prendete questa borsa,» dissegli Attaf, «forse ne avrete bisogno.» Giafar accettò senza complimenti, ed escì con tanto piacere come se uscisse di prigione.
«Dopo aver traversate molte vie e varie piazze, Giafar si trovò alla moschea degli Ommiadi, rimpetto alla porta chiamata Giroun, alla quale si sale per trenta marmorei gradini. Entrando in questo tempio, che è un monumento della pietà e magnificenza di Yalid, figlio d’Abdalmalek, il sesto califfo della famiglia degli Ommiadi, Giafar fu colpito dalla varietà dei marmi, dallo splendore dell’oro e delle pietre che brillavano da ogni parte. Quand’ebbe considerate a suo bell’agio tutte quelle bellezze, e che la sua curiosità fu soddisfatta, uscì da una parte opposta a quella ond’era entrato, e continuò a passeggiare per la città.
«Nel passare per una via remota, Giafar vide un comodo sedile, e volle riposare. In faccia a quel sedile erano alcune finestre sulle quali stavano varie casse piene di garofani, di basilico e d’altri fiori d’ogni qualità. Appena Giafar si fu adagiato sul sedile, udì aprire una delle finestre, e vide comparire una giovane di rara bellezza, fatta per soggiogare i cuori di tutti quelli che la miravano.»
NOTTE CDLXIV
— La vista di quella giovane fece su Giafar un’impressione tanto più viva, giacché ebbe il tempo di considerarla a suo talento mentre inaffiava, l’un dopo l’altro, i fiori che si trovavano sulla finestra.
«Quando tutti i fiori furono inafflati, la giovane guardò in istrada; ma vedendo che qualcuno l’osservava, si ritirò precipitosamente e chiuse la finestra. Giafar aspettò a lungo per vedere se questa si aprisse una seconda volta. Essendo quasi sera, voleva ritirarsi; ma, tutte le volte che stava per alzarsi, sentiva fra sé una voce susurrargli: — Fermati, forse comparirà ancora. —
«La notte sorprese Giafar in quell’aspettativa e l’obbligò a rinunciarvi; uscì dalla viuzza, camminò per un po’ di tempo in una più grande, e riconobbe da lungi il palazzo di Attaf. Questi lo aspettava già da un pezzo, e gli venne incontro.
«— Illustre signore,» gli disse, «è tardi, ed io temeva che vi fosse avvenuto qualche sinistro o che alcuno vi avesse trattenuto presso di sé. — Dove potrei io,» rispose Giafar,«trovare un ospite tanto cortese e generoso come Attaf? Già da molto tempo io non aveva fatto una passeggiata simile a quella d’oggi, e così atta a divertirmi: ecco perchè l’ho prolungata fino ad ora. —
«II visir ed Attaf essendo rientrati, si misero a tavola. Giafar volle prendere qualche cosa secondo il solito, ma non potè mangiare. Attaf, accortosi che l’ospite non prendeva nulla, gliene domandò la cagione. — Io aveva molto appetito quando pranzai,» rispose Giafar; «forse ho mangiato troppo, ed è per questo che non posso cenare. —
«Attaf fece tosto sparecchiare, ed invitò l’ospite a dormire. Giafar si coricò, ma non potè pigliar sonno; pensava continuamente alla giovane veduta alla finestra, e traendo profondi sospiri, diceva fra sè: — Felice chi potrà possederti, o sole di bellezza! luna del tempo! —
«Giafar passò la notte in questo stato crudele, non potendo chiuder occhio e non facendo che voltarsi e rivoltarsi nel letto. All’indomani, si trovò sì stanco che non ebbe la forza d’alzarsi. Attaf, sorpreso di non vederlo comparire, entrò nella sua camera, e gli disse:
«— Voi m’inquietate, signore; è giorno inoltrato, e siete ancora a letto! Non avete forse dormito bene stanotte? — È proprio così,» rispose Giafar.
«Attaf mandò tosto a cercare il più buon medico di Damasco, che non tardò a venire. — Che cosa c’è?» disse questi, avvicinandosi al letto. «La vostra malattia non mi sembra pericolosa, e non sarà difficile guarirvi. Ov’è il vostro male? — Dappertutto, » rispose Giafar. Il medico gli prese il braccio, gli toccò il polso e ne studiò il battito. Conobbe tosto lo stato dell’infermo; ma non osando dirgli ch’era innamorato, domandò carta per iscrìvere ciò che bisognava dargli.
«Portata la carta, il medico sedette e finse di scrivere la ricetta. In quel momento si venne ad annunciare ad Attaf che una schiava lo domandava. Era una serva che veniva da parte della sua sposa, per sapere ciò che desiderava da pranzo e da cena; giacché Attaf, dopo che Giafar era in casa sua, non andava mai dalla consorte.
«Il medico ebbe in breve scrìtta la sua ricetta, e la mise sotto al guanciale di Giafar. Attaf, dopo aver dati i suoi ordini, incontrò il medico ritornando, e gli chiese se avesse lasciata la ricetta, — Sì,» rispose quegli, «e l’ho messa sotto al guanciale.» L’altro lo ringraziò e gli diede una pezza d’oro.
«Attaf, rientrando nella camera di Giafar, prese frettolosamente la carta, e vi lesse queste parole:
««Il vostro ospite, signor Attaf, è innamorato: «cercate di conoscere l’oggetto che ama, e fateglielo «ottenere; ma affrettatevi, giacché fra pochi giorni non «sarete più in tempo, e tutti i rimedi saranno inutili.»»
«— Come!» disse tosto Attaf, volgendosi a Giafar; «noi viviamo assieme, e voi mi celate che cosa vi accade nel cuore! Questo medico è il più abile di Damasco, e non può essersi ingannato sulla vostra situazione. Leggete questo biglietto.» Giafar lesse lo scritto, e disse:
«— Questo medico è un uomo sorprendente: non si è in fatti ingannato. Ieri, passeggiando per Damasco, la vista d’una giovane, da me veduta alla finestra, mi ha fatto provare ciò che non ho mai finora provato: io sento che ne sono perdutamente invaghito, che questa passione mi consuma, che ha già fatto in me i maggiori progressi, e che può anche togliermi la vita. —
«Giafar fece poscia il racconto della sua avventura; gli dipinse la contrada, il luogo ov’era stato tanto tempo seduto, e la finestra ornata di basilico e garofani, ove aveva veduto comparire la giovane; abbozzò in seguito il ritratto di quella bellezza, ne dipinse gli occhi, la bocca, l’assieme del volto, l’ eleganza della vita, le grazie, la modestia. Attaf riconobbe tosto il luogo della scena ancor più facilmente, giacché aveva veduto uscire il visir dalla viuzza; vide parimenti che la casa davanti alla quale Giafar aveva preso riposo era un casino separato dal resto del palazzo, e situato presso i giardini, nel quale abitava la sua sposa; il ritratto della giovane terminò di convincerlo esser dessa, la bella Zalica, colei veduta da Giafar alla finestra, e per la quale aveva concepito una passione tanto violenta.
«— Come son lieto,» disse subito all’ospite, «di poter annunciarvi ch’io conosco l’oggetto del vostro amore, e che nulla può opporsi ai vostri voti! La giovane che vedeste alla finestra fu ripudiata dal marito. Io corro tosto da suo padre per indurlo a non promettere ad alcuno la di lei mano, e vi parteciperò il successo de’ miei passi. —
«Attaf uscì tosto dall’appartamento di Giafar, traversò i giardini, e si recò alla palazzetta abitata dalla sposa, la quale era anche sua cugina. Ella si alzò quando lo vide, venne ad incontrarlo, gli baciò la mano, e dissegli ridendo: — Mio caro Attaf, il vostro ospite è certamente partito. — No,» rispose questi,«ma vengo a trovarvi un istante per avvertirvi di andare, il più presto che potete, dal signor Abdallah, vostro padre. Lo incontrai, un momento fa, sulla pubblica piazza; mi disse che vostra madre ha una colica violenta, e desidera che vi rechiate subito a trovarla. — ,
«La sposa di Attaf, afflitta da quella notizia, si prepara tosto ad uscire, prende seco alcune schiave, giunge alla casa del genitore, e bussa alla porta; sua madre, che si trovava là per caso, aprì. — Sia lodato Iddio,» sclamò la donna vedendo, la figlia; «tu facesti bene a venire a sorprendermi. — Devo piuttosto io ringraziar Iddio,» riprese la sposa di Attaf; «mi sembra che siale guarita dalla vostra colica: ne sono lietissima. — La mia colica!» riprese la madre; «che vuoi tu dire? — Non avete voi avuto questa mattina,» riprese la figlia, «una violenta colica? — Io! tu vuoi scherzare,» disse la madre.
«Durante tale conversazione, giunse Abdallah. — Che cosa c’è mai?» diss’egli; «mi sembra di aver udito parlare di colica; ne è forse ammalato qualcheduno? — Padre,» soggiunse la figlia, «non avete voi poco fa incontrato mio marito, e non gli diceste che mia madre era incomodata da una violenta colica? — Io non sono uscito di casa finora,» rispose il padre, «e non ho veduto nessuno. —
«Mentre cercavano di rischiarare questo mistero, udirono bussare, e videro entrare alcuni facchini carichi di fardelli. — Che cosa sono questi fagotti?» disse Abdallah. — Sono,» riprese uno dei facchini, «fardelli che vi manda il signor Attaf, e che contengono gli arredi di vostra figlia. — Che vuol dir ciò?» disse Abdallah, volgendo alla figlia uno sguardo pieno di corruccio; «che mai faceste a vostro marito, perchè ci mandi tutto quanto vi appartiene? — In nome di Dio,» gli disse la moglie, «tacete, e non sospettate ingiuriosamente dell’onore di vostra figlia! —
«In quel frattempo, giunse Attaf, seguito da molti amici. — Perchè vi siete condotto in questo modo?» gli chiese lo suocero. — Signore,» rispose Attaf, «io non ho alcun rimprovero da fare a vostra figlia, e non posso che encomiare la di lei virtù, il di lei candore e la sua riconoscenza; ma una promessa indiscreta mi è sfuggita: l’avvenimento ha ingannata la mia aspettativa, e mi obbliga, piangendo sulla mia imprudenza, a separarmi da lei e renderle la libertà. —
«Attaf consegnò, tosto alla moglie, piangendo, tutto ciò che gli rimaneva ancora di suo, fece compilare l’atto col quale la rendeva libera, e si affrettò a recarsi da Giafar.
«— Dacchè vi ho lasciato,» gli disse, « fino ad ora ho pensato a voi, e disposto tutto in modo che nessuno possa togliervi l’oggetto che vi deve rendere la salute. Voi potete ora bandire ogni inquietudine, passeggiare, andar al bagno, e non pensare che a divertirvi fin al momento in cui ella, secondo le leggi, potrà rimaritarsi. —
«Sebbene Giafar fosse innamorato, sentì bisognava aspettare che il termine di rigore fosse spirato. Commosso dalla grandezza del sagrifizio resogli da Attaf, gli dichiarò la propria riconoscenza nei termini più lusinghieri. La sua malattia subito sparve, ed egli non si occupò che della felicità della quale avrebbe gioito fra poco.
«Attaf raddoppiò di riguardi e d’attenzioni; cercava distrarlo, e rendere il tempo men lungo, procurandogli ogni sorta di piaceri e divertimenti. La dilazione essendo quasi finita, egli volle assicurare il successo del matrimonio di Giafar, comunicandogli il progetto concepito a tal uopo.
«— Mio caro signore,» gli disse, «per isposare la persona della quale siete invaghito, bisogna rinunciare all’incognito, comparir qui con tutto lo splendore del vostro grado, e farvi rendere gli onori appartenenti al primo visir. Io avrò cura di procurarvi gli equipaggi, il corteggio e tutte le cose necessarie. Voi uscirete secretamente da casa mia per andare ad Hems (7) o ad Hamah; farò portare colà i bagagli, e vi troverete cavalieri ben montati. Manderete qui corrieri per annunciare che avete percorso l’Egitto, che ora percorrete la Siria per ordine del califfo, e che contate di rendervi il tal giorno a Damasco. Vi si erigeranno tende fuor della città, ed il governatore ed i grandi vi verranno incontro a rendervi i loro omaggi. Voi allora manderete a cercare il signor Abdallah, e gli chiederete la mano della figlia; egli sarà molto onorato della vostra parentela, e ve l’accorderà tosto: farete subito stipulare il contratto, continuando poi il vostro cammino per Bagdad.»
NOTTE CDLXV
— Giafar, sempre deciso ad abbandonarsi intieramente al destino, e cominciando a travedere nella sua avventura qualche cosa di straordinario, e forse il fine del suo esilio, approvò le misure propostegli da Attaf, e ringraziollo del suo zelo e della sua generosità. Allorchè tutto fu disposto, Giafar partì segretamente.
«Dopo alcuni giorni, venti cavalieri giunsero a Damasco, annunciando che il gran visir Giafar, dopo aver percorso l’Egitto, percorreva la Siria, d’ordine del califfo, e ch’egli passerebbe per la capitale della provincia.
«Quella notizia si divulgò tosto fra tutti gli abitanti. Il governatore, Abdalmalek Ebn Meroen, fece innalzare le tende fuor della città, e gli andò incontro a mezza giornata di cammino, accompagnato dai primari ufficiali e dai magistrati. Tutti sollecitaronsi ad offrire a Giafar regali, ed egli trovò, entrando nella tenda, un magnifico pasto. Tutta la città escì per vedere il primo visir, e quello fu un giorno di festa e di pubblica allegrezza.
«Giafar, in mezzo a tutta quella pompa e quegli onori, mandò a cercare il padre della giovane di cui era invaghito. Abdallah (era il nome di quel signore, come già si disse) si affrettò ad ubbidire agli ordini del gran visir ed inchinossi profondamente.
«— Vostra figlia,» gli disse Giafar, «fu ripudiata da suo marito.
«— È vero, signore,» rispose Abdaliah, «ed ora si trova in mia casa. — Intesi parlare,» riprese Giafar,«della sua beltà e del suo spirito: io vorrei sposarla. — Signore,» soggiunse Abdallah, di nuovo inchinandosi,«io son pronto a consegnarvi la vostra schiava. — Io m’incarico della sua dote,» disse allora il governatore di Damasco. — Ed io l’ho già ricevuta,» riprese Abdallah. Si strinse subito il contratto nuziale; il governatore invitò Giafar a venir ad abitare nel suo palazzo, ma il visir scusossi, dicendo dover continuare il suo viaggio alla domane. Egli avvertì nel medesimo tempo Abdallah che sua figlia stesse pronta a partire con lui.
«Il vecchio uscì sul momento per annunciare alla figlia il nuovo matrimonio ch’egli avea conchiuso per lei. Le si avvicinò coll’espressione della maggior gioia, e le vantò il grado e le ricchezze del novello sposo. La figlia d’Abdallah, la quale amava Attaf, vide con dispiacere ch’ella stava per passare tra le braccia d’un altro. Poco sensibile alle idee di grandezza e d’ambizione che lusingavano il padre, non gli rispose se non per attestargli la propria sommissione, e si ritirò nell’interno dell’appartamento.
«La notte seguente passò fra i piaceri: tutta la città e le case di campagna dei dintorni erano illuminate. I grandi ed il popolo gioivano egualmente della presenza del gran visir e del suo matrimonio conchiuso a Damasco.
«All’indomani, Giafar fece annunciare ch’egli si sarebbe messo in viaggio verso le tre ore dopo mezzogiorno. Abdallah ebbe cura di preparare ogni cosa per la partenza della figlia, e la fece salire in una magnifica lettiga. All’ora indicata, le trombe diedero il segnale; Giafar s’inoltrò accompagnato dal governatore e dai principali della città. Dietro a loro procedeva la lettiga della sposa, circondata dalle donne e dalle schiave; il resto del seguito veniva dopo.
«Giunti al luogo chiamato Cobbat Malasafir, non volle il visir permettere che l’accompagnassero più lungi, e congedò il governatore ed i principali di Damasco, ringraziandoli degli attestati d’affezione che aveangli dato.
«Il governatore di Damasco e quelli che l’accompagnavano incontrarono, tornando alla città, Attaf che andava a fare i suoi addii al primo visir. Si salutarono d’ambe le parti, ed il governatore disse ad Attaf: — Noi abbiamo già accompagnato il primo visir, e voi siete appena escito! — Io non credeva,» rispose Attaf, «ch’egli dovesse partire così subito, Quando seppi che saliva a cavallo, ho riunito in fretta alcuni della mia gente, e vo a raggiungerlo.
— Sollecitandovi, lo troverete ancora,» riprese il governatore, «vicino a Cobbat Alasafir. —
«Attaf fece affrettare il passo alla sua piccola comitiva, e raggiunse Giafar. Smontato da cavallo, se gli avvicinò e disse: — Ringrazio Iddio, che rese la calma e la gioia al vostro animo, concedendovi l’oggetto dei vostri desiderii.
«— Mio caro Attaf,» rispose Giafar, «a te io sono debitore della mia felicità; io spero di compensare, fra poco, il servigio importante, che mi rendesti. Io ti diedi finora molti disgusti ed imbarazzi; torna donde sei venuto: non voglio che passi la notte fuor del tuo palazzo.» Attaf, temendo d’essere importuno, o di disturbare il primo visir accompagnandolo più a lungo, gli augurò felice viaggio e riprese la via di Damasco.
«Frattanto i nemici che l’uomo generoso avea presso il governatore, cercarono di approfittare della circostanza per perderlo. — Sapete voi,» disse uno di essi, chiamato Hassan, ad Abdalmalek, «perchè Attaf è partito sì tardi a fare i suoi addii al gran visir? — Perchè?» chiese il governatore. — Per trovarsi solo con lui,» riprese Hassan, «e poter intertenersi più liberamente, imperocchè il primo visir abitò incognito alcuni mesi nella sua casa. È forse anche per vedere un’altra volta sua moglie, che Attaf recasi da Giafar dopo di voi.
«— Di qual moglie volete parlare?» disse il governatore. — Della moglie d’Attaf,» ripigliò Hassan, «di quella giovane ch’egli ha ripudiata per darla al gran visir. — Come!» sclamò il governatore; «sarebbe la bella Zalica, la più giovane delle mogli d’Attaf, quella ch’egli amava più di tutte le altre? — Ella medesima appunto,» riprese Hassan; «questa separazione sarà stata dolorosa per Attaf, ma che cosa non si fa per soddisfare la propria ambizione! Egli spera che il gran visir, per questa compiacenza, vorrà fargli concedere il governo di Damasco. —
«Quei perfidi discorsi produssero sullo spirito del governatore l’effetto che se ne aspettavano i nemici d’Attaf; egli concepì una forte gelosia contro di lui, e risolse di disfarsene sul momento. In tal pensiero, fece nascondere, quella stessa notte, il cadavere di un uomo assassinato nel giardino d’Attaf. All’indomani, dopo alcune perquisizioni, fatte soltanto per la forma in diversi luoghi, si entrò in casa dell’ospite di Giafar.
«L’ufficiale di polizia, incaricato di quella commissione, era istruito d’ogni cosa e ligio al governatore: il cadavere fu trovato. S’impadronirono di Attaf e lo condussero davanti Abdalmalek. Egli finse la maggior sorpresa vedendolo comparire condotto dall’officiale di polizia, e parve attentissimo al rapporto che gli fece quest’ultimo.
«— Sapete voi,» disse poi Abdalmalek ad Attaf, «chi ha ucciso l’uomo, il cui corpo si trovò nel vostro giardino? — Fui io stesso,» rispose quegli — Che cosa vi aveva fatto?» continuò il governatore;«e perchè l’uccideste? — Signore,» ripigliò Attaf,«è inutile farmi queste domande; se io mi confesso reo di quest’omicidio, dovete capire essere per pagar solo l’ammenda, ed impedire che i miei vicini siano inquietati e costretti a pagarne una parte.
«— Non mi contento,» soggiunse vivamente il governatore, «di punire l’omicidio con una semplice ammenda; io voglio seguire esattamente la legge, e giudicare secondo il divino precetto: Anima per anima. 8 —
«Il governatore, volgendosi allora all’assemblea, chiese ad alcuni degli astanti di attestare quello che aveano udito dire ad Attaf. Tutti attestarono ch’egli erasi riconosciuto reo dell’assassinio. — Attaf,» continuò a chieder loro il governatore, «fruisce egli di tutta la sua ragione, od ha perduto l’intelletto?» Tutti attestarono che Attaf godeva della piena sua ragione. Il governatore disse allora ai giudici:
«— Voi avete udite le dichiarazioni dei testimoni e la confessione del reo; applicate la pena stabilita dalla legge, e pronunciate la sentenza. —
«I giudici non poterono trattenersi dal condannare Attaf a morte, secondo la sua propria dichiarazione: si lesse la sentenza, ed il governatore mandò a cercare il carnefice.
«Tutta l’assemblea era afflitta; il popolo, reso in breve consapevole di quell’avvenimento, accorreva in folla e mormorava altamente. Il governatore stimò prudente di non far giustiziare Attaf in pubblico; parve arrendersi alle istanze di chi lo circondava, e comandò lo si conducesse in carcere, ma nel medesimo tempo fece dire in segreto al cameriere ch’egli manderebbe a strangolare il prigioniero la notte seguente.
«Il carceriere era affezionato ad Attaf, del quale avea più d’una volta provata la beneficenza; esacerbato dalla condotta del governatore, che gli parve l’effetto dell’odio e dell’invidia, non dubitò che se il califfo fosse consapevole di quell’affare, avrebbe riconosciuta l’innocenza dell’accusato, e punito il governatore. Egli risolse adunque di esporre la propria vita per salvare quella del benefattore ed offrirgli il mezzo di far intendere le sue querele.
«Con tal intenzione avvicinossi ad Attaf e gli svelò l’ordine avuto. — Io attendo tranquillamente la morte,» rispose Attaf; «voleva far cosa grata ai miei vicini, e dispensarli di pagare l’ammenda; il servigio che resi loro è la cagione della mia morte: debbo adorare i decreti di Dio e sottomettermi al mio destino.— Che dite?» ripigliò il carceriere; «voglio salvarvi, e se abbisogna, sacrificare la mia vita per riscattar la vostra. Comincerò a rompere le vostre catene; indi mi farò alcune ferite al volto, mi lacererò gli abiti e mi strapperò la barba; voi mi metterete questo turaccio in bocca, ed uscendo dalla prigione, vi allontanerete ratto. —
«Attaf accettò l’offerta del carceriere, e lo ringraziò piangendo della sua generosità. Egli uscì dalla prigione quando tutto fu eseguito, ed avviossi tosto verso Bagdad.
«Frattanto il governatore di Damasco, sollecito di disfarsi d’Attaf, andò alla prigione verso mezzanotte, accompagnato soltanto dal carnefice; ma qual fa la sua sorpresa, allorchè vide la porta aperta, il carceriere tutto intriso di sangue, colla barba divelta, lacerati gli abiti, ed alzando le mani al cielo senza poter parlare. Gli fece levare il turaccio che aveva in bocca, e chiese gli chi l’avesse ridotto in quello stato.
«— Signore,» rispose il carceriere, «sarà circa un’ora che una banda di scellerati hanno rotta la porta della prigione, precipitandomisi addosso. Io ho gridato aiuto con tutte le forze; essi m’hanno messo questo turaccio in bocca e percosso aspramente. Mentre una parte di quegli scellerati mi trattava così, gli altri infransero i ferri d’Attaf, e lo condussero con loro; essi avevano il volto imbrattato di nero e di rosso, e sembravano demoni; di modo che mi fu impossibile riconoscerne alcuno. —
«Il governatore, disperato di vedersi sfuggire la sua vittima, non sapeva se dovesse credere al rapporto del carceriere, e domandò al carnefice che cosa pensasse di quell’avvenimento. Questi disse che il carceriere occupava da molto tempo quel posto, nel quale era succeduto al padre, e che non aveva mai lasciato fuggire alcun prigioniero.
«Il governatore, per punirlo, si contentò di togliergli la sua carica. Ritornato al palazzo, mandò da diverse parti vari cavalieri ad inseguire Attaf, i quali, dopo aver percorso da ogni lato la campagna, tornarono dopo qualche giorno, senza nuova alcuna dell’uomo che cercavano.»
NOTTE CDLXVI
— Frattanto Attaf, dopo un viaggio lungo e penoso attraverso deserti e strade remote, era lontano da Bagdad appena qualche giornata, allorchè fu assalito dai masnadieri che lo spogliarono di tutto. Egli continuò così il suo cammino, e giunse alla città in quel miserabile stato. Chiese dove fosse il palazzo del gran visir, e vi si recò; ma quando volle entrare, fu respinto. Mentre stava sulla porta, vide passare un vecchio d’aspetto rispettabile, e gli domandò se avesse un calamaio ed un calam (9).
— Sì,» gli rispose il vecchio, «e scriverò per voi, se lo desiderate. — Vi ringrazio,» rispose Attaf; «scriverò io medesimo.» Prese il calamaio, e scrisse a Giafar quanto eragli accaduto. Indi ringraziò il vecchio, restituendogli i suoi effetti, e s’avanzò verso le guardie che stavano sulla porta, pregandone una di consegnare la sua lettera al primo visir. La guardia la prese, e promise di tosto portarla.
«Nello stesso momento, s’udi un gran fragore di tamburi. Tutti domandavano che cosa fosse; si seppe ch’era nato un fanciullo al califfo, e che si farebbero pubblici tripudi per lo spazio di sette giorni. Tosto, tutto fu in moto nel palazzo: si andava, si veniva, ciascuno affrettavasi da ogni parte.
«Fra quel tumulto, il soldato incaricato della lettera d’Attaf la lasciò cadere; una nuova guardia venne a mettersi alla porta del palazzo, prese Attaf e lo mise in prigione. Poco dopo, il gran visir salì a cavallo, e fece pubblicare per tutta la città l’ordine del califfo per le pubbliche feste, che doveano durare sette giorni. Con questo medesimo ordine, il califfo lasciava in libertà tutti i prigionieri.
«Attaf, rilasciato cogli altri, comprese che non potrebbe informare facilmente Giafar di quello che lo risguardava, e che bisognava attendere un’occasione più favorevole. Uscendo di carcere, trovò tutta la città decorata ed illuminata: l’aria echeggiava del fragore degli strumenti musicali, e le contrade erano piene, dai lati, di lunghe tavole sulle quali eranvi cibi d’ogni sorta. Attaf partecipò ai pasti pubblici, e passò in quei modo i sette giorni di festa.
«Alla sera del settimo giorno, tutti si ritirarono nella propria abitazione, stanchi dei piaceri; le vie divennero deserte quanto poche ore prime erano popolate, ed il silenzio più profondo successe al clamore ed al tumulto.
«Attaf entrò allora in una moschea per passarvi la notte; ma dopo la preghiera della sera, uno dei custodi se gli avvicinò e gl’impose di uscire prima che si chiudesse la porta. — Lasciatemi,» disse Attaf, «passar la notte in un canto. — Impossibile,» rispose il custode; «ieri ci fu rubato un tappeto; non voglio che alcuno dormi qui stanotte. — Io sono straniero,» riprese Attaf, «e non conosco alcuno in questa città; datemi l’ospitalità sol per oggi.» Il guardiano non volle ascoltar nulla, e lo costrinse ad uscire.
«Quando fu nella via, si vide inseguito da una torma di cani, che gli abbaiavano dietro, mentre i guardiani dei mercati dei diversi quartieri gli gridavano d’allontanarsi. Vide una piazza coperta di rottami e disabitata, e volle ricoverarvisi. Giungendo, inciampò in qualche cosa e cadde; riconobbe essere un cadavere, ed alzossi intriso di sangue.
«In quel punto, il luogotenente di polizia passò di là colla sua gente; vedendo il cadavere, s’impadronirono d’Attaf e lo condussero in prigione. Ma lasclamo, per un momento, Attaf deplorare l’infelice sua sorte, e ritorniamo a Giafar, che lasclammo vicino a Cobbat Alasafir, in viaggio per Bagdad, col numeroso seguito datogli dall’uomo generoso, e la giovane sposa della quale gli avea fatto sagrificio.
«Dopo alcune ore di cammino, Giafar si fermò in un luogo comodo per passarvi la notte. I servi incaricati delle tende, erano andati avanti, onde innalzare due magnifici padiglioni, uno per Giafar, l’altro per la sposa. Allorchè ciascuno fu ritirato nella propria tenda, il visir, desideroso di trovarsi solo colla beltà per la quale avea concepita una passione sì violenta, recossi da Zalica. Quand’essa lo vide entrare, si coprì il volto colle mani; Giafar la salutò; ella gli rese umilmente il saluto, ma senza cangiar posizione.
«— Perchè,» le disse Giafar, «togliermi la vista di quest’occhi che mi hanno fatto sentir tanto il loro potere? Non siete voi la mia sposa? — Signore,» rispose Zalica, «un principe sì potente come voi vorrebbe prendere la moglie di chi gli ha dato per molto tempo l’ospitalità, e prodigati per lui i suoi beni e le suo ricchezze? io sono vostra sposa, ed anche vostra schiava. — Che significano tai detti?» replicò Giafar; «voi non siete la moglie d’Attaf.
«— Io lo fui,» riprese Zalica, «e dovrei esserlo ancora. Il male da cui foste preso, dopo avermi veduta inaffiare i fiori ad una finestra, determinò Attaf a ripudiarmi per darmi a voi; ma credo non abuserete della generosità dell’uomo ch’io riguardo sempre come mio marito, ed è per questo che mi nascondo il volto al vostro cospetto. —
«Giafar fu molto meravigliato di quello che udiva.
«— Poichè la cosa è in questi termini,» disse dopo un momento di riflessione, «quantunque, secondo le leggi, voi non siate più di Attaf, ma mia, io vi riguarderò come se non aveste mai cessato d’appartenere al mio amico, ed avrò per voi i riguardi ed il rispetto che userei per mia madre o mia sorella. Dopo essere partita con me ed aver passata qui la notte, voi non potete ritornare da Attaf, senza dar luogo a congetture ingiuriose pel vostro onore e pel suo; è meglio venire sino a Bagdad. Riceverete per istrada gli onori che si usano rendere alla sposa del primo visir, ed approfitterete dei regali che vi si offriranno. Giunta a Bagdad, vi darò un palazzo, schiave, eunuchi, vestiti d’ogni specie, ed una rendita conveniente al mio grado: tutto questo vi apparterrà, e potrete disporre fin quando le circostanze ci avranno additato il partito da prendere. Frattanto siate senza inquietudine alcuna, e confidate nella mia delicatezza: la passione fin da principio concepita per voi ha preso d’improvviso un diverso carattere, e si è cangiata in una tenerezza fraterna, tanto più grande quanto era ardente il mio amore. —
«Dette queste parole, Giafar s’allontanò da Zalica, e ritirossi nella propria tenda. Al mattino seguente si misero in viaggio; tutte le città per le quali passavano, affrettaronsi a venire a render omaggio a colei che riguardavasi come la sposa del primo visir, e recarle doni. Giafar, giunto a Bagdad, le diede un palazzo magnificamente addobbato, che dipendeva dal suo serraglio; mise al di lei servizio gran numero d’eunuchi e di schiave, le donò preziosi gioielli, ricchi vestiti, e nulla dimenticò che potesse lusingarla e divertirla.»
NOTTE CDLXVII
— Giafar potea con diritto sperare che la collera del califfo sarebbe calmata, e che il racconto delle avventure occorsegli nel suo esilio potrebbe farlo rientrare nel favore del padrone. — D’onde vieni?» gli disse Aaron vedendolo; «e dove andasti quando ti ordinai d’allontanarti dal mio cospetto?
«— Sono andato a Damasco,» rispose Giafar. — In casa di chi abitasti?» chiese il califfo. — In casa d’Attaf.» Gli raccontò indi quanto era accaduto tra lui e l’ospite.
«Quando Giafar ebbe finito, il califfo chiamò Mesrur, e gli consegnò una chiave, dicendogli d’andar a cercare il libro letto dinanzi a lui ed al visir qualche mese, prima. Mesrur avendogli recato il libro, Aaron lo presentò a Giafar, il quale vide con maraviglia che racchiudeva tutte le cose accadutegli dopo la sua partenza da Bagdad, fino al momento ch’erasi separato da Attaf, vicino a Cobbal Alasafir.
«— Chiudi il libro,» gli disse allora il califfo; «ti farò leggere il resto quando tutti gli avvenimenti che contiene saranno compiuti. Finora ti accadde tutto quello che qui è predetto: tu vedi adunque che aveva ragione dicendoti di non comparirmi davanti se non quando potessi tu stesso rispondere alla domanda che mi facevi, e dirmi ciò ch’io avea letto; capirai pure perchè piangeva e rideva alternativamente; io partecipava alle pene ed alla soddisfazione che ti fecero provare le tue diverse avventure. —
«Il califfo pigliò allora il libro, e disse a Mesrur di rimetterlo nell’armadio. — Ritirati ora in tua casa,» disse indi a Giafar, «e riprendi le funzioni della tua carica; la mia collera era finta; voleva provare la verità delle predizioni racchiuse in quel libro: ti rendo tutta la mia amicizia, e la tua obbedienza in questa circostanza non ha fatto che aumentare la mia affezione per te. —
«Frattanto Attaf, avendo passata la notte in prigione, fu condotto all’indomani davanti al cadì, il quale gli domandò se foss’egli che avesse ucciso l’uomo presso cui era stato trovato intriso di sangue, — Fui io ad ammazzarlo,» rispose Attaf. — Lo uccideste voi deliberatamente? — Sì. — Godete voi di tutto il vostro intelletto? — Sì. — Come vi chiamate? — Attaf. —
«Il cadi mandò tosto il rapporto di quell’affare al muftì, che pronunciò la sentenza; il cancelliere stese il processo verbale e mandò gli atti al primo visir. L’ordine di eseguire la sentenza venne subito emanata, ed Attaf fu condotto alla forca.
«Il gran visir, accompagnato da numeroso seguito, passò per caso in quel momento vicino al luogo dove dovevasi eseguire la sentenza. L’ufficiale che vi presiedeva, avendo veduto Giafar, gli corse incontro per fargli i suoi omaggi.
«— Cos’è quest’esecuzione che attira tanta gente?» domandò Giafar. — Noi siamo per appiccare,» rispose l’ufficiale, «un abitante di Damasco che ha assassinato un uomo. — Chi è questo abitante di Damasco?» riprese Giafar. — » È un certo Attaf,» disse l’ufficiale.
«A tal nome, Giafar mandò un gran grido, e comandò che gli si conducesse il delinquente. L’ufficiale corse, slegò la corda già attaccata al collo d’Attaf, e lo condusse dal visir, che lo riconobbe, ad onta dello stato spaventevole in cui si trovava, e se gli gittò ai collo. Attaf riconobbe anch’egli Giafar, e se lo strinse fra le braccia.
«— Che cosa vuol dir ciò, mio caro Attaf?» disse il visir piangendo.
«— La mia affezione per voi,» rispose l’altro, «mi ha condotto da infortunio in infortunio fin qui.» A quelle parole, caddero uno addosso all’altro svenuti. Vennero rialzati, e dopo ch’ebbero ripresi i sensi, Giafar fe’ condurre Attaf al bagno, gli mandò un magnifico vestito, e lo fece venire nel suo palazzo.
«Dapprima si diede ad Attaf i rinfreschi ed i cibi onde aveva bisogno; Giafar lo pregò quindi a raccontargli le sue avventure dopo la loro separazione vicino a Cobbat Alasafir.
«Attaf gli raccontò la perfidia d’Abdalmalek, lo strattagemma del carceriere che l’avea messo in libertà, la maniera ond’era stato spogliato vicino a Bagdad, l’inutile tentativo fatto per renderlo consapevole delle sue disgrazie, come avesse passato i sette giorni di pubbliche allegrezze, il rifiuto di lasciargli passare la notte nella moschea, e infine com’era stato arrestato e preso per un assassino.
«Giafar raccontò da parte propria in qual modo avesse saputo che Zalica era la sua sposa. Lo condusse subito da lei, gliela restituì e li lasciò soli. Zalica manifestò la sua gioia vedendo Attaf, e lasciossi cadere nelle di lui braccia, ripetendo molte volte: — È forse un sogno? Siete proprio voi ch’io vedo, mio caro Attaf?» I due sposi narraronsi a vicenda le loro avventure; Zalica vantò molto al marito il modo generoso col quale Giafar avevala trattata, e gli fece il dettaglio degli onori e dei regali ricevuti.
«All’indomani, Giafar recossi di buon mattino dal califfo, e gli raccontò la storia d’Attaf.
«— Senza dubbio,» disse Aaron, allorchè Giafar ebbe finito, «ecco una storia delle più straordinarie.» Chiamò nello stesso tempo Mesrur, e gl’impose di portare il libro chiestogli pochi giorni prima. Mesrur avendo recato il libro, il califfo lo fece dare a Giafar, dicendogli di leggere. Il visir vi lesse tulle le cose accadute ad Attaf.
«— Tu vedi,» disse allora il califfo, «quanto questo libro è meraviglioso, e come merita di essere conservato preziosamente! Sicuro che gli avvenimenti annunciati doveano accadere, comandai di non ti comparirmi davanti prima che sapessi tu stesso ciò che conteneva: sei partito, ti abbandonasti al destino, gli avvenimenti si sono svolti, e tutto sapesti, o per te medesimo, o per bocca d’Attaf. L’idea di ciò che dovevate soffrire amendue m’affliggeva naturalmente, ed aveva ragione di ridere pensando che da me dipendeva il ritardare o precipitare il corso di tanti avvenimenti. La tua curiosità, il giudizio poco favorevole che avevi di questo libro, hanno provocato l’ordine che ti diedi d’allontanarti da me, e da quel punto tuttaddue dovevate provare necessariamente ciò che vi è accaduto.—
«Il califfo volle indi vedere Attaf, e comandò che gli fosse presentato. Attaf segl’inchinò, e fece voti per la durata e prosperità del suo regno. Il califfo gli domandò che cosa desiderava gli accordasse.
«— Commendatore dei credenti,» disse Attaf, «perdonate ad Abdalmalek. — Come!» riprese il califfo; «chiedi grazia per lui dopo ch’egli volle farti perire?» Non è sua colpa,» riprese Attaf, «ma di quelli che l’hanno ingannato, aizzandolo contro di me coi loro perfidi suggerimenti. Quanto a me, gli perdono di buon cuore, e dono al carceriere tutto quello che m’appartiene. Confermate, vi prego, tale donazione, e per impedire che Abdalmalek sia ingannato in seguito, accordate al carceriere il diritto di rivedere tutto ciò che farà il governatore, e che nulla d’or innanzi si faccia a Damasco senza che il mio liberatore v’apponga il sigillo che vi piacerà inviargli.» Il califfo aderì senza difficoltà allo brame di Attaf, ed i suoi ordini furono rimessi ad un corriere, che partì immantinente per Damasco.
«Sparsasi per quella città la voce che Attaf era andato a Bagdad a portar le sue querele, al califfo, non si dubitava che Abdalmalek pagherebbe col capo il delitto del quale si era reso colpevole; si temeva pure che tutta la città dovesse risentire gli effetti della collera d’Aaron Alraschild, ed attendevansi con impazienza notizie della capitale dell’impero. Tutto il popolo andò incontro al corriere, e manifestò la sua gioia allorché seppe il contenuto dei dispacci.
«Il governatore si stimò lietissimo d’aver ottenuto il perdono, e fece rimettere al carceriere il sigillo mandato dal califfo, come anche la donazione che gli assicurava tutti i beni e le ricchezze d’Attaf. Il carceriere, maravigliato del suo innalzamento, scrisse al benefattore, per manifestargli la propria gratitudine.
«Giafar s’incaricò di risarcire il suo amico, il quale, per le sue cure, si trovò in breve dieci volte più ricco ch’egli prima non fosse.»
Scheherazade terminò la storia d’Attaf ed il giorno che comparve, non le permise di cominciarne un’altra. — Sorella,» le disse Dinarzade,» vi ho sovente udito parlare degli antichi eroi dell’Arabia, e delle loro maravigliose avventure; io stupisco come finora non ne abbiate raccontata alcuna al sultano. — Sorella,» riprese Scheherazade, «io m’impegno, se il sultano vuol prolungarmi ancor la vita, di raccontargli domani la storia del principe Habib e della bella Dorrat Algoase.» Schahriar avendo dimostrato che ascolterebbe volentieri quella storia, Scheherazade la cominciò all’indomani in questi sensi.
FINE DEL VOLUME QUINTO.
Note
- ↑ Gli autori arabi, per vantar la generosità di qualcuno, dicono ch’è più generoso di Hatem: agwad min Hatem. Quest’uomo famoso morì, secondo gli Annali d’Abulfeda, l’ottavo anno dell’egira, 630 dell’era cristiana.
- ↑ Hatem ebbe appena ucciso il cavallo, che seppe l’inviato greco esser venuto appunto per chiederglielo in nome dell’imperatore.
- ↑ La parola gouthah significa, in arabo, un luogo fertile, copioso d’acqua e di piante.
- ↑ I quattro Ferdus o Paradisi terrestri, secondo gli Orientali, sono i dintorni di Damasco; quelli di Samarcanda, chiamati Sogd, d’onde formossi il nome di Sogdiana; la valle di Bewan, in Persia, e le sponde del fiume Obollah presso Basra.
- ↑ In arabo, Wadi Albenefseg.
- ↑ Le quattro meraviglie del mondo, secondo gli arabi autori, sono il faro d’Alessandria, il ponte del Sangia, nella parte settentrionale delle Siria sino all’Eufrate, le chiese di Roha (Edessa), e la moschea di Damasco.
- ↑ Emessa.
- ↑ Esiodo, cap.21, vers. 33; Corano, surate 2, vers.75; surate 5, vers. 40 e 53.
- ↑ Specie di canna onde servonsi gli Orientali per iscrivere.