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solito, ma non potè mangiare. Attaf, accortosi che l’ospite non prendeva nulla, gliene domandò la cagione. — Io aveva molto appetito quando pranzai,» rispose Giafar; «forse ho mangiato troppo, ed è per questo che non posso cenare. —

«Attaf fece tosto sparecchiare, ed invitò l’ospite a dormire. Giafar si coricò, ma non potè pigliar sonno; pensava continuamente alla giovane veduta alla finestra, e traendo profondi sospiri, diceva fra sè: — Felice chi potrà possederti, o sole di bellezza! luna del tempo! —

«Giafar passò la notte in questo stato crudele, non potendo chiuder occhio e non facendo che voltarsi e rivoltarsi nel letto. All’indomani, si trovò sì stanco che non ebbe la forza d’alzarsi. Attaf, sorpreso di non vederlo comparire, entrò nella sua camera, e gli disse:

«— Voi m’inquietate, signore; è giorno inoltrato, e siete ancora a letto! Non avete forse dormito bene stanotte? — È proprio così,» rispose Giafar.

«Attaf mandò tosto a cercare il più buon medico di Damasco, che non tardò a venire. — Che cosa c’è?» disse questi, avvicinandosi al letto. «La vostra malattia non mi sembra pericolosa, e non sarà difficile guarirvi. Ov’è il vostro male? — Dappertutto, » rispose Giafar. Il medico gli prese il braccio, gli toccò il polso e ne studiò il battito. Conobbe tosto lo stato dell’infermo; ma non osando dirgli ch’era innamorato, domandò carta per iscrìvere ciò che bisognava dargli.

«Portata la carta, il medico sedette e finse di scrivere la ricetta. In quel momento si venne ad annunciare ad Attaf che una schiava lo domandava. Era una serva che veniva da parte della sua sposa, per sapere ciò che desiderava da pranzo e da cena;