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«Aaron Alraschild prende uno di que’ libri e legge le prime pagine. Quella lettura l’intenerisce, versa qualche lagrima, ma fra poco si mette a ridere; poco dopo ricomincia a piangere, e poi a ridere; in fine, piange ancora e ride per la terza volta.
«Giafar, attento alle diverse sensazioni che provava successivamente il califfo, non potè trattenersi dal dirgli: — Commendatore dei credenti, qual è mai il soggetto di questo libro, e perché vi fa piangere e ridere quasi nello stesso tempo, come fanno i mentecatti? Questo libro arabo è egli capace d’intorbidare la più sana ragione, lo spirito più solido e giudizioso che siavi al mondo?
— Giafar,» rispose il califfo, «scuso la tua curiosità; ma il paragone che fai delle diverse sensazioni ch’io provo con quella che accade ai pazzi, è fuor di luogo e temerario, ed il giudizio che fai di questo libro è totalmente falso. Per insegnarti qual n’è il merito e farti vedere ch’io non sono pazzo, allontanati dal mio cospetto, e non comparirmi davanti se non quando sarai meglio istruito, e che potrai dirmi tu stesso il contenuto di quest’opera; saprai allora perché ho pianto e riso nel medesimo tempo. Esci, ti dico, e se comparisci a me davanti prima di conoscere la cagione di ciò ch’oggi ti sembra singolare ed anche ridicolo, la morte più orribile sarà la pena della tua audacia.» Ciò dicendo, il califfo chiuse il libro, lo rimise nell’armadio e ne prese la chiave.
«Il decreto profferito da Aaron gettò il timore e lo spavento nell’animo di Giafar; escì pieno di dolore, e recossi a casa, camminando a lenti passi e riflettendo alla sua avventura.
«— Qual terribile caduta!» diceva tra sè; «perdo il mio grado, la mia fortuna, ed eccomi allontanato