La figlia obbediente/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa di Pantalone.
Rosaura e Beatrice.
Rosaura. Venite, amica, venite. Son sola, son malinconica, ho bisogno d’un poco di compagnia.
Beatrice. Spero io essere venuta ad iscacciare la vostra malinconia.
Rosaura. Avete da raccontarmi qualche graziosa cosa?
Beatrice. Sì, una cosa graziosissima. Una cosa che vi porrà in giubbilo, in allegria.
Rosaura. È tornato forse il signor Florindo?
Beatrice. Bravissima; l’avete indovinata.
Rosaura. Il cuore me l’ha detto.
Beatrice. È vero, è ritornato. Ma circa agl’interessi vostri amorosi, che cosa vi dice il cuore?
Rosaura. Che il di lui padre ricco vorrà ch’ei si mariti con ricca dote, ed egli sarà costretto a lasciarmi....
Beatrice. Il vostro cuore non è sempre indovino. È venuto anzi con lettere di suo padre dirette al vostro, le quali accordano le vostre nozze, e vogliono che si solleciti la conclusione.
Rosaura. Si solleciti pure. Cara Beatrice, voi mi consolate. Dov’è il signor Florindo?
Beatrice. Sarà qui a momenti. Ho voluto io prevenirlo, per darvi questa nuova felice.
Rosaura. Cara amica...
Beatrice. Meriterei la mancia.
Rosaura. Meritate l’amor del mio cuore.
Beatrice. Questo lo dovete serbare a Florindo.
Rosaura. Ma voi siete sempre allegra e gioviale. Benedetto il vostro temperamento.
Beatrice. Zitto; sento gente.
Rosaura. Sarà mio padre.
Beatrice. Altro che padre... (guardando alla scena
Rosaura. Che?
Beatrice. È l’amico.
Rosaura. Chi?
Beatrice. Florindo.
Rosaura. Davvero?
Beatrice. Vi mutate di colore? Animo, animo, allegramente.
SCENA II.
Florindo e dette.
Florindo. Chi è qui? (di dentro
Beatrice. Venite, venite, signor Florindo.
Florindo. Servo di lor signore.
Rosaura. Ben venuto.
Beatrice. Ben venuto.
Rosaura. Avete fatto buon viaggio?
Florindo. Buonissimo.
Beatrice. Non vedete che è grasso, come...
Rosaura. Come che?
Beatrice. Come un tordo, come un tordo.
Florindo. Godo, signore mie, di trovarvi spiritose ed allegre.
Beatrice. La signora Rosaura non era così poco fa.
Florindo. Eravate voi malinconica?
Rosaura. Sì, per la vostra lontananza. Pel dubbio della vostra venuta, e per quello de’ nostri amori.
Florindo. Tutto è accomodato, signora Rosaura...
Beatrice. Lo sa, lo sa, gliel’ho detto io.
Florindo. Mi avete levato il piacere di darle io il primo questa felice novella.
Beatrice. Volevate forse la mancia, che voleva dare a me?
Florindo. Che mancia1? (a Rosaura
Rosaura. Parliamo sul serio. Vostro padre si contenta delle mie nozze?
Florindo. È contentissimo.
Rosaura. Sa che la dote mia non corrisponde alle sue ricchezze?
Florindo. Sa tutto; è informato di tutto. Sa che voi siete di buon costume, ed essendo egli perfetto economo, preferisce alla ricca dote una fanciulla morigerata e discreta.2
Rosaura. Son contentissima. Avete ancora veduto mio padre?
Florindo. Non l’ho veduto. Venni3 per presentargli la lettera, ma non è in casa.
Rosaura. Accoglierà con giubbilo una tal nuova.
Florindo. So benissimo ch’egli mi ama.
Beatrice. Eppure egli non vi aspettava più di ritorno.
Rosaura. Temeva che vostro padre volesse accasarvi a suo modo.
Florindo. Pur troppo, se tardava io quattro giorni, stava egli sul punto di disporre di me. Finalmente sarete mia.
Rosaura. Ancora non mi par vero.4
Florindo. Io non ci vedo altre difficoltà. Mio padre è contento; il vostro sapete quante volte mi ha detto, che volentieri avrebbe vedute le nostre nozze. Eccomi qui, son vostro.
Rosaura. Sì, siete mio. Sia ringraziato il cielo.
Beatrice. Sarete stanco, signor Florindo. Siete venuto per terra?
Florindo. No, son venuto per acqua col corrier di Bologna.5
Rosaura. Siete stato allegro per viaggio?
Florindo. Mi sono annoiato infinitamente. Eravi una ballerina, che non taceva mai. E suo padre poi, tutto il viaggio, non ha fatto altro che seccarmi, raccontandomi le grandezze della figliuola.
Rosaura. Anzi vi sarete divertito bene colla ballerina.
Florindo. Da uomo d’onore, non la poteva soffrire.6
Beatrice. Come chiamavasi? La conosciamo noi?
Florindo. La conoscerete. È una certa Olivetta.
Rosaura. Figlia di certo Brighella?
Florindo. Sì, per l’appunto.
Rosaura. Oh! la conosco. Suo padre è stato servitore in casa nostra.
Florindo. Servitore? Chi sente lui, è un signore.
Beatrice. Non sapete? Le capriole della figliuola nobilitano tutta la casa.
SCENA III.
Arlecchino e detti.
Arlecchino. Siori, el padron l’è vegnudo.
Florindo. Gli avete detto che sono qui io?
Arlecchino. Eh! so el me mistier. No gh’ho dito gnente.
Florindo. Bravissimo. Non vorrei ch’egli sapesse, che ho fatta la prima visita a voi.
Beatrice. Facciamo così, signor Florindo. Andiamo giù per la scala secreta; e mostriamo di essere venuti ora.
Florindo. Benissimo. Andate, che ora sono da lui.
Arlecchino. (Bisogna servirlo ben; el me dà qualche lirazza).(da sè, parte
Rosaura. Anche voi, signora Beatrice, volete andare?
Florindo. Non occorre che v’incomodiate.
Beatrice. Voglio venire ancor io. Vo’ vedere, come quel caro vecchietto accetta una tal novella.
Rosaura. Cara amica, lasciateli parlar fra di loro.
Beatrice. No, no; voglio esserci ancor io. In queste cose ci ho il maggior gusto del mondo. Andiamo. (parte
Florindo. Signora Rosaura, or ora torno da voi.
Rosaura. Sì, caro...
Florindo. Sposa, addio. (parte
SCENA IV.
Rosaura sola.
Maggior contentezza io non potea bramare di questa. Mio padre ancora sarà contento. Cento volte mi ha detto, che bramerebbe volentieri vedermi sposa di quest’unico figlio di un così ricco mercante. Non credeva egli mai, che il di lui genitore si contentasse. Lode al cielo, si è contentato; Florindo sarà mio sposo. Ora parleranno fra loro. Ma Beatrice impedirà forse che parlino con libertà: quella è una buonissima donna, di buon cuore, amorosa, ma vuol saper tutto, vuol entrare per tutto... Ecco mio padre. Non può ancora aver veduto Florindo.
SCENA V.
Pantalone e detta.
Pantalone. Fia mia, son qua con delle buone niove.
Rosaura. L’avete veduto?
Pantalone. Chi?
Rosaura. Il signor Florindo.
Pantalone. Sior Florindo! Dove xelo? Xelo vegnù a Venezia?
Rosaura. Non lo sapete? È qui, è tornato, e cerca di voi.
Pantalone. L’aveu visto?
Rosaura. Non l’ho veduto. Ma è stata da me la signora Beatrice, e mi ha raccontato ogni cosa.
Pantalone. Cossa v’ala contà?
Rosaura. Cento cose, una più bella dell’altra. Il signor Florindo è tornato. Ha lettere di suo padre. Suo padre accorda tutto, si contenta di tutto. Fa stima di voi, fa stima di me. Acconsente alle nostre nozze; ed il signor Florindo è venuto apposta a Venezia per isposarmi.
Pantalone. Oh! sia maledetto! (butta via con rabbia la sua berretta)
Rosaura. Oimè! Che è questo? Che c’è di nuovo?
Pantalone. Ghe xe de niovo, che sior Florindo xe vegnù tardi.
Rosaura. Come tardi?
Pantalone. Siora sì; el xe vegnù tardi. Perchè non alo scritto una lettera?
Rosaura. Ha voluto egli portar la nuova in persona.
Pantalone. L’ha fatto una bella cossa.
Rosaura. Non mi tenete più sospesa; ditemi...
Pantalone. Alle curte. V’ho promessa a un altro. E za do ore ho serrà el contratto.
Rosaura. Oh cielo! Senza dirmelo?
Pantalone. No ghe giera tempo da perder. El partio no pol esser meggio. Un omo nobile, ricco e generoso.
Rosaura. Ma senza dirmelo?
Pantalone. Cara fia, no so cossa dir. L’occasion ha portà cussì. El carattere dell’omo xe stravagante; son informà, che chi nol chiappa in parola in certi momenti, el se mua facilmente d’opinion. L’ho trovà de voggia. I amici m’ha conseggià de farlo; l’ho fatto. Avemo sottoscritto, e no ghe xe più remedio.
Rosaura. Quest’uomo ricco, e nobile, e stravagante, sarebbe mai il signor conte Ottavio?
Pantalone. Giusto elo. Cossa ve par? Gierelo un partìo da lassar andar?
Rosaura. Povera me! Voi mi avete sagrificata.
Pantalone. Sacrificada? Perchè?
Rosaura. Perchè appunto note mi sono le di lui stravaganze, il di lui costume, il di lui strano temperamento.
Pantalone. Ve sarà anca nota la so ricchezza, la so nobiltà, e che una donna, che sappia far, lo farà far a so modo e senza una immaginabile suggizion... In summa vu starè da regina.
Rosaura. Mi lascerà dopo quattro giorni.
Pantalone. Credeu che sia un minchion? El ve fa diese mille ducati de contradota.
Rosaura. Ah! signor padre. Questa volta l’interesse v’accieca.
Pantalone. Me maraveggio de vu, siora. No l’ho fatto per interesse, l’ho fatto per l’amor che ve porto. Un povero pare, scarso de beni de fortuna, no ve pol dar quella sorte che meritè, nol ve pol dar quel stato che el ve desidera. El cielo me presenta una congiontura per vu felice, e volè che la lassa andar? Ve vorria poco ben, se trascurasse la vostra fortuna. Questo xe un de quei colpi, che poche volte succede. Un omo ricco se innamora de una putta civil. El la domanda a so pare; se el pare tarda un momento a rissoìver, el pol precipitar el so sangue. L’omo che gh’ha giudizio, no ha da tardar un momento a rissolver, a concluder, a stabilir. Ho rissolto, ho concluso. Rosaura, vu sarè so muggier.
Rosaura. E il povero signor Florindo?
Pantalone. Sior Florindo xe vegnù tardi.
Rosaura. L’avete pur sempre amato. Avete sempre fatta stima di lui.
Pantalone. Xe vero, ghe voggio ben, e lo stimo.
Rosaura. Avete detto pur tante volte, che avreste desiderato che potesse egli divenir vostro genero.
Pantalone. Sì, l’ho dito, xe la verità.
Rosaura. Ecco il tempo...
Pantalone. No gh’è più tempo. El xe vegnù troppo tardi.
Rosaura. Due ore hanno da decidere di me stessa?
Pantalone. Siora sì, un momento decide.
Rosaura. Ma il signor Ottavio...
Pantalone. Sior conte Ottavio sarà qua adess’adesso.
Rosaura. Il signor conte Ottavio, voleva dire, non ha avuto la mia parola.
Pantalone. L’ha avù la mia, e tanto basta.
Rosaura. Voi volete disporre di me, senza nemmeno sentirmi sul punto della mia inclinazione?
Pantalone. Rosaura, sè sempre stada ubbidiente; avè sempre fatto pompa della vostra rassegnazion. Adesso xe el tempo de farla maggiormente spiccar. L’ubbidienza no gh’ha nissun merito, quando no la xe in occasion de superar la passion. Domando el consenso dalla vostra ubbidienza, acciò abbiè sto merito de gratitudine verso de mi; del resto, in caso contrario, per farve acconsentir, me basta la mia autorità. Son pare, posso disponer d’una mia fia. So che al matrimonio no sè contraria; so che lo preferì a ogni altro stato, onde maridandove segondo7 la vostra inclinazion. Circa la scelta del mario, tocca a mi a farla. L’ho fatta, e vu da putta prudente rassegneve, e lodela.
Rosaura. Ma il signor Florindo venuto apposta di Livorno?...8
Pantalone. Come xelo vegnù?
Rosaura. Col corriere di Bologna.
Pantalone. El doveva vegnir per la posta. Chi tardi arriva, mal alloza.
Rosaura. Non vi sarebbe rimedio?...
Pantalone. No gh’è remedio. El sior Conte xe qua adess’adesso.
Rosaura. Sentite il signor Florindo.
Pantalone. Lo sentirò, ma xe tardi.
Rosaura. Oh! sventurata ch’io sono!
Pantalone. Via, fia, no ve stè a travaggiar. Finalmente sentì, Rosaura: el matrimonio, fatto con genio o contraggenio, lo paragono a un sorbetto, o a una medesina. El sorbetto se beve con gusto, ma el gusto passa e el fa mal: la medesina fa un poco de nausea; ma co la xe in stomego, la fa ben. Se no podè bever el sorbetto de sior Florindo, tolè el siroppo de sior Ottavio, e vederè che el ve farà ben. (parte)
SCENA VI.
Rosaura sola.
Ei se la passa colle barzellette; ma io, povera disgraziata, io sento l’atroce pena che mi tormenta. L’obbedienza è una bella virtù, ma nel mio caso troppo costa a questo povero cuore. Che farò dunque? Mi opporrò ai voleri del padre? Deluderò i suoi maneggi con una manifesta disobbedienza? No, l’onestà mia nol consente, il mio costume non mi darebbe forza di farlo; ma Florindo?9 Potrò scordarmene?10 Nemmeno. Che farò dunque? Il tempo e la prudenza sono medici de’ mali gravi. Chi sa? Spero ancora nella provvidenza del cielo di poter salvar il cuore, senza perdere il merito della più giusta, della più onesta rassegnazione, (parte)
SCENA VII.
Altra camera di Pantalone.
Beatrice e Florindo, poi Pantalone.
Beatrice. Non viene mai questo signor Pantalone?
Florindo. Non avete inteso che cosa ha detto il servitore? Egli è colla signora Rosaura.
Beatrice. Ella gli averà detto tutto; me ne dispiace infinitamente.
Florindo. Perchè? Non lo ha da sapere?
Beatrice. Voleva io essere la prima a dirglielo.
Florindo. Eccolo.
Beatrice. Sentiremo, se sa ogni cosa.
Pantalone. (Oh diavolo! el xe qua; se savesse come far a schivarlo. No gh’ho cuor de parlarghe). (da sè)
Florindo. Servo del signor Pantalone.
Pantalone. Patroni reveriti.
Beatrice. Eccolo qui il nostro signor Florindo. È tornato presto, e con delle bellissime nuove.
Pantalone. Ala fatto bon viazzo? (a Florindo)
Florindo. Buonissimo.
Beatrice. Quando si va a nozze, si fa sempre buon viaggio.
Pantalone. Cossa fa so sior padre?
Florindo. Benissimo, grazie al cielo. M’impone di riverirvi.
Beatrice. Il suo signor padre non vede l’ora che succeda...
Pantalone. Li portelo ben i so anni? (a Florindo)
Florindo. In verità, pare ringiovanito.
Beatrice. E ora con questo matrimonio del figlio...
Pantalone. Vali ben i so negozi?
Florindo. La fortuna non lo abbandona.
Beatrice. Via, dategli la lettera di vostro padre, e parliamo di quello che importa più.
Florindo. Ecco, signore, una lettera di mio padre.
Pantalone. Grazie. La vaniglia st’anno xela assae cara?
Florindo. Carissima.
Pantalone. Caccao ghe ne xe?
Florindo. In abbondanza.
Beatrice. Ma via, signor Pantalone, apra la lettera, legga e senta.
Pantalone. Ghe xe qualcossa per ela? Gh’ala qualche premura? (a Beatrice)
Beatrice. Per me non vi è niente; ma per la signora Rosaura. Ella vi avrà pur detto...
Pantalone. Quanto gh’ala messo da Livorno a vegnir a Venezia?
Florindo. Tre giorni da Livorno a Bologna, e tre da Bologna a Venezia.
Pantalone. (Fusselo almanco vegnù un zorno prima). (da sè)
Beatrice. (Certamente la signora Rosaura non gli ha parlato; egli non sa ancora niente). (da sè)
Florindo. Signore, se avrete la bontà di leggere quella lettera...
Pantalone. Conossela a Livorno un levantin, che i ghe dise Mustafà Sissia?
Florindo. Non lo conosco.
Beatrice. (Mi sento che non posso più). (da sè)
Florindo. Sapete ch’io sono stato quasi sempre in Venezia, ed ora non mi son trattenuto in Livorno che cinque giorni.
Beatrice. Tanto che ha ottenuto dal padre la permissione di prendere in moglie...
Pantalone. I dise che Livorno xe un bel paese.
Florindo. Piccolo, ma grazioso.
Pantalone. Gh’ho voggia de véderlo.
Beatrice. Ma via, aprite quella lettera.
Pantalone. L’averzirò co vorrò, patrona.
Beatrice. Se non la volete aprire, vi dirò che il padre del signor Florindo accorda...
Pantalone. Circa quel conto delle cere, che gh’ho manda, cossa diselo so sior pare?
Florindo. Nella lettera troverete anche questo.
Pantalone. Benissimo, la lezzerò.
Beatrice. Perchè non leggerla adesso?
Pantalone. Adesso no gh’ho i occhiali: la lezzerò.
Beatrice. Sappiate che il signor Florindo ha avuto la permissione...
Pantalone. Ala savesto de quel fallimento de Palermo?
Florindo. Ho sentito discorrerne.
Pantalone. So sior pare xelo restà al de sotto?
Florindo. Credo che in quella lettera parli ancora di questo. E parmi vi avvisi d’un altro fallimento di Livorno di un vostro corrispondente.
Pantalone. D’un mio corrispondente? (con alterazione)
Beatrice. (Ora aprirà la lettera).
Pantalone. Chi xelo sto mio corrispondente? (tira fuora gli occhiali)
Beatrice. Vedete, se li avete gli occhiali? Leggete.
Pantalone. Ah! adesso m’arrecordo; gnente, gnente. I m’ha scritto. Gierimo del pari. (mette in tasca la lettera)
Beatrice. (Che ti venga la rabbia!) (da sè)
Florindo. Signore, con vostra permissione...
Pantalone. Vorla andar via? La se comoda.
Florindo. Avrei da parlarvi.
Pantalone. Se vedremo, co la comanda.
Beatrice. Deve parlarvi adesso.
Pantalone. Ma ela cossa gh’intrela?
Beatrice. C’entro, perchè la signora Rosaura...
Pantalone. Coss’è, cossa voleu? (verso la scena)
SCENA VIII.
Arlecchino e detti.
Arlecchino. L’è qua el sior conte Ottavio.
Pantalone. Che el resta servido. El xe patron.
Arlecchino. Questo l’è generoso. Me vôi buttar. (parte)
Pantalone. Se le permette. Gh’ho un interessetto co sto cavalier.
Florindo. Tornerò a darvi incomodo.
Pantalone. Co la comanda.
Beatrice. Almeno ditegli...
Pantalone. Mo cara ela, no la sente che xe un cavalier?
Florindo. Ha ragione; non lo disturbiamo. E poi il mio affare non è sì breve per trattarlo così su due piedi. Oggi sarò a riverirvi.
Pantalone. Ancuo, o doman. Co la vol.
Florindo. (Rosaura non gli ha detto nulla. Non so che pensare). (da sè, parte)
Beatrice. Signor Pantalone...
Pantalone. Cara ela, la prego...
Beatrice. Una parola, e vado. Il padre del signor Florindo accorda...
Pantalone. El cavalier xe qua.
Beatrice. Accorda ch’egli sposi la signora Rosaura. (L’ho detta). (da sè, parte)
Pantalone. Pustu parlar per l’ultima volta. No posso soffrir sta zente, che voi intrar dove che no ghe tocca. Me despiase anca mi de sior Florindo, ma non so cossa farghe; no ghe vedo remedio, e no gh’ho coraggio de dirghe a sto povero putto, che Rosaura xe dada via.
SCENA IX.
Il Conte Ottavio vestito con caricatura, cioè con abito magnifico gallonato, colle calzette nere, parrucca mal pettinata, con Arlecchino, e detto.
Arlecchino. (Alza la portiera al conte Ottavio, e gli fa delle profonde riverenze. Ottavio lo guarda attentamente senza parlare, poi lo chiama a sè, tira fuori una borsa, e gli dona uno zecchino. Pantalone va facendo delle riverenze al Conte, e questi non gli abbada, osservando Arlecchino.)
Pantalone. (Cossa t’alo dà?) (piano ad Arlecchino)
Arlecchino. (Un zecchin). (resta sulla porta)
Pantalone. (Se lo digo che mia fia starà da regina).
Ottavio. Servitor suo, signor Pantalone.
Pantalone. Servitor umilissimo. L’ho reverida ancora, ma no la m’ha osservà.
Ottavio. Dov’è la signora Rosaura?
Pantalone. Adess’adesso la vegnirà. Oe, diseghe a Rosaura che la vegna qua. (ad Arlecchino)
Arlecchino. Sior sì. (Oh! a sto sior Conte ghe ne vôi cuccar de quei pochi dei zecchini). (da sè, parte)
Pantalone. La prego; la se comoda.
Ottavio. Non sono stanco. Che dice di me la signora Rosaura? È contenta?
Pantalone. No vorla che la sia contenta?
Ottavio. Le ho portato una bagattella.
Pantalone. Qualche bel regalo?
Ottavio. Tenete, dategliela voi. (gli dà un involto di carta)
Pantalone. Benissimo. (Stago a veder, che la sia qualche freddura). (da sè) Possio veder?
Ottavio. Sì.
Pantalone. Olà! Zoggie? Sior Conte, roba bona?
Ottavio. Sì, diamanti.
Pantalone. Cussì in t’una carta?
Ottavio. Della carta vi servirete voi.
Pantalone. Grazie. (O che omo curioso!) Questo xe un regalo da prencipe. I valerà almanco domille ducati11.
Ottavio. (Ride.)
Pantalone. Più, o manco?
Ottavio. (RIde.)
Pantalone. Se ho dito un sproposito, la compatissa; mi no negozio de zoggie.
Ottavio. Mille doppie12.
Pantalone. E cussì, in t’una carta!
Ottavio. Non favorisce la signora sposa?
Pantalone. Se la me permette, anderò mi a chiamarla. Ghe porterò ste belle zoggie. La farò consolar.
Ottavio. Pregatela che non mi faccia aspettare.
Pantalone. Vegno subito. Mille doppie in t’una carta! O che caro sior zenero! (parte)
SCENA X.
Il Conte Ottavio, poi Arlecchino.
Ottavio. (Prende tabacco, poi chiama) Ehi.
Arlecchino. Comandi, lustrissimo?
Ottavio. Da sedere.
Arlecchino. La servo. (Oh! se vegnisse un altro zecchin). (gli porta una sedia) Eccola obbedita.
Ottavio. (Siede e prende tabacco.)
Arlecchino. La perdona, lustrissimo; me ne favorissela una presa?
Ottavio. (Lo guarda in faccia e ripone la scatola.)
Arlecchino. La compatissa, gh’ho sto vizio, e no gh’ho tabacchiera. Tanti anni che servo, e non ho mai possudo avanzarme tanto da comprarme una scatola da galantomo.
Ottavio. Quanto hai di salario?
Arlecchino. Un felippo13 al mese, ma me vesto del mio. La vede ben, no se pol viver. Manze no se ghe ne vede. Tutti no i xe miga generosi, come V. S. illustrissima. El cielo ghe renda merito del zecchin che la m’ha donà. Ghe ne aveva proprio bisogno. Per cavarme de un gran affanno, me ne vorria un altro. Basta, el cielo provvederà.
Ottavio. (Tira fuori una borsa.)
Arlecchino. El vien, el vien.
Ottavio. Cantami una canzonetta.
Arlecchino. Lustrissimo, no so cantar.
Ottavio. Fammi una capriola.
Arlecchino. Pezo. Non ho abilità, signor.
Ottavio. Dimmi quanto hai rubato al padrone.
Arlecchino. Oh! la perdona; son un galantomo.
Ottavio. Ai galantuomini non mancano denari. (ripone la borsa)
Arlecchino. Ma... lustrissimo... son poveromo.
Ottavio. Sei povero? (tira fuori la borsa)
Arlecchino. Illustrissimo sì, ho muggier e fioli.
Ottavio. È bella tua moglie?
Arlecchino. Eh! per dirla, no l’è brutta.
Ottavio. A chi ha bella moglie non mancano denari, (ripone la borsa)
Arlecchino. Oh! caro lustrissimo, ela la me poderave aiutar.
Ottavio. Senti una parola.
Arlecchino. La comandi. (s’accosta)
Ottavio. Sei un briccone. (all’orecchio, ma forte)
Arlecchino. Ho capido.
Ottavio. Zitto, che nessuno senta.
Arlecchino. Ma no se poderave...
Ottavio. (Gli fa cenno colla mano che se ne vada.)
Arlecchino. La perdoni.
Oltavio. (Replica il cenno.)
Arlecchino. La permetta che fazza el mio dover. (vuol baciare l’abito)
Ottavio. (Gli sputa in faccia, e resta colla faccia tosta.)
Arlecchino. Grazie a vussustrissima. (Se non ho avudo el zecchin sta volta, l’ho incaparrà per un’altra volta). (da sè, parte)
Ottavio. Bricconi! Dono quando voglio, bricconi.
SCENA XI.
Pantalone e detto.
Pantalone. Son qua da ela...
Ottavio. Schiavo suo. (s’alza per partire)
Pantalone. Dove vala?
Ottavio. Se non viene la sposa, qui non so che cosa io debba fare.
Pantalone. La vien subito. La se destriga de una so amiga, e la vien. (Quella siora Beatrice sempre qua a intrigar). (da sè)
Ottavio. L’aspettare m’annoia.
Pantalone. La lo ringrazia infinitamente...
Ottavio. (Osserva l’orologio.)
Pantalone. Xe ancora a bonora.
Ottavio. Avvertitela ch’io non aspetto mai.
Pantalone. Eccola qua che la vien.
Ottavio. Non aspetto mai.
Pantalone. (Tiolè, anca qua siora Beatrice. Siela maledetta! no la posso soffrir. La se ficca per tutto). (da sè)
SCENA XII.
Rosaura, Beatrice e detti; poi Arlecchino.
Rosaura. Serva umilissima del signor Conte.
Ottavio. Servitor umilissimo della signora Contessa.
Rosaura. Ella mi onora di un titolo, che io non merito.
Beatrice. Anch’io, signore, le sono umilissima serva.
Ottavio. Padrona mia. (Chi è questa?) (a Pantalone)
Pantalone. (Una cittadina, amiga de mia fia).
Ottavio. (Non mi dispiace. È grassotta).
Pantalone. Che i se comoda. Oe, portè delle careghe.
Arlecchino. (Porta le sedie a tutti. Quando porge la sedia ad Ottavio, Ottavio si spurga. Arlecchino, per paura dello sputo, parte.
Ottavio. (Guarda nel viso Rosaura, senza parlare.
Beatrice. Il signor Conte ha donate delle belle gioje alla signora Rosaura.
Pantalone. Un regalo da cavalier nobile e generoso, come el xe.
Ottavio. (Seguita a guardare Rosaura.
Rosaura. Signore, ho io qualche cosa di stravagante, che mi guarda sì fisso?
Ottavio. Mi piacete.
Beatrice. La signora Rosaura è una giovine veramente di merito; ha tutte le buone qualità, è bella, è graziosa...
Ottavio. Lo sappiamo anche noi.
Beatrice. Voglio dire...
Pantalone. Séntela, siora Beatrice? No bisogna intrar dove no se xe chiamadi.
Beatrice. (Avrei quasi piacere che Rosaura lo prendesse. È generoso, staremo allegri). (da sè)
Ottavio. Favoritemi della mano. (a Rosaura
Rosaura. Oh signore, perdoni...
Beatrice. Cara Rosaura, gradite le finezze del signor Conte.
Rosaura. (Povero Florindo! Beatrice non si ricorda di lui). (da sè
Pantalone. Via, deghe la man. Al novizzo xe lecito. No fe smorfie.
Rosaura. Sapete, signor padre, che io non sono avvezza.
Pantalone. Mia fia xe arlevada ben, sala, sior Conte? Via, deghe la man, che ve lo comando mi.
Rosaura. Per obbedire. (offre la mano al Conte, col guanto
Ottavio. (Osserva che ha il guanto. Ritira la mano, caccia un guanto di tasca, se lo mette, e poi dà la mano a Rosaura.
Beatrice. Amor passa il guanto.
Ottavio. (Osserva Beatrice, che non ha i guanti. Le dà l’altra mano senza il guanto, ed ella l’accetta.
Beatrice. Cinque e cinque dieci.
Pantalone. Amor non ha da far la fadiga de passar el guanto.
Ottavio. Cittadina grassotta! (a Beatrice
Rosaura. (Oh! se la sorte mi liberasse da questo Conte stucchevole, felice me! Lo cederei con tutte le sue ricchezze). ( da sè
Ottavio. Sposa mia, non voglio guanti. (a Rosaura
Rosaura. Ma, signore, la civiltà... la pulizia...
Ottavio. Avete la rogna?
Rosaura. Mi maraviglio di lei. (sdegnata
Ottavio. Uh! (con ammirazione, e si volta a Beatrice ridendo)
Pantalone. Sior Conte, se el temperamento de mia fia no ghe piasesse, se el fusse malcontento de sto negozio, la sappia che son un omo d’onor, capace de metterla in libertà.
Ottavio. (Tira fuori la tabacchiera e dà tabacco a tutti.
Pantalone. Gh’el digo de cuor, sala? Stimo infinitamente la so nobiltà, la so ricchezza, ma voggio ben a mia fia; e no vorave, che pentindose d’averla tiolta...
Ottavio. Zitto. Tenete. (offre la scatola d’oro a Rosaura
Rosaura. Obbligatissima; io non prendo tabacco.
Ottavio. Tenete.
Rosaura. In verità, la ringrazio.
Ottavio. Grassotta, a voi. (dà la tabacchiera a Beatrice
Beatrice. A me, signore?
Ottavio. Favorite. (gliela dà
Beatrice. Obbligatissima alle sue grazie. (la prende
Pantalone. (Eh! la se comoda presto). (da sè) Sior Conte, ghe torno a dir che mia fia xe un poco rusteghetta; se el fusse pentìo de volerla...
Ottavio. Zitto. (tira fuori una carta di tasca
Rosaura. (Oh! volesse il cielo ch’ei si pentisse davvero), (da sè
Ottavio. Vedete? (mostra la carta a Pantalone
Pantalone. Vedo. Questo xe el nostro contratto. Se la lo vol strazzar...
Ottavio. Siete un uomo d’onore?
Pantalone. Tal me pregio d’esser.
Ottavio. Tale voi, tale io. Quello che è scritto, è scritto. (ripone la carta
Pantalone. Ma non ostante...
Ottavio. Questa sera mi darete la mano. (a Rosaura
Rosaura. Questa sera?
Ottavio. Senza guanto.
Pantalone. Donca la vuol...
Ottavio. Questa sera si concluderà.
Beatrice. Sì, questa sera si faranno le nozze.
Pantalone. Cossa gh’intrela ela? (a Beatrice
Ottavio. Grassotta allegra, svegliate voi la mia sposa.
Beatrice. Lasciate fare a me; non dubitate.
Ottavio. (Si mette a guardar Rosaura fisso.
Pantalone. (No gh’è remedio. Bisogna mantegnir la parola), (da sè
Beatrice. (È il più bel carattere di questo mondo).
Rosaura. Signore, non mi avete ancora guardata?
Ottavio. Questa sera. Schiavo, signori. (parte
Rosaura. Ah! signor padre, vedete che uomo stravagante è codesto?
Pantalone. La parola xe dada, e no ghe xe più remedio. El xe ricco, el xe generoso. Qualcossa s’ha da soffrir. Alle curte. Ho promesso; l’avè da tior. (parte
Rosaura. Beatrice mia, e il povero Florindo?
Beatrice. Eh cara Rosaura, Florindo non vi ha mai regalate di quelle gioje.
Rosaura.14 Povero infelice! E dovrò abbandonarlo?
Beatrice. Eh! che tutti gli uomini sono uomini. Se io non avessi marito, vorrei liberarvi dall’incomodo del signor Conte. Mille doppie di gioje? Oh che bel marito! (parte
Rosaura. Il mio cuore val più di tutte le gioje di questa terra, e se dovrò perderlo, lo sagrificherò all’obbedienza, non all’idolo dell’interesse. (parte
SCENA XIII.
Camera di locanda. Brighella in abito di campagna da viaggio. Lumaca servitore. camerieri d’osteria, che portano bauli ed altre cose del bagaglio della Ballerina.
Brighella. Fe pian, fe pian con quel baul. Gh’è dentro un fornimento de porzellana de Sassonia, che val tre o quattrocento zecchini. Questa sarà la camera da ricever.
Cameriere. Ma noi, signori, in questa locanda non abbiamo camere superflue. Può ricevere in quella del letto.
Brighella. Seu matto? Siora Olivetta mia fia volè che la riceva in camera del letto? La mattina, co no la xe le vada, la receve in letto. Ma co la xe levada, la vol la so camera de udienza. Me despiase che no gh’è l’anticamera.
Cameriere. Se vuole un palazzo, in Venezia lo troverà.
Brighella. Siguro che troverò un palazzo. A Vienna, a Berlin, a Dresda, a Lisbona, a Madrid, a Londra, l’ha sempre avudo i primi appartamenti della città.
Cameriere. (Alle spalle de’ gonzi). (da se
Brighella. Tirè avanti quei do taolini.
Cameriere. Dove li vuole?
Brighella. Qua, un per banda. (mettono li tavolini avanti) Lumaga.
Lumaca. Signor.
Brighella. Tiò ste chiave; avri quel baul, e tira fora l’arzentaria.
Lumaca. La servo. (apre
Brighella. Cossa credeu! Gh’avemo la nostra arzentaria. (al cameriere
Cameriere. Me ne consolo.
Brighella. È tutta fatta da siora Olivetta, colle so onorate fadighe.
Cameriere. Son persuaso.
Lumaca. (Tira fuori due candelieri, e li dà a Brighella.
Brighella. Vedeu? Tutto arzento (li mette sopra un tavolino
Lumaca. (Ne dà altri due.
Brighella. Altri do. Colla nostra arma. (al cameriere, e li mette sull’altro tavolino) Le mocchette, i porta mocchette?
Lumaca. Eccoli.
Brighella. Vedeu? Tutto compagno. (al cameriere) Candele ghe n’è? (a Lumaga
Lumaca. Sono finite.
Brighella. Caro vu, quattro candele. (al cameriere)
Lumaca. Di cera non ne ho; se le vuol di sevo?
Brighella. De seo, de seo. Tanto fa.
Cameriere. Ma di sevo sui candelieri d’argento...
Brighella. Cossa importa? Se stima l’arzento, no se stima le candele.
Cameriere. Ora la servo. (parte, poi torna
Brighella. Presto: fora quelle sottocoppe, quelle cogome, quel scaldapiè. Che femo un poco de palazzo. Anca i gotti, anca la saliera. Tutto l’è arzento, tutto impenisse l’occhio. (distribuisce tutto sui tavolini
Cameriere. Ecco qua le candele.
Brighella. De qua mo, amigo.
Cameriere. Se comanda, farò io.
Brighella. Eh! lasse far a mi, che sta roba vu no la savè manizzar. (mette le candele colle mani, si sporca, e si netta al giustacore15
Cameriere. (Povero argento! in che mani è venuto!) (da sè
Lumaca. (Gli dà il bacile per le mani, e la brocca.
Brighella. Presto un treppiè. (al cameriere
Cameriere. Subito. (va, e torna col treppiè
Brighella. Vedeu questo? L’ho fatto mi coi mi bezzi. Siora Olivetta non ha speso gnente.
Cameriere. Vossignoria negozia?
Brighella. Ve dirò, in confidenza. Tutta la cioccolata che avanza, l’è mia. Tutti ghe ne manda; e mi metto via, e vendo; e fazzo delle bagattelle. Ah! l’omo s’inzegna.
Cameriere. Bravissimo. (Capisco il carattere). (da sè
Brighella. Tiò, Lumaga, averzi quel cofrerfort.
Cameriere. Che significa questa parola?
Brighella. Eh poverazzi! Vualtri in Italia no savè gnente. Cofrerfort è parola tedesca, vuol dir... Quel coso che è là.
Cameriere. Uno scrignetto, un bauletto.
Brighella. Fe conto; una cossa simile. Tirè fora el relogio d’oro. (a Lumaca, che glielo dà) Vedeu? Londra. Repetizion. Cento doppie, ah! Ghe n’è in Italia de sta roba? Ghe n’ale le ballerine de sti tesori? Poverazze! bisogna che le ghe fazza de cappello a siora Olivetta.
Cameriere. L’ha guadagnato colle sue fatiche?
Brighella. S’intende. Un milord ghe l’ha donà una sera, perchè l’ha fatto una decima.
Cameriere. Che cos’è questa decima?
Brighella. Eh! cossa saveu, sior alocco? Presto quei stucchi, le scatole, i anelli, le zoggie.
Cameriere. Che belle cose!
Brighella. Vedeu sto anello? Vedeu sto boccon de brillante?
Cameriere. Lo vedo.
Brighella. Un prencipe tedesco l’ha donà a siora Olivetta, perchè l’ha avudo la sofferenza de farse far el so ritratto.
Cameriere. È fortunata.
Brighella. Che fortuna! merito, merito sior, merito. Bisognerà pò metter dei taolini, tirar delle corde.
Cameriere. Per che fare?
Brighella. Per destender i abiti, acciò che i chiappa aria.
Cameriere. Ne ha molti?
Brighella. La se muda ogni zorno, e qualche zorno do volte.
Cameriere. Mi chiamano, con sua buona grazia.
Brighella. Comodeve.
Cameriere. Mi dona nulla per aver aiutato a portare?
Brighella. Sior sì; volentiera. Mi no me fazzo vardar drio. Tolè.
Cameriere. Due soldi? A me due soldi?
Brighella. Cossa voleu che ve daga?
Cameriere. Se vostra figlia li avesse guadagnati a due soldi la volta, starebbe fresca. (parte
Brighella. Gran bricconi che i è sti camerieri. Via, dighe a siora Olivetta, che se la comanda vegnir in camera de udienza, l’è all’ordene. (a Lumaca
Lumaca. Sì, signore. (Due anni sono, la camera d’udienza era la cucina). (da sè, parte
Brighella. M’ingrasso a veder sta roba, sta bella arzenteria. Povera putta! La gh’ha maniere cussì belle, che la cavaria la roba dai sassi.
SCENA XIV.
Olivetta col Servitore che le alza la portiera, e detto.
Olivetta. Grand’asino! Un poco più, mi guastava16 il tuppè.
Brighella. Cossa feu, fia? Seu più stracca dal viazzo?
Olivetta. Non sono stanca, ma ho ancora nel naso il17 puzzo della barca.
Brighella. Gh’aveu gnente da nasar?
Olivetta. Sì, ho quest’acqua di melissa.
Brighella. Oe, quella bozzettina d’oro no l’ho più vista.
Olivetta. È un mobile nuovo.
Brighella. Da quando in qua?
Olivetta. In barca.
Brighella. Brava!
Lumaca. (In barca non l’ha guadagnata a far le capriole), (da sè
Brighella. Voleu lavarve le man?
Olivetta. Me le ho lavate.
Brighella. No ve le ave miga lavade col bazil d’arzento.
Olivetta. Che importa?
Brighella. Cara vu, lavevele un’altra volta. Me par che no le gh’abbiè troppo nette.
Olivetta. Ho preso tabacco.
Brighella. Vedeu? A mi me piase la pulizia. Lavevele col bazil d’arzento.
Olivetta. Farò come volete.
Brighella. Presto, da sentar. (a Lumaca, che prende una sedia) Porta avanti quel bazil. Va a tor dell’acqua. Ecco qua la saonetta. Tutto arzento, tutto arzento.
Olivetta. Lumaca.
Lumaca. Illustrissima.
Olivetta. Una guantiera per mettere questi anelli.
Brighella. Tiò una sottocoppa d’arzento.
Lumaca. (Prende la sottocoppa con una mano, e coll’altra la brocca coll' acqua, versandone nel bacile.
Olivetta. (Lavandosi) Lumaca, vammi a prendere lo sciugatoio.
Brighella. Quello bello, coi pizzi di Fiandra.
Lumaca. Ma questa roba...
Brighella. Lassa véder a mi. (prende egli tutto, Lumaca parte
Olivetta. Mi dispiace, signor padre, che abbiate questo incomodo.
Brighella. Niente, figlia; ho l’onore di favorirvi.
SCENA XV.
Il Cameriere e detti.
Cameriere. Signori...
Brighella. Oh diavolo! Lumaga.
Cameriere. Un cavaliere...
Brighella. Lumaga. Caro vecchio, tegnì sta roba.
Cameriere. Ma senta...
Brighella. Tegnì sta roba. (il cameriere prende la sottocoppa) Adesso parlè.
Cameriere. Un cavalier forestiere, alloggiato in questa locanda, vorrebbe farle una visita.
Brighella. Oe. Subito cavalieri. (a Olivetta
Olivetta. (Lavandosi) E chi è questo cavaliere?
Cameriere. Un certo signor conte Ottavio, forestiere.
Olivetta. Sarà qualche spiantato.
Brighella. La mia putta non riceve visite.
Cameriere. Anzi è ricco; è generoso.
Olivetta. Basta, se comanda, è padrone.
Brighella. Semo tutti forestieri, che el se comoda.
Cameriere. Tenga. Anderò a dirgli che passi.
Brighella. Lumaga. Siestu maledetto! Servì, servì la padrona. Anderò mi a introdurlo. (parte
Olivetta. Gettate l’acqua. (cameriere getta) Bel bello, che non mi bagnate li manichetti. Voi altri camerieri di locanda, siete asini, non sapete far nulla.
Cameriere. (Or ora le getto l’acqua sul tuppè). (da sè
SCENA XVI.
Il Conte Ottavio e Brighella, e detti; poi Lumaca.
Brighella. Siora Olivetta, ghe presento sto cavalier.
Olivetta. Serva divota. (s’alza un poco) Perdoni, mi trova qui lavandomi le mani.
Ottavio. Lavatevi pure tutto quel che volete.
Olivetta. S’accomodi.
Brighella. Deghe da sentar. (al cameriere
Cameriere. Ma come... (accenna aver le mani ingombrate
Brighella. Dè qua. Deghe da sentar. (prende egli la brocca) Lumaga.
Cameriere. Si serva, illustrissimo. (dà la sedia ad Ottavio
Ottavio. (Siede.
Olivetta. L’asciugatoio. (a Lumaca
Brighella. Elo quello coi pizzi di Fiandra? Tien saldo. (dà la sottocoppa a Lumaca
Ottavio. Voi siete ballerina.
Olivetta. Per servirla. (si va asciugando e mettendo gli anelli
Brighella. Ma no l’è miga de ste ballerine d’Italia, sala, signor?
Ottavio. Siete francese?
Olivetta. No, signore, sono italiana.
Ottavio. Italiana tutta?
Olivetta. Come tutta?
Ottavio. Galantuomo. (a Brighella, ridendo
Brighella. A mi?
Ottavio. Sì, a voi.
Brighella. La perdoni...
Ottavio. Non siete galantuomo?
Brighella. Son galantuomo; ma son el padre de siora Olivetta.
Ottavio. Datemi una presa di tabacco.
Brighella. Ho perso la scatola, signor.
Ottavio. Mi dispiace. N’aveva una, l’ho data via.
Brighella. Deghene una presa del vostro, de quello della scatola d’oro. (a Olivetta
Olivetta. Lo servirei; ma veda. Non ne ho più. (mostra la scatola vuota
Ottavio. Lasciate vedere. (prende la scatola)
Brighella. Parigi, sala? E tanto val l’oro, quanto la fattura.
Ottavio. (Mette nella scatola delli zecchini Compratevi del tabacco.
Olivetta. Oh! troppo incomodo.
Brighella. (Me piase; el sa far pulito). (da sè) Cara fia, lassè che veda se podesse, nettando la scatola, trovarghene una presa. Gh’ho sto vizio, e no gh’ho scatola.
Olivetta. Tenete. (dà la scatola a Brighella
Brighella. (Apre e conta piano li zecchini) (No gh’è mal). (da sè
Ottavio. Quest’anno dove ballate?
Olivetta. Ancora non lo so.
Brighella. Avemo molti trattati; ma nissun ne comoda. La mia creatura no balla nè per dusento, nè per tresento zecchini. Grazie al cielo, no ghe ne avemo bisogno.
Ottavio. Ehi?
SCENA XVII.
Il Cameriere e detti.
Cameriere. La comandi.
Ottavio. Al mio cameriere, che mi porti la veste da camera e la berretta.
Cameriere. Sarà servita. (parte
Olivetta. (Non credo mai, che si spoglierà qui). (da sè
Brighella. Feghe veder mo a sto cavalier quella bella corniola.
Olivetta. Osservi. (gli mostra un anello
Ottavio. È troppo sporca.
Brighella. Giusto per questo, védela, perchè la figura è un poco lascivetta, mia fia, che xe modesta, la no la porta volentiera; la se ne vorria desfar.
Ottavio. La volete vendere? (a Olivetta
Brighella. La la vol metter al lotto.
Ottavio. (Che birbe! Non si contentano mai). (da sè
Brighella. Un zecchin al bollettin; se trovessimo diese bollettini soli, la cavaressimo subito. (La val do zecchini). (da sè
Ottavio. Bene. Oggi si caverà.
Brighella. Dove, signor?
Ottavio. Dalla mia sposa.
Olivetta. Si fa sposo? Me ne rallegro.
Ottavio. (Dieci zecchini!)
Brighella. Chi èla, se è lecito, la sua sposa?
Ottavio. (Guarda Brighella in faccia, poi dice da sè) (La sanno lunga).
Brighella. (Faremo sto lotto). (piano a Olivetta
Olivetta. (È un cavalier generoso).
Brighella. (El se marida presto).
Olivetta. (Si ammoglierà per usanza).
Ottavio. È la signora Rosaura Bisognosi. (a Brighella, guardandolo
Brighella. Chi, signor?
Ottavio. La mia sposa.
Brighella. (Oe, adesso el responde).
Olivetta. La signora Rosaura?
Ottavio. La conoscete?
Olivetta. È mia amica.
Brighella. Se conossemo che è un pezzo. (No vorria che i ghe disesse, che mi era el so servidor). (da sè
Ottavio. Se oggi verrete da lei, tireremo il lotto.
Olivetta. Che dite, papà?
Brighella. Anderemo, cara, anderemo. Ne favorirala la gondola?
Ottavio. (Anche la gondola?) (da sè) Sì, la gondola.
SCENA XVIII.
Il Cameriere di Ottavio colla vesta da camera
e la berretta; e detti.
Ottavio. (S’alza, e si cava la parrucca.
Olivetta. (Oibò). (s' alza
Brighella. (Poco rispetto a mia fia).
Ottavio. (Si vuol cavar l' abito.
Olivetta. Con sua licenza.
Ottavio. Andate via?
Olivetta. Se mi permette. Ho un affar di premura.
Ottavio. Venite a pranzo con me.
Olivetta. Perdoni....
Brighella. Riceveremo le sue grazie.
Olivetta. Questi uomini, che hanno poca creanza, non li posso soffrire. (parte
Ottavio. (Si fa cavar l’abito.
Brighella. Gran bel abito, signor!
Ottavio. (Lo prende e lo getta in faccia a Brighella.
Brighella. Come! Perchè me fala sto affronto?
Ottavio. Ve lo dono.
Brighella. La me lo dona?
Ottavio. Sì, schiavo. (parte
Brighella. No so cossa dir. L’è un affronto, ma el se pol sopportar. Sto abito mo cussì ricco, lo possio portar? Sior sì. Son padre de una vertuosa. (parte
Fine dell’Atto Primo.
Note
- ↑ Segue nell’ed. Paper.: «Ros. Niente, niente, a Flor. Flor. Che mancia? a Beatr. Beatr. L’amor tutto intero intero del suo cuore. Ros. Parliamo ecc.».
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Beatr. Non penserà già di farle fare la serva? Flor. Toccherà a me a regolarla... Ros. Via, son contentissima. Mio padre l’avete ancora veduto? ecc. a.
- ↑ Pap. aggiunge: subito.
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Beatr. Già non si dice quattro, se non è nel sacco. Flor. Io non ci vedo ecc.».
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: «Beatr. Compatitemi. Quando si va a nozze, si va per le porte. Flor. Ma io, signora... Beatr. Sì sì, vi capisco, sarete venuto per barca per non venire dalla sposa un poco stanco. Non è vero? Ros. Siete stato ecc.».
- ↑ Pap. aggiunge: Se aveste Veduto le smorfie che faceva, mi moveva il vomito.
- ↑ Così l’ed. Pap.; Pasquali e Zatta: a ogni altro stato, maridandove segondo la vostra ecc.
- ↑ Così Pap.; Pasq. sbaglia; Zatta: è venuto apposta da Livorno.
- ↑ Segue nell’ed. Pap.: Potrò lasciarlo?
- ↑ Pap. aggiunge: Potrò trascurare di conseguirlo?
- ↑ Il ducato d’argento equivaleva a 8 lire venete (= lire it. 4,37).
- ↑ La doppia veneta equivaleva a 37 lire venete (= lire it. 20,20).
- ↑ Mezzo zecchino (= L. 6).
- ↑ Precede nell’ed. Pap.: Nè a voi di quelle scatole.
- ↑ Pap.: alla velata.
- ↑ Pap.: guasta.
- ↑ Pap.: del.