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LA FIGLIA OBBEDIENTE 433

Ottavio. Quanto hai di salario?

Arlecchino. Un felippo1 al mese, ma me vesto del mio. La vede ben, no se pol viver. Manze no se ghe ne vede. Tutti no i xe miga generosi, come V. S. illustrissima. El cielo ghe renda merito del zecchin che la m’ha donà. Ghe ne aveva proprio bisogno. Per cavarme de un gran affanno, me ne vorria un altro. Basta, el cielo provvederà.

Ottavio. (Tira fuori una borsa.)

Arlecchino. El vien, el vien.

Ottavio. Cantami una canzonetta.

Arlecchino. Lustrissimo, no so cantar.

Ottavio. Fammi una capriola.

Arlecchino. Pezo. Non ho abilità, signor.

Ottavio. Dimmi quanto hai rubato al padrone.

Arlecchino. Oh! la perdona; son un galantomo.

Ottavio. Ai galantuomini non mancano denari. (ripone la borsa)

Arlecchino. Ma... lustrissimo... son poveromo.

Ottavio. Sei povero? (tira fuori la borsa)

Arlecchino. Illustrissimo sì, ho muggier e fioli.

Ottavio. È bella tua moglie?

Arlecchino. Eh! per dirla, no l’è brutta.

Ottavio. A chi ha bella moglie non mancano denari, (ripone la borsa)

Arlecchino. Oh! caro lustrissimo, ela la me poderave aiutar.

Ottavio. Senti una parola.

Arlecchino. La comandi. (s’accosta)

Ottavio. Sei un briccone. (all’orecchio, ma forte)

Arlecchino. Ho capido.

Ottavio. Zitto, che nessuno senta.

Arlecchino. Ma no se poderave...

Ottavio. (Gli fa cenno colla mano che se ne vada.)

Arlecchino. La perdoni.

Oltavio. (Replica il cenno.)

Arlecchino. La permetta che fazza el mio dover. (vuol baciare l’abito)

  1. Mezzo zecchino (= L. 6).