L'uomo prudente/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Cucina con finestra, in casa di Pantalone, con fuoco acceso e varie pentole al focolare. Tavolino, con un tondo ed un cucchiaio.
Cuoco che lavora, poi Beatrice con vari fogli in mano.
Beatrice. (Di dentro) Arlecchino, Colombina, Arlecchino. (esce) Non si sentono, non si trovano; eh, assolutamente è così: il vecchio me li ha fatti sparire. Giuro al cielo, l’avrai finita una volta, vecchiaccio indegno. Questo veleno mi libererà dalla tua tormentosa catena. Ma Colombina non c’è, e non so come mi fare. Costui mi dà soggezione... or l’ho pensata bene. Così si faccia. Ehi, cuoco.
Cuoco. Illustrissima.
Beatrice. Avete molto che fare?
Cuoco. S’immagini, son solo.
Beatrice. Anch’io son sola, per grazia del vostro signor padrone, che ha licenziata tutta la servitù, ed ho bisogno di far ricapitare questi due fogli.
Cuoco. Ma io non posso; vede bene, ho le pentole al fuoco.
Beatrice. Bisogna andarvi assolutamente.
Cuoco. E se le vivande anderanno male?
Beatrice. Vada al diavolo tutto, ma questo s’ha da fare.
Cuoco. Il padrone griderà.
Beatrice. La padrona son io.
Cuoco. E il desinare chi lo farà?
Beatrice. Il boia che t’appicchi. Va e porta questi viglietti, e non replicare.
Cuoco. Comanda chi può, obbedisca1 chi deve. A chi vanno, illustrissima?
Beatrice. Questo va al signor Lelio Anselmi, e questo alla signora Diana Ardenti. Recali subito, e fatti dare la risposta.
Cuoco. Sarà puntualmente servita. Ma la supplico far dar un’occhiata alle pentole... (Oh maladetta!) (da sè)
Beatrice. Che vi è in quelle pentole?
Cuoco. In questa un ragù di polli alla francese; in questa un pezzo di carne pasticciata; in questa dell’erbe per una zuppa santè; in questa quattro maccheroni per la servitù; e in questa la panatella per il signor Pantalone.
Beatrice. Non dubitare, che se capiterà alcuno, farò assistere alla cucina.
Cuoco. Ma... non potrebbe mandar questi due viglietti...
Beatrice. Animo, non più parole.
Cuoco. Vado subito. (Uh, che diavolaccio è costei!) (da sè e parte)
SCENA II.
Beatrice, poi Ottavio.
Beatrice. Può darsi che il veleno produca colla morte di Pantalone qualche disordine, perciò voglio procurare di avere in casa qualche compagnia: mentre in tali casi uno aiuta l’altro. Ma già che in quel pentolino vi è la panatella di Pantalone, quella sarà a proposito per fare l’operazione. Ecco in questa poca polvere le mie vendette, (va al focolare e mette il veleno nella pentola) Mangiala, che buon pro ti faccia. Non avrebbe da andar troppo in lungo l’effetto di questo veleno, poichè la dose è molto caricata.
Ottavio. Signora Beatrice. (affannato)
Beatrice. Che vi è di nuovo?
Ottavio. Avete ricevuto da quella donna il foglio sigillato col veleno?
Beatrice. Certo, l’ho avuto.
Ottavio. Datemelo, datemelo.
Beatrice. Perchè?
Ottavio. Datemelo e non pensate altro.
Beatrice. È già messo in opera.
Ottavio. Come? L’ha bevuto mio padre?
Beatrice. No, ma è in una di quelle pentole, che sono al fuoco. Ottavio, in quale?
Beatrice. In una di quelle.
Ottavio. Le butterò tutte sossopra. Ah, che il rimorso mi rode il cuore! Sento un’inquietudine che mi tormenta. La natura, inorridita di così atroce delitto, mi rimprovera già di parricida.
Beatrice. (Oimè son perduta! Bisogna ingannarlo). (da sè)
Ottavio. Ho già persuasa la signora Diana della mia innocenza; e se mio padre non approva le nostre nozze, noi le faremo senza di lui; benchè m’abbia egli fatto sottoscrivere quel foglio, un matrimonio segreto tronca qualunque promessa. Non sia mai vero ch’io cooperi alla morte di chi mi ha data la vita.
Beatrice. Avete ragione, anch’io ne cominciava a sentir della pena; voi siete figlio, e vi sentite muovere dal nome di padre; anch’io finalmente son moglie, e il vostro esempio mi risveglia l’amore del consorte. Credetemi, lo facevo più per voi che per me. (S’egli, riconciliato con Diana, più non cura le sue vendette, io non voglio trascurare le mie). (da sè)
Ottavio. Qual è dunque la pentola, in cui bolle il veleno?
Beatrice. Sì, caro Ottavio, figlio veramente amoroso e prudente. (va al focolare, e prende un’altra pentola ed un cucchiaio) Eccovi in quet’erbe, destinate per una zuppa da darsi ai povero Pantalone, l’arsenico che mi avete mandato. Gittatele giù da quella finestra nel fiume, e si disperda con esse la memoria del nostro errore. (Purchè l’effetto succeda, accada poi ciò che vuole), (da sè)
Ottavio. Vaso indegno, ricolmo d’iniquità, vatti a seppellire nell’acque, anzi nel fondo d’abisso, (getta la pentola dalla finestra)
Beatrice. (Povere erbe, non hanno colpa veruna). (da sè)
Ottavio. Ora son contento.
Beatrice. Deh, in un perpetuo silenzio si nasconda il tentativo.
Ottavio. Ci va egualmente della mia, che della vostra salvezza. Or che ho salvato mio padre, torno più lieto dalla mia sposa. (parte)
Beatrice. Va, che l’hai veramente salvato. Povero stolto! e tu pensavi che ti volessi dire la verità? Se non volevi che tuo padre morisse, non mi dovevi provvedere il veleno: che quando una donna disperata ha l’arme in mano di vendicarsi, morirebbe piuttosto che tralasciare di farlo. (parte)
SCENA III.
Rosaura, con un cane in braccio.
O che prodigio! la signora Beatrice in cucina, e intorno le pentole! Suo danno! Mio padre ha licenziato Colombina per cagion sua; faccia ora da sè. Ma gran discorsi faceva qui con mio fratello! Mi pare che abbia gettata una pentola dalla finestra. Oh che pazzi! Ma non v’è nemmeno il cuoco. Vorrei dare un poco di pappa alla mia cagnolina. Adesso adesso, piccina, aspetta, guarderò io se c’è nulla per te. (va al focolare) Oh, ecco appunto della pappa; sarà di mio padre. Non importa. Un poca anco2 a Perlina, e poi un poca ancora a Moschina tua sorella, sai. Vieni, cara, vieni. (Leva della panalella dalla pentola con un cucchiaio, e la mette in un tondino in terra, vicino al focolare; poi mette in terra Perlina, acciò vada a mangiare, ed essa, dopo annasatala, fugge dentro alle scene. Rosaura rientra nella scena per ripigliare la cagna fuggita, e ne porta fuori un’altra simile a quella, ma di legno, dipinta come Perlina e ad essa somigliantissima, la quale dal popolo viene perciò creduta Perlina, e la pone vicino al tondino della panatella. come se fosse la prima cagna; poi dice) O via mangia, che ora vado a prender Moschina; quanto bene ch’io voglio a queste bestioline! Ma più però al mio sposino! (Parte. La finta cagnina, essendo snodata e raccomandata a vari fili, orditi al di sopra del teatro e ai laterali di esso, si fa giuocare, come se il veleno in lei operasse. Si vede fare dei contorcimenti, dei salii e dei capitomboli, e finalmente si vede stesa in terra, come morta. Rosaura torna colla medesima cagna di prima, che finge sia Moschina, sorella e simile a Perlina) Cara la mia Moschina, andiamo a mangiare la pappa colla sorellina. Ma che vedo! Perlina, che fai? Non mangia! È sdraiata! Par morta! O me infelice, che sarà mai? Perlina, Perlina dico. Non si muove. È dura, dura; quanta robaccia ha rigettata! Povera me! Perlina mia. (intanto che le va intorno, taglia i fili che la reggono3, e la tira avanti) È morta4; senz’altro è morta! Povera Perlina! Perlina mia! Oimè, che dolore ch’io provo! Oimè, non posso più!
SCENA IV.
Florindo e detta.
Florindo. Sposa, che avete? Che mai v’è accaduto di male? Perchè gridate sì forte?
Rosaura. Ah, caro Florindo, mirate là la mia Perlina, morta così in un tratto.
Florindo. Me ne dispiace, ma poi non mi pare che una bestia esiga tanto dolore.
Rosaura. Eh, dite bene voi altri uomaccioni, che avete il cuor duro.
Florindo. Ma aveva male? Com’è morta?
Rosaura. Era sana, sanissima. Le ho dato a mangiare di quella pappa, ed è subito morta.
Florindo. Guardate come vien nera: pare avvelenata.
Rosaura. Certo, altro che veleno non può essere stato.
Florindo. Osserviamo questa panatella. Vi è della polvere cristallina. Di dove l’avete presa? (osserva il tondino)
Rosaura. Da quella pentola.
Florindo. Vediamola un poco. Capperi! vedete voi quella spuma? Quello è veleno.
Rosaura. E vi mancò poco non ne mangiasse anco Moschina. Vanne, vanne, cara, che l’odore non ti facesse morire. (manda dentro la cagna vera)
Florindo. E per chi deve servire questo pan cotto?
Rosaura. È solito mangiarlo mio padre.
Florindo. Dov’è il cuoco?
Rosaura. Io non lo so. Questa mattina non si vede.
Florindo. (Qui vi è qualche tradimento). (da sè) Ma chi attende al fuoco, nessuno?
Rosaura. Poco fa vidi la signora Beatrice che vi attendeva, e mi parve ponesse del sale nelle pentole.
Florindo. Buono!
Rosaura. E con essa vi era Ottavio mio fratello.
Florindo. Meglio!
Rosaura. E fra di loro pareva che contendessero.
Florindo. Ah indegni!
Rosaura. E Ottavio gettò una pentola dalla finestra.
Florindo. Ah traditori!
Rosaura. Ma perchè dite loro simili ingiurie?
Florindo. Perchè, eh? Semplice che siete! Beatrice ed Ottavio volevano avvelenare il signor Pantalone, e se quella povera bestia non lo scopriva, vostro padre innanzi sera moriva.
Rosaura. Misera me, che sento! Povero genitore! mi vien da piangere solo nel figurarmelo.
Florindo. Ma state cheta e non parlate a nessuno. Lasciate qui questa cagna, e qui questa pentola. Ora io rimedierò al tutto. (Tacere un simil fatto, sarebbe un fomentare le loro perfide iniquità. Chi risparmia i rei, sagrifica gl’innocenti.) (da sè, e parte)
)SCENA V.
Rosaura, poi Pantalone.
Rosaura. Ecco lì, poverina! Chi me l’avesse mai detto, che dovesse così miseramente morire! Mi sento strappare il cuore.
Pantalone. Fia mia, cossa fastu in cusina?
Rosaura. (Piangendo corre ad abbracciar Pantalone) Ah, caro padre, siete vivo, e vivrete per prodigio del cielo.
Pantalone. Perchè? Cossa xe sta?
Rosaura. Riconoscete la vita da quella povera bestiolina.
Pantalone. Perlina xe morta?
Rosaura. Sì, me ne dispiace, ma più sarei afflitta se foste morto in di lei vece, mio caro papà.
Pantalone. Ma cossa gh’intro5 mia con una cagna?
Rosaura. Se non moriva ella, dovevate morir voi.
Pantalone. Mib no t’intendo.
Rosaura. Ella è morta di veleno.
Pantalone. E per questo?
Rosaura. Il veleno è in quella pentola...
Pantalone. Avanti mo.
Rosaura. In quella pentola vi è una panatella...
Pantalone. E cussì?
Rosaura. Quella panatella era destinata per voi.
Pantalone. Aseoc! vien qua, fia mia, di’ pian che nissun ne senta. Come xelo sto negozio? Cossa sastu? Come lo sastu?
Rosaura. Ecco il testimonio di quel che io dico. Perlina è morta. La signora Beatrice e Ottavio mio fratello sono stati i carnefici di quella povera sventurata, e lo volevano esser di voi.
Pantalone. Via, no pol esser. Ti xe matta. La cagna sarà morta per altre cause. Varda ben a no parlar. Varda ben a no dir gnente a nissun. Che se ti parli, te depono6 de fia.
Rosaura. Io non parlerò con nessuno. Ma quello che vi dico è la verità.
Pantalone. No xe vero gnente. So mi che non xe vero gnente.
Rosaura. Eppure questa volta v’ingannate...
Pantalone. Anemo, andè via de qua, che questo nol xe liogo per vu.
Rosaura. La mia povera cagna...
Pantalone. La cagna lassela qua...
Rosaura. La vorrei...
Pantalone. No me fè andar in colera. Andè via.
Rosaura. Obbedisco. (Anderò a piangere con libertà). (da sè, parte)
SCENA VI.
Pantalone solo.
Gran provvidenza del cielo, che assiste l’innocenza! Sti do traditori i me voleva morto, e col sagrifizio d’una bestia el ciel me salva la vita. Pur troppo vedo dal color e dalla bava de sta povera cagna, che la xe morta de velen, e quella xe la solita pignatela della mia panada. Ah, Beatrice crudel! ah, Ottavio desumanà! cossa ve falo sto povero vecchio? Perchè no aspettar che la morte natural, che poco pol tardar a vegmir a trovarlo, ve lo leva dai occhi senza la macchia de un tradimento? Povero Pantalon! Una mugier sollevada dal fango; un fio arlevà con tanto amor, tutti do congiurai a procurarme la morte! E perchè? La mugier per farse ridicola colle conversazion; el fio per precipitarse col matrimonio. Oh povera umanità! L’omo se fabbrica da so posta i precipizi, e el compra colle iniquità la so propria rovina. Cossa hoggio da far in sto caso? Taser xe mal; parlar xe pezo. Se taso, ghe filo el lazzod; se parlo, tutto el mondo lo sa. Tasendo, xe in pericolo la mia vita; parlando, pericola la reputazion della casa. Prudenza e consegio. Orsù, qua bisogna ziogar de testa. Remediarghe, ma senza strepito. Quel che ho fatto de Colombina e de Arlecchin, farò de Beatrice. La farò serar in t’un liogo, che gnanca l’aria lo saverà, e no mancherà pretesti per farla creder o in villa, o ammalada. Mio fio lo manderò in Levante, e me libererò in sta maniera de do nemici, senza sacrificarli e senza publicar i desordini della mia casa. Sta pignata, sto piatto e sta cagna bisogna farli sparir, acciò no s’abbia un zorno a trovar el testimonio delle so indegnità e delle mie vergogne. Mariie troppo boni, pari troppo amorosi, specchieve in mi, e considera che quando l’omo se marida, el se fabbrica delle volte un lazzo colle so man, e quando ghe nasse un fio, per el più ghe nasse un nemigo. (parte)
SCENA VII.
Camera con vane porte e tavolino.
Beatrice e Lelio.
Beatrice. Ma venite. Di che7 avete paura?
Lelio. Eh, signora mia, mi ricordo del complimento del signor Pantalone. Mi sovviene del trabocchetto.
Beatrice. Per liberarvi da simile malinconia, vi ho condotto io stessa su per le scale.
Lelio. E de’ due uomini della schioppettata, come anderà?
Beatrice. Non dubitate. Vi giuro sull’onor mio che Pantalone fra poco non sarà più in istato ne di comandare, nè di vendicarsi.
Lelio. M’affido alle vostre parole, come feci al vostro viglietto, e per ubbidirvi...
Beatrice. Ditemi, signor Lelio, e parlatemi con libertà: avete voi veramente affetto per me? Sdegnereste voi l’occasion di esser mio sposo?
Lelio. Signora, siete maritata.
Beatrice. E se fossi vedova?
Lelio. Mi farei gloria d’aspirare alle vostre nozze.
Beatrice. Vien gente; ritirativi in quella camera.
Lelio. Io sono in curiosità di sapere per qual cagione mi avete ordinato di venir qui8.
Beatrice. Ritiratevi, dico, e saprete ogni cosa.
Lelio. Vi obbedisco. (Che labirinto è mai questo!) (da sè, entra in una camera)
SCENA VIII.
Beatrice, poi Diana.
Beatrice. Spero passar più felicemente i miei giorni col signor Lelio. Egli è giovane, e di buon gusto.
Diana. Signora Beatrice, eccomi a ricevere i vostri comandi.
Beatrice. Siate la ben venuta, signora Diana, non vi ho incomodata per me, ma per il signor Ottavio.
Diana. Che posso per fare per lui?
Beatrice. Presto avrà bisogno di voi.
Diana. Per qual cagione?
Beatrice. Suo padre sta male; se morisse, voi gli rasciughereste le lagrime?
Diana. Lo farei volentieri.
Beatrice. Credo anch’io che non vi dispiacerebbe la morte di Pantalone.
Diana. Certo ch’ei m’è nemico, ma finalmente è padre d’Ottavio.
Beatrice. Bene bene, c’intendiamo. Favorite, ritiratevi9 in questa camera, che or ora sono con voi.
Diana. E Ottavio dov’è?
Beatrice. Può tardar poco a venire.
Diana. Attenderò dunque le vostre grazie.
Beatrice. Non mancherò a’ miei doveri.
Diana. Amore, a te mi raccomando. (entra nell’altra camera)
SCENA IX.
Beatrice, poi Ottavio.
Beatrice. La presenza di Diana gioverà molto per tener in freno Ottavio, quand’egli vedrà morire suo padre.
Ottavio. (Eppure non sono ancor quieto; il cuore mi presagisce qualche sinistro). (da sè, turbato)
Beatrice. Che avete, signor Ottavio, che mi sembrate sospeso?
Ottavio. Ho incontrato mio padre, che scendeva le scale. Mi guardò torvo, non mi disse parola, e pareva gli uscisse il pianto dagli occhi.
Beatrice. E bene! Che perciò?
Ottavio. Non vorrei avesse penetrato quello che si tramava contro di lui.
Beatrice. Non lo sappiamo che voi ed io. lo certamente non ho parlato. Se voi non l’aveste fatto...
Ottavio. Guardimi il cielo; se dubitar potessi che ciò si svelasse, mi darei la morte colle mie mani.
Beatrice. Sentite quanta gente sale le scale!
Ottavio. Certo, questo è un gran romore.
Beatrice. Chi sono coloro?
Ottavio. Non li conosco.
Beatrice. S’avanzano.
Ottavio. Che mai sarà?
SCENA X.
Birri, Bargello, Notaio e detti.
(I birri fermano Ottavio, gli levano la spada. Il bargello ferma Beatrice. I due si lagnano dell’affronto. Il bargello li fa tacere con buona grazia. Il notaio dice al bargello che li conduca in prigione, ed egli lascia a lui quattro birri per far le necessarie perquisizioni. Il bargello e i birri conducono via Beatrice e Ottavio. Il notaio dice ai birri che facciano diligenza per trovare un cane morto di veleno e una pentola di pan cotto; e tutti partono per eseguire10
SCENA XI.
Lelio da una camera e Diana dall’altra.
Lelio. Che vidi!
Diana. Che intesi!
Lelio. Signora Diana. | (Vedendosi l'un l'altro.) | |
Diana. Signor Lelio. |
Lelio. Voi qui?
Diana. Voi in questa casa?
Lelio. Io ci sono per mia disgrazia.
Diana. Ed io per mia mala ventura.
Lelio. Avete veduto?
Diana. Pur troppo. Povero Ottavio! di lui che sarà?
Lelio. Male assai, e peggio per la signora Beatrice.
Diana. Colui vestito di nero, che disse di veleno?
Lelio. Dubito che volessero suonarla al povero Pantalone. Certe parole mi ha dette la signora Beatrice.
Diana. Disse a me pur qualche cosa che mi fa dubitare. Ma noi in questa casa non11 stiamo bene.
Lelio. Certo che venendo sorpresi, potremmo cadere in sospetto di complici.
Diana. Dunque partiamo... Ma sento gente.
Lelio. Dubito che sia Pantalone.
Diana. Non ci lasciamo vedere.
Lelio. Ritiriamoci nelle nostre camere.
Diana. Partiremo in miglior congiuntura. (entra in camera)
Lelio. Ora sì, che se mi vedesse, sarebbe il tempo di usar l’ordigno del trabocchetto. (entra nella sua camera)
SCENA XII.
Pantalone solo.
Come! i zaffif in casa! Beatrice ligada! mio fio in preson! Donca xe sta parlà. Donca se sa dalla giustizia quel che con tanto zelo procurava de sconder! Povera la mia reputazion! povera la mia casa! Adesso sì che scomenzo a perder la carta del navegar, e la bussola più no me serve. Perder la mugier no sarave gnente, anzi el sarave per mi un gran vadagno el perder una cossa cussì cattiva. Perder un fio sarave poco, perchè finalmente perderave un sicario, un traditor; dei bezzi no me importa: come che i xe vegnui, i poi andar, e el cielo che me li ha dai, me li poi anca tior. La vita poco la stimo. Ho vivesto abbastanza, e la morte de poco la me pol minchionar. Ah, l’onor xe quello che me sta sull’anema! L’onor xe quel tesoro che no gh’ha prezzo, che vive anca dopo la morte e che, perso una volta, se stenta a recuperar. Questa xe la gran perdita, che adesso me fa zavariarg. Questo in te le mie desgrazie xe el tormento più grando. Cossa dirà el mondo de mi? Come se parlerà della mia famegia? In che stima sarogio tegnù? Xe vero che mi no son complice dei delitti della mugier e del fio; ma el fio e la mugier le xe do persone tanto taccae al pare e al mario, che per forza bisogna che l’uno partecipa dell’onor e del disonor dei altri. Se mia mugier xe infamada, l’infamia casca sora de mi; se mio fio xe condannà, mi ho ha soffrir i desordeni della condanna. Cossa doncah hoggio da far? Viver in mezzo a tanti rossori? A un omo, che stima la reputazion, come mi, xe impossibile. Darme la morte colle mie man? Me tiorave el dolor, ma crescerave l’infamia della mia casa. Donca cossa ressolvio de far? Prudenza, che ti m’ha sempre assistio in te le mie disgrazie, no ti gh’ha gnente da suggerirme in t’un caso de tanta importanza? Ti me abbandoni sul più bello? Animo, adesso xe tempo de far cognosser al mondo che la prudenza xe la medesina universal dei animi travagiai, e che colla prudenza l’omo poi superar tutte le contrarietà del destin. Sì, te sento, te intendo, ti me incoragissi, ti me dà anemo, ti me dà speranza. Sì ben, el partio no me dispiase... se poderave muarghe le carte in man... el can l’ho butta via... la pignata xe andada... manca el corpo del delitto... Mi son l’offeso... La Giustizia no poderà condannar... So quel che digo... La piaga xe fresca, el remedio sarà ancora a tempo. Parlerò, pregherò, spenderò, pianzerò se bisogna, sparzerò tutto el sangue, pur che se salva l’onor. (parte)
SCENA XIII.
Cortile con due porte terrene, o sian magazzini.
Notaio e Birri.
Notaio. Eppure non si trovano nè questo cane, nè questa pentola. La signora Rosaura ed il signor Florindo asseriscono che dovevano essere nella cucina. Saranno stati nascosti12. Facciamo ogni diligenza per ritrovarli. Buttate giù queste porte. (i birri buttano giù una porta, dalla quale esce Colombina)
SCENA XIV.
Colombina e detti.
Colombina. Buona gente, il cielo vi benedica, che mi avete liberata da quella carcere.
Notaio. Chi vi ha serrata là dentro?
Colombina. Credo siano stati certi bricconi indegni de’ birri, che non si dà al mondo peggior gente di quella, ma questi almeno sono galantuomini, che mi hanno liberata.
Notaio. (Signori galantuomini, il complimento è tutto vostro), (ai birri) Ma perchè vi hanno rinserrata? (a Colombina)
Colombina. Per nulla. Che venga la rabbia a quanti birri vi sono. Credetemi, se ne trovassi uno, lo vorrei trucidare colle mie mani.
Notaio. (Costei forse saprà qualche cosa del veleno.) (da sè) Legatela e conducetela a Corte. Frattanto io anderò a visitare questa stanza. (entra nella stanza terrena. I birri legano Colombina)
Colombina. Come! ancor voi mi legate? Non sareste già... Oh me meschina! sentite, se ho detto male dei birri, ho inteso di dire di quei cattivi. Ma dove mi conducete? Ah povera Colombina! Finora colle mie bellezze mi riuscì di legare, ed ora mi conviene esser legata. (parte con due birri, gli altri restano)
SCENA XV.
Il Notaio dalla suddetta stanza, poi Arlecchino e birri.
Notaio. Qui non vi è nulla. Buttate giù quest’altro uscio. (I birri buttano giù l’uscio dell’altra stanza terrena, ed esce Arlecchino tutto lasso e cadente. I birri lo reggono, ed egli si va appoggiando ad essi, e ora casca di qua, e ora di là.)
Notaio. Animo, amico, che cosa avete?
Arlecchino. Fame.
Notaio. Chi siete?
Arlecchino. Fame.
Notaio. Che nome avete?
Arlecchino. Fame.
Notaio. Chi vi ha serrato là dentro?
Arlecchino. Fame.
Notaio. Costui non vuol parlare. Legatelo bene, e conducetelo a Corte.
Arlecchino. Gridando fame, fame, si lascia dai birri strascinar via.)
Notaio. Mi pare uno sciocco, dubito che poco vi sarà da ricavare rapporto al venefizio di cui si tratta. (parte)
SCENA XVI.
Sala del Giudice, con tavolino con sopra da scrivere, ed un processo, e due sedie.
Il Giudice a sedere, poi il Notaio.
Giudice. Questi rei sono troppo ostinati, non vogliono confessare: e se non riesce al notaio di rinvenire il corpo del delitto, la causa si vuol render difficile. Ma eccolo appunto che viene. (entra il notaio) Ebbene, signor notaio, avete ritrovato il cane morto e la pentola avvelenata?
Notaio. Fu vana ogni mia diligenza; nulla di ciò si è potuto rinvenire. Trovai chiusi in due stanze terrene un servitore ed una serva di Pantalone; credendoli intesi del fatto, li feci arrestare, ma costituiti poi con ogni accuratezza, ed esaminati altresì la signora Rosaura ed il signor Florindo, trovai che Pantalone li aveva fatti colà rinserrare per castigarli della loro insolenza, prima che fosse commesso l’attentato del venefizio di cui si tratta, onde li feci sciogliere e licenziare.
Giudice. Ma senza il corpo del delitto, come verremo in chiaro della verità per procedere contro de’ rei? Voi vedete che non si tratta di un delitto di fatto traseunte, ma permanente.
Notaio. Se V. S. Eccellentissima mi dà licenza, dirò essere necessario di venire al confronto. La signora Rosaura e il signor Florindo protestano che manterranno in faccia a Beatrice ed Ottavio quanto hanno deposto; onde facciamo venir tutti quattro, che forse un tal esperimento gioverà contro la loro ostinazione. Darò io loro alcuni interrogatori, che mi comprometto di farli confessare senza tormenti.
Giudice. Approvo il vostro parere. Così si faccia. Sedete. (notaio siede, suona il campanello)
SCENA XVII.
Bargello e detti.
Bargello. Che comanda V. S. Eccellentissima?
Giudice. Conducete qui Beatrice ed Ottavio, detenuti per venefizio. ed altresì fate introdurre Rosaura Bisognosi e Florindo suo marito, chiamati a Corte come testimoni.
Bargello. Sarà ubbidita. (parte)
Giudice. Il caso è molto grave. Una moglie ed un figlio tentar di avvelenare il marito ed il padre? che iniquità! Voglio dare un terribile esempio. Voglio usare tutti i rigori della giustizia.
Notaio. Ma specialmente bisogna severamente punir Beatrice, acciò queste mogli cattive imparino a trattar bene i loro mariti. In oggi sono tanto arroganti, che non si può più vivere.
SCENA XVIII.
Beatrice ed Ottavio alla parte dritta, con birri e bargello. Rosaura e Florindo alla parte sinistra, e detti.
Giudice. Signor Florindo, l’ostinazione di questi inquisiti, che negano le loro colpe, impegna la vostra onestà a sostenere in faccia loro quanto avete deposto. Ora si dovrà venire al confronto. E se voi (alli due rei) avrete la temerità di negare, sapranno i tormenti strapparvi di bocca, vostro malgrado, la verità. Signor notaio, scrivete.
SCENA XIX.
Pantalone e detti.
Pantalone. Sior illustrissimo, la prego sospender per un momento e degnarse de ascoltarme anca mi.
Giudice. Parlate pure, ch’io non ricuso ascoltarvi. Volete esser solo?
Pantalone. Eh, no m’importa che ghe sia tutto el mondo. Me stupisso che in t’una causa e in t’un processo, dove mi comparisse l’offeso, se vaga avanti senza ascoltarme. Xe vero che el delitto de venefizio xe delitto pubblico, e per la pubblica vendetta se procede ex officio, ma xe anca vero che, dove se tratta dell’ingiuria o del danno, la parte offesa s’ha da ascoltar.
Giudice. (Mi pare che non dica male). (al notaio, piano)
Notaio. (È vero, ma vi è sempre tempo). (al giudice)
Giudice. (Per lo più voi altri notai mettete il carro avanti i buoi). (al notaio) E bene, che intendete dire perciò? (a Pantalone)
Pantalone. Intendo de dir che se forma un processo ingiusto e desordenà. Che la falsa quarela dada contra mia mugier e mio fio, offende la reputazion de mi e della mia casa, e intendo che no se proceda più avanti.
Giudice. Voi pretendete troppo, signor Pantalone. L’accusa non si presume calunniosa, mentre l’accusatore è persona onesta.
Pantalone. Cossa me parlela de presunzion? In t’una causa de sta sorte ghe vol altro che presunzion. Fatti i vol esser, prove e testimoni: e siben che non son omo legal, no son però tanto indrio colle scritturei, che no sappia anca mi che in criminal prima de tutto s’ha da cercar el corpo del delitto. Dov’elo sto velen, che se dise parecchià per mi da mia mugier e mio fio? Dov’ela quella pignata, dove in vece del mio alimento bogivaj la mia morte? Dov’è quel can che se crede che sia morto in vece mia e che m’abbia salva la vita colla so morte? Questi doverave esser i fondamenti della macchina de sto processo, e senza de questi la fabbrica no sta in piè, anzi la precipita e la se destruze. Ma za che se tratta de una causa che xe tutta mia, vogio mi supplir alle mancanze del fisco e vogio mi presentar in offizio quel corpo del delitto, che fin adesso no s’ha trovà. La favorissa, sior nodaro, de lezer la descrizion del can, che se dise morto in vece mia de velen.
Notaio. (Descrive un cane della tale statura, del tal colore, coi tali e tali contrassegni, come sarà stato veduto dagli spettatori.)
Pantalone. Sta cagna che no se trova, sto corpo de delitto che manca, el xe in te le mie man, lo gh’ho mi, e l’ho fatto portar qua per lume e disinganno della Giustizia. De qua. (chiama un suo servitore, da cui riceve la cagna viva) Eccola qua viva e sana; la confronta la statura, i colori, le macchie, i accidenti, el pelo, le recchie e el naso. Questa xe la cagna che se credeva morta, ma no xe vero. Qualche accidente l’averà strasmortia, e l’umana ignoranza credendo sempre el mal, pensando sempre al pezo, ha fatto creder alla semplice de mia fia e al gnoco de Florindo, che la fusse morta, e morta de velen. (Il giudice ed il notaio osservano la cagna, e con cenni approvano esser quella) Mancando donca el corpo del delitto, manca tutte le presunzion. Ma come presumer mai se podeva che una mugier volesse velenar un mario, che un fio volesse velenar so pare? Una mugier per la qual ho abuo tanto amor e respetto, un fio per el qual ho abuo tanta tenerezza e passion? No, che no i xe capaci de un tradimento così crudel. Mia mugier xe el specchio de l’onestà; mio fio l’esempio de l’ubbidienza. El Ciel m’ha dà una mugier che no merito, un fio che me rende consolazion. La mia famegia xe sempre stada benedia dalla pase; la mia casa xe sempre stada l’abitazion dell’amor. Mai tra de nu no xe passa una cattiva parola; mai da sti do innocenti ho abuo un desgusto. Mia mugier attenta a assisterme con carità; mio fio impegna a servirme con fedeltà. Mi ho sempre procura de contentarli. I ho trattai no da marcante, ma da zentilomo; mai gh’ho fatto mancar, no dirò el so bisogno, ma quanto i saveva desiderar. Donca per che motivo se puol creder mai che i me volesse velenar? Quando se tratta de presumer un delitto, bisogna esaminar se ghe giera rason de commetterlo. Nè mi meritava da lori sta crudeltà, nè lori i giera capaci de concepirla. (Beatrice e Ottavio s’inteneriscono e piangono) La i varda in viso, sior giudice, per carità; la veda se quelle idee le xe capace de tradimenti. I pianze, poveretti, i pianze dal dolor de sentirse cussì a placitark; i pianze per el dolor del mario e d’un pare afflitto e appassionà, per veder una mugier innocente, un fio senza colpa, in figura de rei, ligai e presentai in fazza della Giustizia. No, cari, no pianzè passerà sto nuvolazzol che manazzam tempesta, tornerà el sol della nostra pase. Vegnì qua, lasse che ve abbrazza, che ve strenza al petto, in segno de quella sicurezza che gh’ho del vostro amor, del ben che ve vogio e della speranza de vederve presto fuora de sti pericoli, senza macchia della nostra reputazion. (abbraccia ora l’uno, ora l’altro, piangendo)
Giudice. (Qual naturale eloquenza han mai i Veneziani!) (piano al notaio)
Notaio. (Bisogna far forza per non arrendersi!) (al giudice, come sopra)
Beatrice. Ah mio adorato consorte, eccomi, che pentita...
Pantalone. (La tira un poco lontana dal tribunale, e le parla sotto voce) Zitto, anema mia, zitto, no parlar; questo no xe liogo da scuse e da pentimenti. Se el cielo ve inspira qualche bon sentimento per mi, trattegnilo anca un puoco; a casa podere sfogarve e consolar sto povero vecchio, che ve vol tanto ben.
Beatrice. (Mi sento scoppiar il core). (da sè, rimettendosi)
Ottavio. Ah caro padre, se fui sedotto...
Pantalone. (Fa lo stesso, come ha fatto con Beatrice) Tasi, e no parlar in sto liogo. No scoverzimo i pettolonin senza proposito. No mancherà tempo de sepelir in te le lagreme ogni cattiva memoria. Da ti no vogio altre scuse che ubbidienza e respetto.
Giudice. (Guardate come son tutti inteneriti). (piano al notaio)
Notaio. (Quasi quasi farebbon piangere anche me), (piano al giudice)
Rosaura. (Io resto stordita!) (piano a Florindo)
Florindo. (Vostro padre è un grand’uomo. Noi abbiamo fatto il male, ed egli vi ha rimediato). (a Rosaura, come sopra)
Pantalone. Sior giudice, mancando el corpo del delitto, e mancando ogni presunzion, no credo che la gaverà difficoltà de dichiararli innocenti e liberarli da ste miserie.
Giudice. Signor Florindo, voi, che per asserto zelo della vita di vostro suocero, foste l’accusatore del venefizio, che dite in confronto dell’arringa del signor Pantalone?
Florindo. Dico che troppo facile fui a prestar fede ad una vana apparenza, qualificata dalle illusioni di Rosaura mia consorte, onde, in quanto a me, mi ritratto dalla querela, convinto dall’evidenza in contrario, e pentito d’aver cagionata una tal vessazione ad una famiglia che non la merita.
Giudice. E voi, signora Rosaura, con qual fondamento avete confermata la deposizione del signor Florindo?
Rosaura. Non mi confondete. I vostri termini io non li intendo.
Giudice. Perchè avete detto che la cagna era morta?
Rosaura. Perchè non credevo che fosse viva.
Giudice. Ma perchè non aveva ad esser viva?
Rosaura. Perchè credevo che fosse morta.
Giudice. Ma ora è morta, o viva?
Rosaura. La morta è morta, e la viva è viva.
Pantalone. Ah caro sior giudice, no la daga mazor tormento a un povero pare, col torse spasso d’una fia semplice e senza el chiaro lume della rason. No sentela el fondamento de quelle belle risposte? La credeva morta, la credeva viva, la morta è morta, e la morta è viva? Su sto bel principio s’ha fondà el discorso de sior Florindo, co sto bel fondamento l’è vegnù a denunziar. Mi bisogna sentirme, mi bisogna ascoltarme. A mi, se i fusse rei, complirave che i fusse castigai, a mi doverave premer de metter in siguro la mia vita insidiada e perseguitada; ma mi son quello che nega la denunzia, che convince el denunziante, che prova non esser vero el delitto, e mi son quello, che azonzendo alle rason più sode e più vere le lagreme più calde e più vive, cavae dal fondo del cuor, prostrà ai pie de sto Tribunal, domando e giustizia e pietà: giustizia per do poveri innocenti falsamente accusai; pietà per un povero vecchio, ferio nella parte più delicata, che xe l’onor. La giustizia li assolva, la pietà me consola; e se la giustizia dovesse ancora sospender la grazia, la pietà sia quella che me conceda un’anticipata consolazion.
Giudice. Signor Pantalone, alzatevi e consolatevi. La mancanza del corpo del delitto, la deficienza di prove, la ritrattazione dei denunzianti, rendono finora nullo il processo, e fanno sperare la libera assoluzione degli imputati. È ben vero però che il fisco potrebbe passare a diligenze maggiori, specialmente circa alla vita, ed costumi e al domestico loro contegno, ma in grazia della vostra difesa, della vostra tenerezza, della vostra bontà, usando quell’arbitrio che a me danno le leggi, liberamente li assolvo. Se sono innocenti, lo meritano per se stessi; se sono rei, lo merita il dolcissimo vostro cuore. Sicuro, che se anco fossero rei, sarà maggior colpo nell’animo loro la vostra pietà, di quello far potessero i rigori della giustizia. Signor Pantalone, ve lo ridico, consolatevi che sono assoluti.
Pantalone. Ohimè... No posso parlar... Sior giudice... Fioi, vegnì qua... Me schioppa el cuor...
Bargello. Eccellentissimo signor giudice, chi mi paga le mie catture?
Giudice. Quando il reo resta assoluto, è nulla la cattura e il processo.
Notaio. Anch’io ho scritto ed ho faticato, e vi ho rimesso la carta.
Bargello. Ma io intendo che si proceda coi rigori del fisco.
Pantalone. Via, sior bareselo13, butte più bon, che savè che mi son galantomo.
Bargello. Tutti dicono esser galantuomini colle parole, ma i fatti poi non corrispondono.
Pantalone. (T’ho capio). (da sè) Ma mi son galantomo più dei altri; e che sia la verità, passando per la sala de sto palazzo, ho visto a luser in terra e ho trova sto relogio. L’ho cognossuo che l’è vostro, l’ho tiolto su, e senza badar al valor e alla perfezion, onoratamente lo restituisso al so vero patron.
Bargello. È vero, questo è il mio orologio. L’avevo perduto. Vi ringrazio d’avermelo restituito. Signor giudice, il signor Pantalone è un galantuomo, bisogna prestargli fede. Assolva pure la di lui moglie e il di lui figliuolo, che quanto a me volentieri gli dono le mie catture. (parte)
Notaio. (Questa bella frase del signor Pantalone mi pone in qualche sospetto). (piano al giudice)
Giudice. Quello che ho fatto, ho fatto, e non mi pento di averlo fatto. (al notaio)
Notaio. Pazienza! Mi dispiace la carta... (parte)
Pantalone. Andemo, no perdemo più tempo. Sior giudice, no so cossa dir. El ciel la benedissa; el cielo la defenda da ogni desgrazia. (E me varda mi de aver bisogno mai de sta sorte de grazie). (da sè, parte)
Beatrice. (Fra il dolore, il rossore ed il pentimento, mi sento balzar il cuor nel seno). (da sè) Signor giudice, rendo grazie alla vostra pietà. (parte)
Giudice. (Eppure colei non la credo tanto innocente. Oh donne senza giudizio!) (da sè)
Ottavio. (Povero padre! Poteva far di più per salvarmi?) (da sè) Signor giudice, a voi m’inchino.
Giudice. Amate e rispettate il vostro genitore, che ben lo merita.
Ottavio. (Questo rimprovero mi fa tremare). (da sè, parte)
Rosaura. (Ora sì, che sto fresca! Beatrice mi vorrà morta, e mio padre mi mangerà viva). (da sè) Signor giudice, volete altro da me?
Giudice. No no, andate pure. Abbiate un poco di prudenza.
Rosaura. Il cielo mi liberi dalle vostre mani. (parte)
Florindo. Non vonei, signor giudice, che la mia denunzia sembrasse una calunnia.
Giudice. Per questa volta vi passa bene, un’altra volta pensateci meglio.
Florindo. (Se vengo più qui sopra, mi si rompa l’osso del collo). (da sè, e parte)
Giudice. Molto malagevole impegno è quello del giudice! Dover sempre imprimer timore, e dover sentire tuttogiorno dolersi, piangere e sospirare! Io sono consolatissimo, quando posso assolvere e far bene. Valendomi del sentimento di quel poeta:
«Giudice che pietoso assolve i rei,
«Egual si fa nella clemenza ai Dei. (parte)
SCENA XX.
Camera di Pantalone con due porte.
Lelio e Diana.
Lelio. Vi dico, signora Diana, che giù per quella scala io non ci voglio andare, e non ci dovete andar nemmen voi.
Diana. Questo è un vostro vano sospetto. Ancorchè fosse vero, che nella scala che dite vi fosse il trabocchetto, ora per l’appunto Pantalone avrà levato l’ordigno. Eh via...
Lelio. Nello scender ch’io feci, tentai bel bello col piede ciascun gradino, e sentii che il quinto volea mancarmi di sotto i piedi, se non ero prevenuto e non mi ritiravo per tempo.
Diana. Vi dico che questa è apprensione.
Lelio. Io non voglio arrischiar la vita.
Diana. Che dunque? Dobbiamo stare qui eternamente?
Lelio. Aspettiamo la sera e col favor delle tenebre scenderemo dalla finestra.
Diana. Bel pensiere! (ridendo)
Lelio. Opportuno, mia signora.
Diana. Sento gente.
Lelio. Torniamo a nasconderci. (entra nella sua camera)
Diana. Per esser uomo, è più vile di me. (entra nella sua)
SCENA XXI.
Pantalone solo.
Ah Giove, ah Giove, ve ringrazio con tutto el cuor. Me xe riussio finalmente de salvar la reputazion. Tutti chi m’incontra, se ralegra14 con mi, e persuasi che Beatrice e Ottavio fusse innocenti, i compatisse la so desgrazia, e i gh’ha invidia della mia fortuna. Me par, se no me inganno, d’aver intenerio quei cuori de sasso. Ah, se fusse vero, no ghe sarave a sto mondo un omo più felice de mi.
SCENA XXII.
Beatrice e detto.
Beatrice. (S’inginocchia alla dritta, e parla piangendo) Ecco a vostri piedi, o mio adorato consorte, una moglie ingrata e crudele, indegna del vostro amore. Confesso che, acciecata dalle furiose passioni, ho avuto la empietà di procurare la vostra morte; ma ora, pentita di cuore, convinta e intenerita dal vostro amore e dalla vostra pietà, vi chiedo umilmente perdono, e vi supplico di non negarmi la grazia, ch’io vi possa baciar la mano.
SCENA XXIII.
Ottavio e detti.
Ottavio. (S’inginocchia dall’altra parte, pure piangendo) Amorosissimo mio genitore, eccovi dinanzi gli occhi un figlio traditore, inumano degno dell’odio vostro e di mille morti. Confesso di aver cooperato alla vostra morte, ancorchè tardi, e fuor di tempo, abbia tentato di ripararla. Ed ora avendo in odio me stesso, vi chiedo pietà, e vi supplico e vi scongiuro a concedermi il prezioso dono d’imprimervi un bacio su quella mano adorata.
Pantalone. (Dà una mano a ciascuno di essi, piangendo) Tiolè, tiolè, cuor mio, vissere mie, leveve su, lasse che ve abrazza, che ve struccolao, che ve basa. No parlemo più del passà. Ve perdono; sì, ve perdono, e se sarè co mi una bona mugier e un fio ubbidiente, ve sarò sempre mano affettuoso, e pare desvisserà.
SCENA XXIV.
Rosaura e detti.
Rosaura. Signor padre, io sono stata la cagione di tanti vostri rammarichi, ma finalmente, considerando che io l’ho fatto per timore della vostra morte, concedetemi un benigno perdono.
Pantalone. Sì, fia mia, te perdono. Ma no me far più de ste burle. Co t’ho dito de taser, no ti dovevi parlar.
Rosaura. Allora aveva di già parlato.
Pantalone. No me fazzo maravegia, perchè la testa delle donne la xe come un caratellop. Quel che intra per i spinelliq o delle recchie, o dei occhi, subito va fuora per el cocconr della bocca.
SCENA XXV.
Florindo e detti.
Florindo. Io, signor Pantalone, fui quegli che per salvare la vostra vita portai le istanze alla Giustizia contro la signora Beatrice e al signor Ottavio. Ciò feci spronato dall’amore di genero, onde spero che voi mi perdonerete, non men di quelli che ho creduto d’essere in necessità di offendere, siccome vivamente li prego.
Pantalone. No posso desapprovar la vostra condotta. Ma mi che penso diversamente dai altri, ringrazio el Cielo che la sia andada cussì. Ve scuso e ve perdono, e sul mio esempio no gh’è pericolo che mio fio e mia mugier no i fazza con vu l’istesso.
Ottavio. Come cognato e vero amico vi abbraccio.
Beatrice. Io vi protesto tutta l’amicizia ed il rispetto. Ma, caro consorte, giacchè siete così facile a conceder grazie, un’altra ardirei domandarvene.
Pantalone. Domande pur. Voleu el sangue? Tutto lo sparzerò per vu, la mia cara colonna.
Beatrice. Colombina e Arlecchino hanno perduto il pane per mia cagione. Son qui, che chiedono pietà; vi prego rimetterli in grazia vostra, assicurandovi che muteranno costume col nostro esempio.
Pantalone. Volentiera; tutto quel che volè; che i vegna pur, za che per accidente so che i xe stai cavai fuora de caponera15. Ma basta che anca vu ve contente che torna in casa Brighella, che doverave esser poco lontan.
Beatrice. Ne sono contentissima. Basta che voi lo vogliate.
SCENA XXVI.
Brighella, poi Colombina, poi Arlecchino e detti.
Brighella. Za che in desparte ho sentio la grazia che i mi paroni s’ha degna de farme, con tutta umiltà l’accetto, e ghe prometto servitù fedel, respetto immutabile e obbedienza fina alla morte.
Pantalone. Caro Brighella, te vogio ben.
Colombina. Signor padrone, eccovi dinanzi la vostra povera cameriera, che per essere stata impertinente, avete con ragion castigata. Da qui avanti vedrete ch’io sarò obbediente come una cagnolina, e acciò non vi succedano più disgrazie, vi farò sempre la pappa colle mie mani.
Pantalone. Se ti gh’averà giudizio, sarà megio per ti.
Arlecchino. Sior padron, son qua ai vostri piedi; mi ve compatisso vu, vu compatime mi, e quel ch’è sta, è sta.
Pantalone. Za so che da ti no se pol aver de megio. Compatisso la to alocagine, e basta che ti sii fedel.
SCENA XXVII.
Diana e detti.
Diana. Giacchè vedo giubilar tutti in un mar di contenti, m’azzardo anch’io di presentarmi al signor Pantalone.
Pantalone. Come gh’intrela ela? Come xela qua?
Diana. Venni invitata dalla signora Beatrice.
Beatrice. È vero, prima che fossi arrestata.
Ottavio. Signora Diana, voi mi vedete cambiato per opera dello sviscerato amor di mio padre; sappiate che il mio cambiamento è universale, e che mi trovo costretto a sagrificare all’obbedienza giurata al mio genitore anche l’amore che aveva per voi.
Diana. Pazienza! Confesso non esser degna di un tanto bene, e compatisco lo stato in cui vi trovate.
Pantalone. Ah caro fio! (E pur quella poverazza me fa peccà). (da sè)
SCENA ULTIMA.
Lelio e detti.
Lelio. Giacchè la sorte mi fece a parte dei vostri contenti, non voglio lasciare di consolarmi con voi, mio veneratissimo signor Pantalone.
Pantalone. Anca ela? Come?
Lelio. Anch’io fui qui chiamato dalla signora Beatrice.
Beatrice. Pur troppo è vero; ma ora comincio ad aborrire il mio passato costume.
Pantalone. (Me despiase che sta zente ha sentio tutto, e no vorave che i parlasse; bisogna obbligarli). (da sè) Sior Lelio e siora Diana, in segno de quella stima che fazzo de lori, ghe vorave proponer un mio pensier, ma vorave mo anca che i se degnasse de accettar el mio bon cuor, senza rimproverarme de troppo ardir.
Diana. Io dipenderò da’ vostri voleri.
Lelio. Sarò pronto esecutore de’ vostri comandi.
Pantalone. Siora Diana, me togo la libertà de offerirghe sie mille ducati, acciò la se trova un mario adatta alla so condizion; e se sior Lelio xe contento, pregherò siora Diana che a elo, co la dota, la ghe daga la man e el cuor. Cossa dixeli?
Diana. Io son contenta. (Altro non cercava che di maritarmi). da sè)
Lelio. Ed io mi chiamo felice. (Sei mila ducati non si trovano così facilmente). (da sè)
Pantalone. Anca questa xe fatta. Adesso sì che son veramente contento; ma siccome a sto mondo no se pol dar un omo contento, cussì me aspetto a momenti la morte. No m’importa; morirò volentiera co la consolazion d’aver redotto de una mugier capricciosa una compagna amorosa, de un fio scavezzos un angelo obbediente, de zente discola persone savie e da ben. Sia dito a gloria de la verità, questa xe tutta opera de la prudenza, la qual, come calamita fedel, voltandose sempre a la tramontana del ponto d’onor e de la giustizia; anca in te l’alto mar de i travagi insegna al bon nocchier a schivar i scogi de le disgrazie e trovar el porto de la vera felicità16.
Fine della Commedia.
- Note dell'autore
- ↑ Mi, io.
- ↑ Come sopra.
- ↑ Aseo, aceto, espressione di maraviglia.
- ↑ Filar el lazzo, dar motivo di seguitar a far male.
- ↑ Marii, mariti.
- ↑ Zaffi, birri.
- ↑ ’Zavariar, delirare.
- ↑ Donca, dunque.
- ↑ Tanto indrio colle scritture, esser ignorante.
- ↑ Bogiva, bolliva.
- ↑ Placitar, accusar in pubblico.
- ↑ Nuvolazzo, nuvola pregna d’acqua
- ↑ Manazza, minaccia.
- ↑ I pettoloni, i mancamenti.
- ↑ Struccolare, stringere.
- ↑ Caratello, picciola botte.
- ↑ Spinelli, piccioli fori.
- ↑ Coccon, turacciolo, e si prende per il maggior foro del botticino, a cui s’adatta il turacciolo.
- ↑ Scavezzo, discolo.
- Note dell'editore
- ↑ Sav. e Zatta: ubbidisce.
- ↑ Sav. e Zatta: un poco ancora.
- ↑ ettin. e Savioli: legano.
- ↑ Pap. e Zatta: È morta, è morta.
- ↑ Bett., Sav. e Zatta: gh’intrio.
- ↑ Bett., Sav. e Zatta: depeno.
- ↑ Sav. e Zatta: di chi.
- ↑ Bett., Sav. e Zatta: qui venire.
- ↑ Sav. e Zatta: Favorite ritirarvi.
- ↑ È da notare questa scena lasciata a soggetto.
- ↑ Paper. e Zatta: non ci.
- ↑ Così Bett., Sav. e Zatta; Pasquali, Paper, ecc.: Gli averanno nascosti.
- ↑ Bargello.
- ↑ Bettin.: raliegra.
- ↑ Caponera, gabbione in cui si nutriscono i capponi.
- ↑ Si leggono nelle edd. Paperini (t. V) e Pasquali (t. XIV), in fine della commedia, queste parole: «Avvertasi che il carattere, che si forma in questa Commedia, è d’una Prudenza non del tutto virtuosa e depurata da ogni vizio. Ove dunque i ripieghi da scaltrìmento ingannevole procedono, tuttochè indirizzati sieno a buon fine, non si deggiono riputar degni nè d’imitazione, nè di lode. Vero è che Festo e Ulpiano distinguono inter dolum, malum et bonum, nulladimeno l’Autore si protesta che egli non approva qualunque astuzia, che accompagnata sia coll’inganno.