L'uomo prudente/Atto II
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ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Giorno.
Segue la stessa camera, con due porte chiuse.
Beatrice e Colombina.
Beatrice. Questo dunque è il bell’esito che hanno avuto le nostre invenzioni? Rosaura per castigo or ora sarà maritata col signor Florindo?
Colombina. Così è; quel politicone di vostro marito, senza punto scaldarsi il sangue, l’ha accomodata così.
Beatrice. Oh, questa poi non la posso tollerare; ci va della mia riputazione, che colei trionfi ad onta mia.
Colombina. Il signor Pantalone ha serrato il signor Florindo in quella camera, e stamattina, levato che sarà, concluderà senza altro questo matrimonio.
Beatrice. È assai che non si sia ancora alzato!
Colombina. È stanco dal viaggio; per altro egli s’alza sempre di buon mattino.
Beatrice. E Florindo sposerà Rosaura senza dir nulla a me, e senza averne il mio assenso?
Colombina. Oh, lo farà senz’altro.
Beatrice. Se gli potessi parlare, non lo farebbe. Se sapessi in che modo aprir quella camera, mi darebbe l’animo di sturbar ogni cosa.
Colombina. Il modo d’aprirla è facile: sapete pure che tutte le chiavi di queste camere sono simili; colla vostra si può aprire anche questa. Ma è ben vero che non mi par decente che due donne aprano la camera d’un uomo, che può essere ancora a letto, il ciel sa in qual positura.
Beatrice. Fa così, batti all’uscio; chiama Florindo, domanda s’egli è levato. Se dice di sì, digli che vi è chi gli vuol parlare, e apri; eccoti la mia chiave.
Colombina. Non mi dispiace; così farò, va alla camera di Florindo)
Beatrice. Fa presto, prima che il vecchio si levi.
Colombina. Signor Florindo. (batte)
SCENA II.
Florindo di dentro, e dette.
Florindo. Chi è? Chi mi chiama?
Colombina. Siete levato?
Florindo. Sono levato e vestito; ed aspetto d’uscir di prigione.
Colombina. Se non vi è di disturbo, vi è persona che vi vorrebbe parlare.
Florindo. Ma se non posso uscire.
Colombina. Ora vi apro. (apre l’uscio, e Florindo esce)
Florindo. Dov’è la signora Rosaura? (a Colombina)
Beatrice. Cercate la signora Rosaura, eh? Mi meraviglio di voi. Siete un uomo incivile. Avete commessa un’azione troppo indegna.
Florindo. Ma, signora, l’affare è già accomodato. Il signor Pantalone si contenta...
Beatrice. Se se ne contenta il signor Pantalone, non me ne contento io. Che! Io dunque non conto per nulla in questa casa? Senza mia saputa si fanno i matrimoni? E voi avete per me sì poco rispetto?
Florindo. L’occasione nella quale mi sono ritrovato...
Beatrice. Sì sì, v’intendo; vorreste scusarvi, ma poco servono le vostre scuse, se non mi date una ben giusta soddisfazione.
Florindo. Signora, comandate; sono pronto a far tutto, per comprovarvi il rispetto che professo alla vostra persona.
Beatrice. In questo punto dovete andarvene di casa mia.
Florindo. Senza concludere il matrimonio?...
Beatrice. Differitelo ad altro tempo. Vi avviserò io, quando mi parrà che si faccia.
Florindo. Ma la signora Rosaura...
Beatrice. Ella dipende dal mio volere.
Florindo. E il signor Pantalone?
Beatrice. Sarà mia cura di far1 con esso le vostre giustificazioni.
Florindo. Almeno dar un addio alla sposa...
Beatrice. Questo è troppo. Non mi mettete al punto di mortificarvi ambedue.
Florindo. Mi par troppo amara...
Beatrice. Mi par troppo ardire il vostro.
Florindo. Perdonate.
Beatrice. Partite.
Florindo. Vi obbedisco. (Oh femmina disturbatrice2 de’ miei contenti! ) (parte)
SCENA III.
Beatrice e Colombina.
Beatrice. Vedi, se mi è riuscito di farlo partire?
Colombina. Certo che in questa maniera sarebbe partito. Pareva lo voleste sbalzare dalle finestre.
Beatrice. Ma nelle occasioni conviene farsi rispettare e temere.
Colombina. Orsù, signora padrona, l’ora è tarda; è tempo che io vada a rivedere mia madre.
Beatrice. Cara Colombina, non mi abbandonare3.
Colombina. E volete che io perda una sì bella eredità?
Beatrice. Chi t’assicura che ciò sia vero, e non sia un invenzione di quel vecchio malizioso, per cacciarti di casa?
Colombina. Sapete che non mi pare la pensiate male! Mia madre è stata qui, che son pochi giorni. Ella non è tanto ricca, e vostro marito non mi può vedere. Sarà meglio ch’io prima me n’assicuri; ne domanderò a qualche contadino, e se non è vero, voglio che mi senta quel volpone di vostro marito.
Beatrice. Ho sentito chiuder l’uscio dello scrittoio. Il vecchio è levato e non tarderà a venire in sala. Ritiriamoci; ma prima torna a serrar quella camera.
Colombina. Sì sì, non ci facciamo vedere, che non abbia a pensar male. Eccola serrata, ed ecco le chiavi.
Beatrice. Oh, come vuol restar di stucco, non ritrovando Florindo in casa!
Colombina. Con tutta la sua politica, questa volta glie l’abbiamo fatta4.
Beatrice. E Rosaura vuol mangiar l’aglio davvero!
Colombina. Suo danno, crepi pure5 quella bacchettonaccia maliziosa.
Beatrice. Ecco gente, andiamo. (parte)
Colombina. Oh, noi altre donne ne sappiamo una carta più del diavolo. (parte)
SCENA IV.
Pantalone solo.
Xe ora che vaga a liberar sti poveri presonieri. Ho slongà un pochetto la mia ora solita de levarme per la strachezza del viazo, e xe un poco tardi, e el sior Florindo me aspetterà con batticuor e paura. Dixe el proverbio: tutto el mal non vien per nuocer. El bravo chimico sa dal velen cavar l’antidoto, e l’omo politico sa dal mal cavar el ben. Cussì mi da un desordene spero cavar un ordene, e mandando mia fia, liberarme del mazor spin, che gh’abbia in ti occhi. Co ste do righe de scrittura che ho fatto, se concluderà el matrimonio tra sior Florindo e Rosaura, e co quest’altra spero de tirar mio fio a sposar la fia del sior Pancrazio, ricca de sessanta mile ducati. So che in quel pezzo de matto, incocalioa per siora Diana, troverò delle difficoltà, ma spero co sta alzadura d’inzegno tirarlo in rade, senza che el se n’accorza, e se non altro far che quella pettegola se desgusta. Scomenzemo da sti do desperai: ma prima voggio sentir Rosaura; veggio un poco che la me diga come xe andà el negozio de gersera, e come gh’intrava quel cagadonaob de sior Lelio. Rosaura, xestu levada? Xestu vestia? Vien fuora, che te voggio parlar. (apre colla chiave)
SCENA V.
Rosaura esce dalla camera, e detto.
Rosaura. Eccomi, signor padre, che mi comandate?
Pantalone. Fia mia, quel che xe sta, xe sta, e non te voggio rimproverar un fallo che podeva dir quindesec, ma che fursi te farà vadagnar la partia. Voggio da ti solamente saver come xe andà sto negozio, e come qua in camera con ti s’ha trova sior Florindo e sior Lelio.
Rosaura. Credetemi non ne so nulla, da fanciulla onorata.
Pantalone. Cossa favistu in sta camera?
Rosaura. Aspettavo che Colombina mi portasse la cena.
Pantalone. Ma sior Lelio gerelo una piatanza?
Rosaura. Io non l’avevo veduto.
Pantalone. Come no l’avevistu visto, se el te gera tanto vesin?
Rosaura. Non l’ho veduto, perchè ero all’oscuro.
Pantalone. Ma perchè star a scuro?
Rosaura. Colombina spense il lume, e andò in cucina a riaccenderlo.
Pantalone. Ah ah, Colombina ha stuà la luse, e la gera andada a impizzarlad? Ho capio tutto. Quella desgraziada, quella ruccolae maledia xe stada quella che t’ha mena in camera i do pretendenti. Fia mia, basta... (La xe innocente, lo credo e lo tocco co man). (da sè) Ma za che l’accidente ha portà cussì, bisogna uniformarse e sposar sior Florindo.
Rosaura. Oh, questa cosa non mi dispiace niente.
Pantalone. Donca ti ghe vol ben a sior Florindo?
Rosaura. Se devo dire la verità, non gli voglio male.
Pantalone. O via, manco mal. Ancuo ti sarà contenta. Ma avverti a esser una bona muggier, come che ti xe stada una bona fia. L’amor se coltiva colla confidenza, e se un mario e una muggier scomenza a viver deseparai, presto presto i deventa nemici. Se ti ghe vol ben, ti ha da cercar de secondar le so inclinazion. Se el te voi aliegra, e ti mostra allegria: se ti ghe piasi malinconica, e ti sospirando, ma solamente per elo, falo muover a compassion. Se el te mena ai divertimenti, vaghe, ma co modestia; se el te tien in casa, staghe con rassegnazion. Se l’è zeloso, schivaf tutte le occasion de darghe sospetto; se el se fida, no te abusar della so bontà. Se l’è generoso, procura de regolarlo; se l’è avaro, procura de illuminarlo; e sora tutto se el cria, e se el te dà causa de criar, essi tig la prima a taser, se pur xe passibile che una donna sia la prima a sbassar la ose.
Rosaura. Vi ringrazio di questi buoni avvertimenti. Cercherò di valermene. Ma il signor Florindo che fa? Dorme ancora?
Pantalone. No so; la camera no l’ho gnancora averta; aspetta che adesso, se el xe levà, vôi che se concluda su do piè sto matrimonio. va per aprire)
Rosaura. (Volesse il cielo! non vedo l’ora di sentirmi chiamare signora sposa). da sè)
Pantalone. Sior Florindo, xela in letto? Nol responde, adesso anderò a veder se el dorme. a Rosaura, ed entra)
Rosaura. Sì sì, fate prestino. Che rabbia avrà la signora Beatrice. Eh, ora non potrà farmi la padrona addosso.
Pantalone. (Esce confuso, e guarda e riguarda dentro e fuori, e osserva bene la chiave.)
Rosaura. (Mi par confuso, che sarà mai?) (da sè) E bene, signor padre, che fa il signor Florindo?
Pantalone. Eh sì, adesso adesso. torna in camera)
Rosaura. Io non capisco questa sua confusione. Voglio farmi animo; voglio andarvi anch’io. Che sarà mai? Finalmente è mio sposo. (vuol entrare; Pantalone esce e la trattiene)
Pantalone. Dove andeu, sfazzada?
Rosaura. Non mi dite nulla... Andavo a vedere io...
Pantalone. No abbiè ardir d’intrar in quella camera. Sior Florindo no xe gnancora vostro mario.
Rosaura. Ma almeno ditemi che cosa fa? È egli nel letto?
Pantalone. Siora sì, el xe in letto; ghe dol un poco la testa e el vol dormir. Andè in te la vostra camera: ànemo.
Rosaura. Siete in collera?
Pantalone. Anemo, ubbidì, se no volè che vaga in collera.
Rosaura. Subito, eccomi, v’obbedisco. Il ciel mi guardi di disgustarvi! (Ah, che io lascio gli occhi su quella porta, ed il cuore non si parte da quella camera). (da sè, ed entra nella sua stanza)
SCENA VI.
Pantalone solo.
Come! anca Florindo me tradisse? Furbazzo, indegno; cussì el me manca de fede? El me domanda la fia, e pò el scampah per no sposarla? Ma come halo fatto a scampar de camera? La porta gera serada. Per de drento no se averzei; e se s’averzisse, dopo no se puol serrar senza chiave. Oh poveretto mi! adesso scomenzo a tremar: la mia reputazion scemenza a pericolar. Ma gnente, forti, coraggio; troverò sior Florindo, lo cercherò mi, lo farò cercar da Brighella, e un poco colle bone, e un poco colle cattive, l’obbligherò a mantegnir la parola. Vaga la casa e i copij, ma che se salva la reputazion. (parte, lasciando aperta la porta)
SCENA VII.
Rosaura sola, poi Arlecchino6.
Rosaura. Mio padre se n’è andato, ed io non posso a meno di non tornare in questa sala. Oh, se potessi entrar in quella camera, quanto sarei contenta! Ma la modestia non lo permette. Eppure, chi sa! forse il mio Florindo mi brama e mi sospira, ed a me non conviene consolarlo per ora.
Arlecchino. Siora Rosaura, co le lagrime ai occhi me rallegro del vostro matrimonio.
Rosaura. Lo sai ancora tu che sono sposa, eh?
Arlecchino. Mo andè là, che avì fatt’una gran bestialità!
Rosaura. Per che causa ho fatto male?
Arlecchino. Se avevi pazienza, gh’era per vu un partido molt meio de questo.
Rosaura. Qual era questo miglior partito?
Arlecchino. V’averave sposada mi.
Rosaura. Pazzo che sei! non lasci mai le tue scioccherie.
Arlecchino. Coss’è ste scioccherie? Digh’da bon, e non burlo.
Rosaura. Orsù, se mi vuoi bene, fammi un piacere. Entra lì nella camera, dove sta il signor Florindo nel letto, e fagli per me un’ambasciata.
Arlecchino. Per farve veder ch’a ve vui ben, lo farò: za per far ambassade son fatt a posta.
Rosaura. Digli che mando a vedere come sta, e desidero di vederlo.
Arlecchino. Gnora sì. entra nella camera, dove era Florindo)
Rosaura. Almeno mi facesse dire che entrassi; dicendolo egli, non farei male.
Arlecchino. Esce senza parlare.)
Rosaura. E bene, Arlecchino, che t’ha detto il signor Florindo?
Arlecchino. Niente affatto.
Rosaura. Ma sta bene?
Arlecchino. Credo che nol staga nè ben, nè mal.
Rosaura. Ma gli hai fatta l’ambasciata?
Arlecchino. Gnora sì.
Rosaura. Ed egli che t’ha detto?
Arlecchino. Niente affatto.
Rosaura. Va là, torna e dimandagli se gli duole il capo.
Arlecchino. Gnora sì. (va, poi torna e dice) La testa no la ghe dol.
Rosaura. Digli dunque perchè non si leva.
Arlecchino. Gnora sì. (va, poi torna e dice) L’è za levà.
Rosaura. Digli perchè non viene a vedermi.
Arlecchino. Gnora sì. (va, poi torna e dice) El ghe vede poco.
Rosaura. Caro Arlecchino, digli che, se mi vuol bene, si lasci da me vedere.
Arlecchino. Gnora sì. (va, poi torna e dice) Adesso el vien.
Rosaura. Digli che solleciti, e venga presto.
Arlecchino. Gnora sì. (va, e dice di dentro) El vien, el vien, el se veste, e subito el vien.
Rosaura. Oh me felice! Sento che il core mi balza in petto dall’allegrezza. Arlecchino, viene o non viene?
Arlecchino. (Dice) Eccolo. (e sì vede alzar la portiera)
Rosaura. Ecco il mio caro bene.
Arlecchino. (Esce vestito con giubba e parrucca, e fa delle riverenze a Rosaura)
Rosaura. Eh scimunito, indiscreto! Che7 fai cogli abiti di Ottavio mio fratello? Il signor Florindo dov’è?
Arlecchino. Patrona cara, cerchelo vu, perchè a mi no me dà l’anemo de trovarlo. Ma in mancanza soa, son qua mi e m’esibiss mi.
Rosaura. Come! non vi è Florindo?
Arlecchino. Gnora no.
Rosaura. Eh! tu m’inganni.
Arlecchino. Nol gh’è, in conscienza mia.
Rosaura. Non posso più; modestia, abbi pazienza. (entra in camera di Florindo)
Arlecchino. Lu no gh’è certo. L’è andà via, el l’ha impiantada. Chi sa che no la me toga mi? (Rosaura esce)
Rosaura. Ah me infelice! ah me meschina! ah Florindo traditore! ah barbaro! ah inumano! Mi ha lasciata, mi ha tradita, se n’è fuggito.
Arlecchino. No ve desperè, son qua mi.
Rosaura. Ho ben veduto il mio povero padre mesto e confuso. Siamo assassinati. Ah Florindo crudele, queste sono le promesse? son questi i giuramenti? Ahimè! mi sento morire. (piange)
Arlecchino. Siora padroncina, no pianzì, che me fè pianzer anca mi.
Rosaura. Mi manca il respiro, mi si oscura la luce, mi sento la morte nel seno; ma giacchè devo morire, voglio spirare almeno su quel medesimo letto, su cui quel disleale ha riposato la scorsa notte.
Arlecchino. Eh, no fè sto sproposito.
Rosaura. Sì, voglio morire, e se non basta ad uccidermi il dolore, mi darò la morte colle mie mani, (entra in camera come sopra)
Arlecchino. Uh uh, che smanie, che desperazion! (osserva alla porta) La s’ha buttà sul letto, la pianze, la se despera. L’è cussì desperada, no ghe ne vol saver alter, e za che so cussì ben vestido, vôi andar a veder se trovo la me fortuna. Le donne basta che le veda un bell’abit, subit le se innamora. Basta che i abbia el formai sulla velada, se in ca8 no gh’è pan, non importa. (parte)
SCENA VIII.
Florindo e Brighella.
Brighella. E un omo della so sorte se lassa far paura da una donna?
Florindo. Ma che dovevo io fare? Beatrice è la padrona di casa, mi ha scacciato come un briccone, ed io doveva restarmene così maltrattato?
Brighella. Me maravegio! el patron l’è el sior Pantalon. El m’ha dito che se la trovo, la conduga in casa, e el vol in tutti i modi che se concluda sto matrimonio.
Florindo. E questo è quello che io desidero.
Brighella. Donca la torna in te la so camera. L’aspetta el sior Pantalon. No la se lassa veder da siora Beatrice, e a momenti tutto sarà accomoda.
Florindo. Sì, Brighella, farò tutto per ottenere Rosaura. In quella camera attenderò il signor Pantalone.
Brighella. La vaga presto, che vien siora Beatrice.
Florindo. Vado subito. (entra nella camera, dov’è Rosaura)
Brighella. Vardè a che segno arriva la petulanza de una mugier cattiva! No la varda, per i so caprici, a precipitar la reputazion della casa.
SCENA IX.
Beatrice e Brighella.
Beatrice. Ecco qui il bel soggettino! Questo è il consigliere intimo del signor Pantalone; questo è il nostro direttore, il nostro maestro di casa, il nostro9 padrone.
Brighella. No so che motivo l’abbia de parlar con mi co sti sentimenti, nè de darme sti titoli e sti rimproveri. Son servitor de casa, servo tutti con fedeltà, e in quarant’anni che servo el sior Pantalon, non ho mai avù da lu una parola storta; mi a ela ghe porto tutto el respetto, ma non posso soffrir de sentirme caricar di titoli che no merito, e esser messo alla berlina senza rason.
Beatrice. Sentite come alza la voce codesto temerario!
Brighella. Anca temerario la me dise? Siora Beatrice, ghe porto respetto perchè la xe mugier del mio patron; da resto, se no considerasse altro che la so nascita, ghe responderia de trionfok.
Beatrice. Ah petulante, arrogante, sfacciato; non so chi mi tenga, che non ti dia qualche cosa nel viso.
Brighella. La ghe penserà ben a farlo, perchè pò, sala, no varderò de precipitarme.
SCENA X.
Pantalone e detti. Florindo e Rosaura di quando
in quando si fanno veder dietro la portiera.
Pantalone. Coss’è? Coss’è stà? Cossa xe sto sussuro?
Beatrice. Ecco lì, il vostro dilettissimo servitore, la vostra spia, il vostro mezzano, alza la voce e alza le mani, e mi perde il rispetto; ed io ho da soffrire quest’oltraggio? E voi comportate che un servitoraccio maltratti vostra moglie? Oh cielo, a che stato sono ridotta! piange)
Brighella. L’amigo l’è... (sotto voce a Pantalone, che non gli bada)
Pantalone. Come! Brighella ha abuo tanto ardir de perder el respetto a mia mugier? Un servitor ha la temeritae de cambiar10 parole colla so patrona?
Brighella. Ma bisogna che la sappia...
Pantalone. Tasi, impertinente, asenazzo: per qual se sia rason, per qual se sia strapazzo che la te avesse fatto, no ti dovevi mai azardarte de alzar la ose, e de rebecartel, come se no ghe fusse differenza da ela a ti.
Brighella. E aveva da soffrir, senza parlar?... (L’amigo l’è drento... ) a Pantalone)
Pantalone. Sior sì, avevi da soffrir. Chi magna el pan dei altri, ha da soffrir: e quando no se vol, o no se pol soffrir, se domanda licenza, e se va a far i fatti soi, ma no se responde, no se fa el bell’umor.
Brighella. La senta, ghe digo che...
Pantalone. Finalmente la xe mia mugier, e vogio che la sia respettada quanto mi, e più de mi. E vu, sier tocco de petulante, andè subito via de sta casa.
Brighella. Come! un servitor della mia sorte, che per quarant’anni l’ha servida con tanta fedeltà...
Pantalone. Se m’ave servio con fedeltà, ave fatto el debito vostro, e mi v’ho paga pontualmente. E se ve resto qualcossa de salario, faremo i conti, e ve salderò. Intanto tolè sti venticinque ducati a conto, e andè a far i fatti vostri. gli dà una borsa)
Brighella. La prego de compatimento...
Pantalone. No gh’è compatimento che tegna. Andè via subito. Tolè sti bezzi, o ve li trago in tel muso.
Brighella. Ben! Co la vol cussì, cussì sia: tiogo i venticinque ducati, e me la batto. Pazienza! (Questo l’è un castigo che no me dispiase: e intanto i amici i se diverte a quattr’occhi). (da sè, e parte)
SCENA XI.
Pantalone e Beatrice.
Beatrice. (Gran prodigio che mio marito abbia cacciato di casa Brighella, per amor mio!) da sè)
Pantalone. Vedeu, fìa mia, come se fa a castigar i servitori, che no gh’ha respetto per i so patroni? Imparè; perchè ve vogio ben, perchè fazzo stima de vu, v’ho dà sta sodisfazion. Doveressi mo adesso anca vu far l’istesso verso de mi, e licenziar de sta casa Colombina e Arlecchin, che con tanta temerità i tratta co mi, come se fusse el gastaldom, e no i me considera per quel che son.
Beatrice. Quanto a questo poi, Colombina e Arlecchino fanno il mio servizio; a voi non so che abbiano perduto il rispetto, e non mi sento di licenziarli.
Pantalone. Benissimo; imparerò a mie spese. Un’altra volta me saverò regolar. Ma Colombina e Arlecchin...
Beatrice. Ma Colombina e Arlecchino ci staranno a vostro dispetto. Già v’eravate ingegnato di fìngere la malattia della gastalda per far partir Colombina, ma si è scoperto il vero, e siete restato deluso.
Pantalone. Fia mia, no me vogio scaldar el sangue. Questo xe un negozio, del qual ghe ne parleremo a so tempo.
Beatrice. Oh via, mutiamo discorso. Mi rallegro, signor Pantalone, che avete fatta sposa la vostra figliuola.
Pantalone. (No la sa gnente che l’amigo se l’ha battua). (da sè) Cossa voleu far? Xe meggio cussì. L’anderà fora de casa, e vu sarè libera de sto intrigo.
Beatrice. Avete fatti gli abiti a questa sposa? (ridendo)
Pantalone. Ho ordinato el bisogno per far le cosse pulito.
Beatrice. E quando seguiranno questi sponsali?
Pantalone. Oh presto, presto.
Beatrice. Quanto mi vien da ridere!
Pantalone. Perchè ve vien da rider? (Stè a veder che la sa tutto). (da sè)
Beatrice. E si fa un matrimonio in casa, senza che io ne sappia nulla? Bravo, così mi piace.
Pantalone. L’occasion ha portà cussì. Ringraziè quella desgraziada della vostra cameriera, e preghè el cielo che la se fenissa cussì.
Beatrice. E vi credete che questo bel matrimonio debba seguire?
Pantalone. Lo credo seguro.
Beatrice. Quanto v’ingannate! Andate, andate a correr dietro al signor sposo. Se vostra figliuola non ha altra marito, vuol invecchiare fanciulla.
Pantalone. Donca savè la baronada che el m’ha fatto, e ve ne ridè?
Beatrice. Lo so e me ne rido, perchè io sono quella che ha fatto partire il signor Florindo; ne avrà più ardire di tornarci, nè s’azzarderà più di trattare un tal matrimonio.
Pantalone. Beatrice, qua scomenzè a toccarme dove che me diol. No cerchè altro che de perseguitar quella povera putta, e par che abbiè ambizion de strapazzar l’onor de sta povera casa. Me maravegio però de sior Florindo, che ascoltando vu più de mi, tradissa in sta maniera una putta innocente, e un omo d’onor come che son11 mi.
Beatrice. Eh, questi son scherzi della gioventù.
Pantalone. Queste le xe baronae, che merita una schioppetada. Sior Florindo ha da sposar mia fia, o el se farà cognosser per un omo infame.
SCENA XII.
Florindo e Rosaura escon di camera, e detti.
Florindo. Florindo è uomo onorato, ed è di Rosaura consorte.
Pantalone. Come!
Beatrice. Che vedo?
Pantalone. Sior Florindo, vu sè mario de mia fia?
Florindo. Sì signore, ella ne ha avuta la fede.
Pantalone. Fia mia, ti xe novizza de sior Florindo? a Rosaura)
Rosaura. Signor sì, l’abbiamo aggiustata fra di noi.
Pantalone. Siora Beatrice, cossa diseu? No se pol far un matrimonio senza de vu. Sior Florindo no averà più ardir de metter i pì12 in sta casa, (burlandosi di Beatrice) Se Rosaura non sposa altri che Florindo, la se vol invecchiar fanciulla. E questi sono scherzi della gioventù. Ah, ah, ah, quanto me vien da rider!
Beatrice. (La rabbia mi divora. Sento che la bile mi affoga. Voglio partire, per non dargli piacere colle mie smanie). (da sè) Sempre non riderete. Se non mi vendico, mi fulmini il cielo, mi strascini un demone nell’inferno. (parte)
SCENA XIII.
Pantalone, Rosaura e Florindo.
Pantalone. El ciel ghe fazza la grazia. Sior Florindo, coss’è sta metamorfosi? Ora mi vedete, ora non mi vedete?
Florindo. Già dalla signora Beatrice avete inteso come sono stato costretto ad uscire. Brighella poi mi ha illuminato e mi ha qui ricondotto. Per celarmi da vostra moglie, rientrai in questa stanza, ove piangente e quasi morta trovai la mia cara Rosaura. La consolai colla mia presenza, la presi per la mano, e stavamo sotto quella portiera ad aspettare il momento fortunato per presentarci a voi, senza l’odioso aspetto della signora Beatrice.
Rosaura. Perdonatemi, se ho trasgredito il vostro comando. Un eccesso di amore e di dolore mi ha trasportata in quella camera, ove avrei terminato di vivere, se non giungeva Florindo.
Pantalone. Orsù, no parlemo altro, se mario e mugier. Sior Florindo, no la creda che me vogia preveder de sta congiuntura per maridar mia fia senza dota, come fa tanti pari e tante mare al dì d’ancuon: gh’ho destinà sie mille ducati, e questa xe la so carta de dota. Mille ghe ne darò alla man, per far qualche spesa che ghe vol per13 el sposalizio, e cinque mille ghe ne darò, quando la m’averà dito dove la li vuol segurar.
Florindo. Questo è tutto effetto della vostra bontà. Io non lo merito e non lo cerco.
Pantalone. Questo xe un atto de giustizia. Mia fia no xe bastarda, e xe dover che la gh’abbia la so dota.
Rosaura. Signor padre, se me lo permettete, voglio condurre il signor Florindo a vedere la mia cagnolina che ha partorito l’altro giorno tre canini14 che paion dipinti.
Pantalone. Sì sì, mènelo a veder quel che ti vol: faghe veder tutto, che l’è parono.
Florindo. Dunque con sua licenza, signor suocero.
Pantalone. Sior zenero, la se comoda.
Florindo. Ah, che di me non v’è uomo più contento nel mondo! (parte)
Rosaura. (Voglio più bene a Florindo, che non voglio a mio padre e ancor più che non voleva a mia madre. Poverino! mi fa tante carezze!) (da sè, e parte)
SCENA XIV.
Pantalone, poi Ottavio.
Pantalone. A veder sti do novizzi, me se resvegia15 alla memoria quei tempi antichi16, quando anca mi co mia mugier Pandora... Quella la giera una donna de garbo. Sia maledìo quando ho tiolto custia. Ma co l’è fatta, bisogna lodarla.
Ottavio. (Pensoso passa davanti a ’Pantalone, si cava il cappello, e non parla.)
Pantalone. (La luna ha fatto el tondo). (da sè) Com’ela, sior fio? Sempre inmusonàp, sempre colle cegie revoltaeq? Sè un omo molto bisbetico.
Ottavio. Mah, bisogna esserlo per forza. Un uomo che non ha il suo bisogno, si vergogna di comparire fra gli altri.
Pantalone. No gh’avè el vostro bisogno? cossa ve manca? Trenta ducati al mese da buttar via, no i ve basta?
Ottavio. Non mi bastano, signor no, non mi bastano.
Pantalone. Via via, no me magnè se no i ve basta, cresceremo la dosa; ve ne darò dei altri. (Vôi chiaparlo colle bone), da sè)
Ottavio. Cospetto! cospetto! Come ho da far io nell’impegno in cui sono?
Pantalone. In che impegno seu? Via, se la xe cossa lecita, e che se possa, ve agiuterò mi.
Ottavio. Ho bisogno di cento doppie. Sono in impegno di prestarle ad un amico, e non posso far di meno.
Pantalone. O amigo, o amiga, o imprestar, o donar, le cento doppie ve le darò mi.
Ottavio. Eh, mi burlate voi.
Pantalone. Tanto xe vero che no ve burlo, quanto che in sto momento ve posso consolar. In sta borsa no gh’è cento doppie, ma ghe xe mille ducati, che ho parecchiai per dar a sior Florindo, mario de mia fia e vostro cugnà, a conto de dota; questi ve li dago a vu; servive delle cento doppie per supplir all’impegno, e del resto faremo i conti colle vostre mesate. Seu contento?
Ottavio. Contentissimo. (prende la borsa) (Che novità è questa? Mio padre vuol morire). da sè)
Pantalone. Cussì, come che te diseva, fio mio, ho manda to sorella co sior Fìorindo, cittadin de bona casa e de mediocre fortuna. Ghe dago sie mille ducati; mille subito, e cinque mille col me li averà segurai. Per i cinque mille bisogna che li prometta, e bisogna che anca ti ti te sottoscrivi, acciò, in caso della mia morte, no i possa dubitar che ghe manca la dota.
Ottavio. Ma io sono figlio di famiglia, come posso obbligarmi? Potreste emanciparmi, e allora...
Pantalone. Siben che son marcante, ghe ne so un puoco anca de legge. Quando el fio de famegia se obbliga alla presenza del pare, s’intende che el pare ghe daga facoltà de obligarse, e l’obligazion sussiste come se el fusse emancipà.
Ottavio. Farò come volete.
Pantalone. Olà. Da scriver. (servi portano tavolino, e da scrivere) Via,
sottoscrivi ste do carte de dota, tutte do compagne; una per sior Florindo, e una per nu.
Ottavio. (Non vorrei mi facesse qualche cavalletta!) (da sè) Ma lasciate prima ch’io la legga, se l’ho da sottoscrivere...
Pantalone. Siben, gh’ave rason. Lezè pur; soddisfeve. (gli dà il contratto con Florindo)
Ottavio. Legge piano.)
Pantalone. (Eh cagadonao! giusto adesso te la ficco). (da sè)
Ottavio. Sta bene, ecco ch’io mi sottoscrivo: Io, Ottavio Bisognosi affermo e prometto quanto sopra, ed in fede mano propria.
Pantalone. Fè l’istesso in quest’altra compagna. (gli dà un altro foglio)
Ottavio. Benissimo: lo, Ottavio Bisognosi, ecc. (Fa come sopra. Frattanto che Ottavio si sottoscrive. Pantalone colla mano opera ch’egli non legga.)
Pantalone. (Oh, adesso son contento). (da sè) Bisognerà pò che ti pensi a maridarte anca ti.
Ottavio. Eh, per me v’è tempo. Parliamo d’altro. Signor padre, se vi contentate, vi è la signora Diana che vorrebbe dirvi una parola. Se vi pare di accordarle questa grazia, ora la fo venire. (Giacchè la luna è buona, vo’ tentar la mia sorte). (da sè)
Pantalone. Perchè no voressi che l’ascoltasse? Songio qualche prencipe da no me degnar? Anzi la me fa onor: diseghe pur che la vegna.
Ottavio. Vado dunque a introdurla... (vuol partire)
Pantalone. Oe disè, saveu gnente vu cossa che la vogia?
Ottavio. Lo so e non lo so, ma bensì posso dirvi, che se in questo che lei richiederà, vi è bisogno del mio assenso, di questo ne sarete sicuro. (La signora Diana, che ha dello spirito, otterrà forse più di quello potrei ottenere io, se parlassi. E poi ella è donna, e da mio padre esigerà più riguardo). (da sè, e parte)
SCENA XV.
Pantalone, poi Diana.
Pantalone. Sta carta, sta sottoscrizion carpida, so anca mi che no la pol impedir che mio fio se marida con chi el vol lu, ma spero che la servirà per metter delle disunion tra Ottavio e siora Diana; e a mi per adesso me basta cussì. Xe ben vero però che per aver el mio intento, sta volta no me son servio della prudenza, ma d’un scaltro ripiego, che me fa poco onor. Me vergogno d’averlo fatto, no la xe più da omo prudente, no la xe degna de mi, ma l’amor del pare qualche volta trasporta, e se se trova in certe occasion, dove abbandonandose alla passion, la prudenza non ha tempo de illuminar. No vorave che gnanca l’aria savesse el modo che ho tegnù, per carpir sta sottoscrizion. Me ne servirò con cautela; farò che mio fio no lo diga a nissun, perchè no vorave mai che qualchedun de quelli che me crede omo savio, tolesse in sto fatto esempio da mi, e imparasse a valerse della finzion, la qual in ogni tempo, in ogni occasion, deve esser aborrida, condannada, come l’aborrisso e la condanno anca mi.17
Diana. Signor Pantalone, veramente parrà strano ch’io venga in casa vostra a parlarvi di un affare che doveva essere diversamente trattato; ma la bontà che ieri ho scoperta in voi verso di me, e lo stato in cui presentemente mi trovo, mi obbligano a far questo passo.
Pantalone. Se la m’avesse degna d’un so comando, sarave vegnù fin a casa a servirla; ma za che la s’ha degnà de vegnirme a onorar, la parla pur liberamente, che me farò gloria de ubbidirla, per quanto se estenderà le mie forze.
Diana. Qui bisogna levarsi la maschera e svelare ogni arcano 18. Il signor Ottavio, vostro figliuolo, mostra di essere di me invaghito e mi ha data la fede di sposo. Io non voleva accettare una tale offerta, senza prima assicurarmi del vostro assenso, ed egli mi fa sperare che voi non siate per opporvi alle nostre nozze. L’affare però è delicato, e tuttochè io sia vedova, ciò nonostante non voglio più a lungo tollerare la frequenza delle sue visite, senza una conclusione. Ecco il motivo per cui vi do il presente incomodo; desidero sapere la vostra intenzione sopra di ciò, e alla buona disposizione, che in voi spero di ritrovare, aggiungo le mie preghiere, pel desiderio che tengo di unirmi in parentado con una sì degna e rispettata famiglia.
Pantalone. Siora Diana, ella me fa più onor che no merito, e no me stimerave degno d’aver per niora una zentildonna de tanta stima. Ghe digo ben che mio fio degenera dal so sangue, trattando con ella cussì mal, e tiolendose spasso d’una persona che merita tutta la venerazion e el respetto.
Diana. Come! si prende spasso di me? Con che fondamento lo dite?
Pantalone. La perdona l’interrogazion impropria: sala lezerr?
Diana. So leggere al certo.
Pantalone. Conossela19 el carattere de mio fio?
Diana. Lo conosco.
Pantalone. Donca la leza; giusto ancuos Ottavio ha sottoscritto el contratto colla fia de sior Pancrazio Aretusi. La varda: Ottavio Bisognosi prometto sposar la signora Eleonora Aretusi... e per dote e nome di dote ducati sessanta mille. (legge qua e là, facendo accompagnar Diana coll’occhio.)
Diana. Dunque Ottavio così mi tradisce? mi schernisce così?
Pantalone. Me despiase infinitamente; ma no ghe xe più remedio. La fazza che l’avvertimento ghe serva per l’avvegnir. Coi fioi de famegia no la se ne impazza. Lustrissima, possio servirla in altro? (La medesina ha fatto un’ottima operazion). (da sè)
Diana. Ah per amor del cielo, signor Pantalone...
Pantalone. Con so bona grazia, bisogna che vaga in mezàt. (Inghioti sta pillola20, e impara a far zoso la zoventù). (da sè, e parte)
SCENA XVI.
Diana, poi Ottavio.
Diana. Chi intese mai più barbaro tradimento? E lo scellerato, per maggior mio scorno, mi manda a farmi deridere da suo padre?
Ottavio. E bene, come andò la faccenda?
Diana. Come andò, eh? Come per l’appunto desiderava la tua perfidia. Sarai contento, or che mi hai svergognata in faccia del tuo medesimo genitore.
Ottavio. Come? Che dite?
Diana. Ma perchè non dirmelo tu, scellerato? Perchè non svelarmi colla tua bocca il segreto che avevi nel cuore? Perchè farmelo saper da tuo padre?
Ottavio. Ma io rimango attonito. Che v’ha detto mio padre?
Diana. Va, sposa la signora Eleonora; prenditi la pingue dote di sessanta mila ducati, ma non ti lusingare ch’io lasciar voglia invendicati i miei torti.
Ottavio. Signora Diana, ve l’ho detto; mio padre è un vecchio furbo; vi avrà dato ad intendere lucciole per lanterne.
Diana. Ancor fìngi? Ancor mi schernisci? Lo21 conosco il tuo carattere; pur troppo hai tu sottoscritta in un foglio la tua fortuna e la mia morte.
Ottavio. Ma di che foglio parlate? Si può sapere?
Diana. Lo devo ripetere per mio rossore e per tuo contento; lessi il contratto nuziale da te sottoscritto colla signora Eleonora Aretusi.
Ottavio. Dov’è questo contratto?
Diana. Tuo padre l’aveva e l’ha tuttavia nelle mani.
Ottavio. E quando l’ho io sottoscritto?
Diana. Oggi, barbaro, oggi tu l’hai firmato.
Ottavio. Eh, che sbagliate! Poc’anzi ho sottoscritto il contratto nuziale di mia sorella col signor Florindo.
Diana. Inventarmi delle favole! so leggere, e conosco il tuo carattere. Dice la scrittura: Ottavio22 Bisognosi affermo e prometto quanto sopra, ed in fede mano propria.
Ottavio. Ah, mio padre mi ha tradito; quel foglio, ch’io credei simile all’altro... Io non lo lessi... me ne fidai... Ah, dove arriva la malizia d’un uomo! Diana mia, siamo entrambi traditi: io sono innocente. Mio padre, prevalendosi della mia buona fede, ha carpita fraudolentemente la mia sottoscrizione.
Diana. Eh, dà ad intendere simili scioccherie a de’ bambini, non alle donne mie pari. Sei un bugiardo, sei un ingannatore.
Ottavio. Ma credetemi...
Diana. No, che non ti voglio più credere. Mi hai ingannata abbastanza. Ma avrò ancor io coraggio bastante per dimenticarmi23 di te, se tu l’avesti d’abbandonarmi.
Ottavio. Sentite, Diana... Vi giuro...
Diana. Taci, spergiuro, non irritar lo sdegno del cielo. Ti lascio per non mai24 più rivederti. (parte)
SCENA XVII.
Ottavio, poi Beatrice.
Ottavio. Fermatevi... va per seguirla. Beatrice lo chiama)
Beatrice. Signor Ottavio, trattenetevi, non vi lasciate trasportare dal dolore. Già intesi il tutto, e dico che vostro padre è una fiera crudele.
Ottavio. Signora Beatrice, mio padre vuol la mia morte.
Beatrice. Sarebbe meglio ad esso il morire, quel vecchio pazzo disumanato.
Ottavio. Crepasse pure n questo momento.
Beatrice. Sta a voi il rendervi felice.
Ottavio. Come?
Beatrice. Accelerando la morte a quel barbaro.
Ottavio. Ah! che mai dite? La natura aborrisce quest’attentato.
Beatrice. In esso però la natura non parla a favor del figliuolo e della moglie. Egli ne insegna a disumanarci, mentre colla sua crudeltà toglie la vita ad entrambi.
Ottavio. Pur troppo egli ci vuol tutti morti; e non veggo altro rimedio per noi, che prevenirlo. Ma non avrei cuore di farlo.
Beatrice. L’avrei ben io questo cuore; mi basterebbe il vostro soccorso. (È giunta a segno la mia passione per Lelio, il mio odio per quel vecchio insensato, che m’impedise ogni mia felicità; son già risoluta ad ogni più atroce misfatto). (tra sè)
Ottavio. (Dopo aver passeggiato un poco, pensando) (Ah, conviene risolversi. La mia disperazione è all’estremo). (tra sè) E come potremo eseguir le nostre vendette? (a Beatrice)
Beatrice. Provvedetemi d’un buon veleno, e a me lasciate la cura.
Ottavio. Ah signora Beatrice, finalmente egli è a me padre, a voi marito.
Beatrice. (È già fatto il gran passo; mi son scoperta, e se non lo riduco all’effetto, io sono perduta). (tra sè) Non merita questi dolci nomi un barbaro padre, un marito crudele. Egli vuol l’eccidio di tutti noi, e noi con le mani alla cintola aspetteremo ch’egli trionfi colla nostra morte? Alla fine ha vissuto abbastanza; se gli possono25 accorciare pochi momenti di vita, e noi vi guadagniamo la nostra quiete, i nostri contenti. Io mi libero da una così tormentosa catena; e voi, divenendo l’assoluto padron di voi stesso e di tutte le ricchezze di quell’avarissimo vecchio, potete sposarvi la signora Diana e godere seco felici i giorni tutti di vostra vita. Altrimenti vi converrà abbandonarla, sposar un’altra, e veder la povera Diana precipitarsi e morire dalla disperazione: avrete voi questo cuore?
Ottavio. A questa orribile idea non posso resistere. Diana parla al mio cuore con maggior forza del padre. Tutto si faccia per salvar la sua vita e il mio amore. Attendetemi, che col veleno tra pochi momenti ritorno. (parte)
Beatrice. Ed io non tarderò a porlo in opera. Privarmi delle mie conversazioni? Minacciar di serrarmi tra quattro mura? Proibire a Lelio che più non ponga piede in mia casa? Maritar Rosaura a mio dispetto, beffeggiarmi, ridersi, burlarsi di me? Ho giurato vendetta, e la eseguirò... Ma qual vendetta ho io determinato di fare? Oimè! la più orribile, la più detestabile che dar si possa. Avvelenare il marito? Può darsi azione più barbara, più nera, più abbominevole? Ah! che tremo in pensarlo. Tremo per il rimorso, per i pericoli, per il timore; scoperto che fosse il mio tradimento, sarebbe lo stato mio peggiore molto a quello che ora par che mi aggravi. Sarei in odio del cielo, in odio del mondo... Ma sono in impegno. Ah maladetto impegno! Fremo di sdegno, e mi sento ardere per la vergogna. Che farò? Che risolverò? Non saprei. Voglia il cielo che Pantalone non mi provochi d’avvantaggio.26 (parte)
SCENA XVIII.
Cortile in casa di Pantalone.
Colombina, poi Arlecchino.
Colombina. Eppure quel vecchiaccio del mio padrone mi aveva gabbata, se la padrona non mi faceva aprir gli occhi. Mia madre sta molto bene, ed io era una pazza a lasciarmi levar di casa con sì bel pretesto; è ben vero però che il vecchio non mi può vedere e non mi lascerà mai aver pace, onde se mi viene occasione di maritarmi, lo voglio fare, e allora uscirò di casa con riputazione. Vi sarebbe Arlecchino, che non mi dispiace: è un poco sciocco, ma per la moglie non è male che il marito sia sciocco. Eccolo appunto, ed è vestito cogli abiti del signor Ottavio; qualcuna delle sue solite galanterie. E come sta bene!
Arlecchino. Largo, largo al fior della nobiltà.
Colombina. Buon giorno. Arlecchino.
Arlecchino. Addio, bella zitella. (con sussiego)
Colombina. Che vuol dire che stai così sussiegato meco?
Arlecchino. La mia nobiltà27 non s’abbassa colle femmine cucinanti.
Colombina. Che! sei diventato nobile?
Arlecchino. Non vedi l’abito?
Colombina. L’abito non fa il nobile.
Arlecchino. E pur al dì d’ozi28 basta un bell’abit per aver del lustrissimo.
Colombina. Hai ragione. Dunque di me non ti degni?
Arlecchino. No certo.
Colombina. E pur so che tu mi volevi bene.
Arlecchino. E te ne voria ancora, se non fusse incavalierà.
Colombina. E se io fossi indamata, mi vorresti allora bene?
Arlecchino. Siguro; te amaria quanto la pupilla degli occhi miei.
Colombina. Illustrissimo signore, si contenti d’aspettare un pochino, pochino. (Voglio secondar il di lui umore). (da sè)
Arlecchino. Andate, andate, bella ragazza, che noi vi aspettiamo. (Fino che torna Colombina, Arlecchino fa delle buffonerie, affettando l’aria nobile, facendo ricetenze e pavoneggiandosi; poi torna Colombina, con tabarrino e cuffia da dama.)
Colombina. Cavaliere, a voi m’inchino.
Arlecchino. Bella dama, a voi mi prostro.
Colombina. Un cavaller non istà bene senza la dama.
Arlecchino. Nè la dama sta bene senza del cavaliere.
Colombina. Dunque se vi compiacete...
Arlecchino. Dunque se vi degnate...
Colombina. Io v’offro la mia destra.
Arlecchino. Ed io la mia sinistra.
SCENA XIX.
Pantalone in disparte, che osserva, e detti.
Colombina. E con la mano vi consacro il mio cuore.
Arlecchino. E con la mia vi dono la coratella.
Colombina. Col laccio d’Imeneo le nostre nobiltà si congiungano.
Arlecchino. Per far razza di nobili birbantelli.
Pantalone. (Fa cenno da sè che vuol burlarli, e parte.)
Colombina. Ah, ch’io peno d’amore!
Arlecchino. Ah, ch’io spirito dalla fame!
Colombina. Venga nel mio feudo, che potrà saziarsi.
Arlecchino. E qual è il vostro feudo?
Colombina. La cucina.
Arlecchino. Questo è un marchesato, che val più d’un regno.
Colombina. Colà troverà i suoi sudditi.
Arlecchino. E chi sono li sudditi?
Colombina. Alesso, fritto, ragù, arrosto e stufato.
Arlecchino. Io mi mangio in un giorno il marchesato.
Pantalone. (Torna con quattro uomini, ai quali ordina con cenni ciò che devono fare, e resta in disparte. I quattro uomini s’avanzano; due prendono in mezzo Colombina, e due Arlecchino. Essi vorrebbero parlare, ma gli uomini li minacciano e li fanno star cheti. Levano loro29 gli abiti da cavaliere e dama sempre senza parlare, e Pantalone se ne ride; poi mettono in capo a Colombina un zendale, e addosso ad Arlecchino uno straccio di ferraiuolo; danno loro mano uno per parte, e li conducono via, sempre alla mutola, Colombina da una parte e Arlecchino dall’altra.)
Colombina. Addio, cavaliere. (verso Arlecchino, partendo)
Arlecchino. Addio, dama. (nella stessa maniera, e sospirando parte)
Pantalone. Serèli ben in quei magazzeni fina a stassera, che pò li manderemo dove che i ha d’andar.
SCENA XX.
Pantalone solo.
Furbazzi! se pol far pezo30? A poco alla volta loro giera i paroni, mi31 el servitor. Che i staga ancuo in caponera; doman i manderò in t’un altro paese. A poco alla volta poi esser che me riessa de dar regola a sta nave, combattua dalla borrasca de tante contrarietà. Col giudizio, coi ripieghi, coi bezzi e colla prudenza, spero superar le tempeste d’una cattiva mugier, el vento d’un cattivo fio, i scogi d’una cattiva servitù, e arrivando al porto della pase e della quiete, contar con gloria i pericoli, e recordarme con giubilo delle passae desgrazie.
Fine dell’atto secondo.
- Note dell'autore
- ↑ Incocalio, incantato.
- ↑ Cagadonao, disgraziato.
- ↑ Un fallo, che podeva dir quindese. Alludesi per metafora al gioco del pallon grosso, nel quale ogni fallo conta quindeci per gli avversari.
- ↑ Impizzarla, accenderla.
- ↑ Ruccola, erba amara odorosa, che si mangia in insalata, metaforicamente vuol dir mezzana.
- ↑ Schiva, fuggi.
- ↑ Essi ti, sii tu.
- ↑ Scampa, fugge.
- ↑ Averze, apre.
- ↑ Vaga la casa e i copi, vada la casa ed il tetto.
- ↑ Responder de trionfo. Alludesi al gioco denominato Trionfo, vuol dire rispondere nella stessa maniera: dar una carta del medesimo colore.
- ↑ Rebecarte, rivoltarti.
- ↑ Gastaldo, custode della casa di campagna.
- ↑ Al dì d’ancuo, al di d’oggi.
- ↑ Paron, patrone.
- ↑ Inmusonà, con faccia brusca.
- ↑ Colle cegie revoltae, accigliato.
- ↑ Sala lezer? sa leggere?
- ↑ Ancuo, oggi.
- ↑ Mezà, dicesi ad una stanza che serve a uso di studio o di negozio.
- Note dell'editore
- ↑ Bettin., Sav., Zatta: il far.
- ↑ Bettin., Sav., Zatta: distruggitrice.
- ↑ Bettin., Sav., Zatta: non abbandonarmi.
- ↑ Bettin., Sav., Zatta: ficcata.
- ↑ Bett., Sav., Zatta: che crepi.
- ↑ Bettin. stampa qui e dopo Arlicchino.
- ↑ Zatta: che mai.
- ↑ Casa.
- ↑ Bett., Sav. e Zatta: anzi il nostro.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: scambiar.
- ↑ Bett., Sav. e Zatta: come son.
- ↑ Bett. e Psp.: pii.
- ↑ Zatta: per far.
- ↑ Zatta: cagnini.
- ↑ Pasquali ha: resveglia.
- ↑ Zatta: antighi.
- ↑ Nelle edd. Bett., Sav. e Zatta, diversamente si legge il discorso di Pantalone: «Pant. Za t’ho capio; ma che la vegna, che la manderò via contenta. Sta carta, sta sottoscrizion carpida, so anca mi che no la pol impedir che mio fio se marida e me minchiona, ma spero che la servirà per metter delle dissension tra Ottavio e siora Diana. E a mi per adesso me basta cussì. El cielo favorisse la mia intenzion, perchè vegnindo sta patrona in casa mia, metto subito in opera il mio disegno.
- ↑ Queste parole sono fra parentesi nell’ed. Bettinelli.
- ↑ Bett., Sav. e Zatt: cognossela.
- ↑ Bettinelli: inghioti sta pirola.
- ↑ Sav. e Zatta: Io.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: Dice la scrittura: Ottavio Bisognosi promette sposare la signora Eleonora Aretusi, e sotto vi è di tua mano: Io, Ottavio ecc.
- ↑ Bettin., Sav., e Zatta; iscordarmi.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: per mai.
- ↑ Bettinelli: ponno.
- ↑ Nelle edd. Bett., Sav. e Zatta, si legge diversamente: «Beatr. Ed io non tarderò a porlo in opera. Scelleratissimo vecchio, tutte l’hai da pagar in un punto. Privarmi delle mie conversazioni, minacciar di serrarmi tra quattro mura, proibir a Lelio che più non metta piè in questa casa? A quel Lelio ch’è l’unico amor mio, senza di cui assolutamente non potrei vivere? Maritar Rosaura a mio dispetto, beffeggiarmi, ridersi, burlarsi di me? Se ne ho giurata vendetta, saprò ben anche eseguirla. Che mi soddisfi, che mi vendichi, e poi mi caschi addosso anche il mondo. Il mio matrimonio, fatto solo per interesse con questo a me sempre odiosissimo vecchio, non potea riuscire che ad un funestissimo fine».
- ↑ Sav. e Zatta: La nobiltà.
- ↑ Bett., Sav. e Zatta: oggi.
- ↑ Bettinelli, Savioli, Zatta: E li levano dattorno.
- ↑ Zatta: de pezo.
- ↑ Bett., Sav. e Zatta: e mi.