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270 ATTO TERZO


qua, lasse che ve abbrazza, che ve strenza al petto, in segno de quella sicurezza che gh’ho del vostro amor, del ben che ve vogio e della speranza de vederve presto fuora de sti pericoli, senza macchia della nostra reputazion. (abbraccia ora l’uno, ora l’altro, piangendo)

Giudice. (Qual naturale eloquenza han mai i Veneziani!) (piano al notaio)

Notaio. (Bisogna far forza per non arrendersi!) (al giudice, come sopra)

Beatrice. Ah mio adorato consorte, eccomi, che pentita...

Pantalone. (La tira un poco lontana dal tribunale, e le parla sotto voce) Zitto, anema mia, zitto, no parlar; questo no xe liogo da scuse e da pentimenti. Se el cielo ve inspira qualche bon sentimento per mi, trattegnilo anca un puoco; a casa podere sfogarve e consolar sto povero vecchio, che ve vol tanto ben.

Beatrice. (Mi sento scoppiar il core). (da sè, rimettendosi)

Ottavio. Ah caro padre, se fui sedotto...

Pantalone. (Fa lo stesso, come ha fatto con Beatrice) Tasi, e no parlar in sto liogo. No scoverzimo i pettolonia senza proposito. No mancherà tempo de sepelir in te le lagreme ogni cattiva memoria. Da ti no vogio altre scuse che ubbidienza e respetto.

Giudice. (Guardate come son tutti inteneriti). (piano al notaio)

Notaio. (Quasi quasi farebbon piangere anche me), (piano al giudice)

Rosaura. (Io resto stordita!) (piano a Florindo)

Florindo. (Vostro padre è un grand’uomo. Noi abbiamo fatto il male, ed egli vi ha rimediato). (a Rosaura, come sopra)

Pantalone. Sior giudice, mancando el corpo del delitto, e mancando ogni presunzion, no credo che la gaverà difficoltà de dichiararli innocenti e liberarli da ste miserie.

Giudice. Signor Florindo, voi, che per asserto zelo della vita di vostro suocero, foste l’accusatore del venefizio, che dite in confronto dell’arringa del signor Pantalone?

Florindo. Dico che troppo facile fui a prestar fede ad una vana

  1. I pettoloni, i mancamenti.