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256 | ATTO TERZO |
Florindo. Me ne dispiace, ma poi non mi pare che una bestia esiga tanto dolore.
Rosaura. Eh, dite bene voi altri uomaccioni, che avete il cuor duro.
Florindo. Ma aveva male? Com’è morta?
Rosaura. Era sana, sanissima. Le ho dato a mangiare di quella pappa, ed è subito morta.
Florindo. Guardate come vien nera: pare avvelenata.
Rosaura. Certo, altro che veleno non può essere stato.
Florindo. Osserviamo questa panatella. Vi è della polvere cristallina. Di dove l’avete presa? (osserva il tondino)
Rosaura. Da quella pentola.
Florindo. Vediamola un poco. Capperi! vedete voi quella spuma? Quello è veleno.
Rosaura. E vi mancò poco non ne mangiasse anco Moschina. Vanne, vanne, cara, che l’odore non ti facesse morire. (manda dentro la cagna vera)
Florindo. E per chi deve servire questo pan cotto?
Rosaura. È solito mangiarlo mio padre.
Florindo. Dov’è il cuoco?
Rosaura. Io non lo so. Questa mattina non si vede.
Florindo. (Qui vi è qualche tradimento). (da sè) Ma chi attende al fuoco, nessuno?
Rosaura. Poco fa vidi la signora Beatrice che vi attendeva, e mi parve ponesse del sale nelle pentole.
Florindo. Buono!
Rosaura. E con essa vi era Ottavio mio fratello.
Florindo. Meglio!
Rosaura. E fra di loro pareva che contendessero.
Florindo. Ah indegni!
Rosaura. E Ottavio gettò una pentola dalla finestra.
Florindo. Ah traditori!
Rosaura. Ma perchè dite loro simili ingiurie?
Florindo. Perchè, eh? Semplice che siete! Beatrice ed Ottavio volevano avvelenare il signor Pantalone, e se quella povera bestia non lo scopriva, vostro padre innanzi sera moriva.