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266 ATTO TERZO

SCENA XVI.

Sala del Giudice, con tavolino con sopra da scrivere, ed un processo, e due sedie.

Il Giudice a sedere, poi il Notaio.

Giudice. Questi rei sono troppo ostinati, non vogliono confessare: e se non riesce al notaio di rinvenire il corpo del delitto, la causa si vuol render difficile. Ma eccolo appunto che viene. (entra il notaio) Ebbene, signor notaio, avete ritrovato il cane morto e la pentola avvelenata?

Notaio. Fu vana ogni mia diligenza; nulla di ciò si è potuto rinvenire. Trovai chiusi in due stanze terrene un servitore ed una serva di Pantalone; credendoli intesi del fatto, li feci arrestare, ma costituiti poi con ogni accuratezza, ed esaminati altresì la signora Rosaura ed il signor Florindo, trovai che Pantalone li aveva fatti colà rinserrare per castigarli della loro insolenza, prima che fosse commesso l’attentato del venefizio di cui si tratta, onde li feci sciogliere e licenziare.

Giudice. Ma senza il corpo del delitto, come verremo in chiaro della verità per procedere contro de’ rei? Voi vedete che non si tratta di un delitto di fatto traseunte, ma permanente.

Notaio. Se V. S. Eccellentissima mi dà licenza, dirò essere necessario di venire al confronto. La signora Rosaura e il signor Florindo protestano che manterranno in faccia a Beatrice ed Ottavio quanto hanno deposto; onde facciamo venir tutti quattro, che forse un tal esperimento gioverà contro la loro ostinazione. Darò io loro alcuni interrogatori, che mi comprometto di farli confessare senza tormenti.

Giudice. Approvo il vostro parere. Così si faccia. Sedete. (notaio siede, suona il campanello)

SCENA XVII.

Bargello e detti.

Bargello. Che comanda V. S. Eccellentissima?

Giudice. Conducete qui Beatrice ed Ottavio, detenuti per venefizio.