Il sigillo d'amore/Piccolina
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PICCOLINA.
In quel tempo — raccontò la mia amica, — io non entravo in cucina che due o tre volte al mese. Ad ogni modo il mio domestico Fedele si teneva sempre pronto, poichè la mia visita alla cucina segnalava un cataclisma. Si teneva pronto, vale a dire stava davanti ai fornelli anche se non cucinava, col grembiale pulito, e tutto intorno ordine perfetto.
Sulla tavola coperta da una tovaglia ricamata verdeggiava, entro un vasetto di terra, una pianticina di capelvenere; i recipienti appesi alle pareti erano in parte misteriosamente avvolti in fogli di carta velina; e la stessa cassetta per le immondezze, nell’angolo dietro l’uscio, col suo bravo coperchio lucidato, pareva un mobile da salotto.
La finestra poi, socchiusa, lasciava intravedere un fresco ciclo turchino di tramontana che faceva dimenticare di essere nel cuore di un grande casamento nel centro di una grande metropoli.
Era un cielo che, come noi, non conosceva il verde delle foreste, eppure richiamava al pensiero un puro orizzonte sopra un bosco di montagna: e il rumore confuso della città intorno accresceva questa illusione.
Del resto io e Fedele non si era romantici, e non c’importava nulla della campagna. Si viveva bene in città, in quel grande appartamento fresco destate e riscaldato d’inverno; ed io anzi preferisco quest’ultima stagione che permette di stare in casa o di uscire, di veder gente o no, secondo il proprio umore.
Di umore molto variabile, in quel tempo, io avevo periodi di sociabilità, e periodi di misantropia. Vedova e senza figli, senza stretti parenti, pienamente libera di me, senza preoccupazioni materiali, a volte sentivo un grande vuoto intorno a me, come se il palazzo dove abitavo fosse crollato lasciando salvo solo il mio appartamento. Uscire non si poteva, restare in casa era pericoloso; in quei giorni ispezionavo la cucina, e anche Fedele sentiva odore di tempesta. Eppure nessuna cattiva parola veniva pronunziata. Io avevo di lui lo stesso terrore ch’egli aveva di me. Sapevo che se io lo rimproveravo in malo modo egli era pronto a dirmi che se ne andava. E questa sola minaccia accresceva il senso di abisso intorno a me: in fondo ero certa che non se ne sarebbe mai andato se io frenavo il mio desiderio di maltrattarlo, ma questo sforzo aumentava il mio scontento di lui e di tutto.
E non la gratitudine per il suo lungo e fedele servizio, per il suo rispetto, il suo modo di vivere presso di me come una macchina buona a tutte le faccende domestiche, ma il pensiero che a girare tutto il mondo non avrei trovato un’altra macchina simile, mi tratteneva dal trattarlo con ingiustizia. D’altronde ero certa che anche lui stava presso di me per tornaconto, perchè non avrebbe anche lui trovato un posto migliore; e quindi non mi credevo in obbligo di riconoscergli alcun merito. Se commetteva davvero una mancanza non esitavo a dirglielo: ed egli riconosceva giuste le mie osservazioni; ma oltre di là non si andava. Forse anche lui, che era intelligente, mi riteneva la più perfetta macchina di padrona che esistesse al mondo.
*
Una mattina però lo scontro avvenne. Era un giorno di scirocco e tutto il casamento tremava e scricchiolava sinistramente: cattivi odori salivano dal cortile, sul quale davano le finestre delle cucine e dei ripostigli; si sentivano le padrone sgridare aspramente le serve, e queste rispondere sullo stesso tono.
Entro anch’io da Fedele, con la convinzione che quella mattina si doveva una buona volta rompere il lungo armistizio. Facevo i più brutti pensieri sul conto suo: che mi rubasse sulla spesa, che ricevesse donne in casa, quando io non c’ero, che parlasse male di me con la gente del mercato: quel giorno poi, tutte le cose sembravano sporche, e la colpa non era del tempo, ma sua. All’affacciarmi sull’uscio lo vedo al solito posto, davanti ai fornelli: tutto intorno è pulito e in ordine; anche il cestino con le verdure ha qualche cosa di elegante e di pittoresco.
Io non trovo nulla da ridire, ma volgendomi verso l’angolo dietro l’uscio vedo la cassetta per i rifiuti insolitamente aperta, e una goccia come di mastice sciolto che vi cade d’improvviso dentro mi fa sollevare gli occhi.
Un senso di allucinazione mi fa restare per un momento immobile e smarrita; davanti a me, appollaiato su un bastoncino collocato tra l’uscio e la parete, vedo un uccello nero, con un grande becco aquilino, e vicini fra di loro due occhi di un azzurro pallido che mi fissano severi.
— Che cos’è? — grido quasi impaurita, come se l’uccello misterioso fosse penetrato da sè nella mia casa con cattive intenzioni.
— È una cornacchia, — rispose Fedele, senza muoversi.
— E perchè è qui? Chi l’ha portata?
— Io.
Allora mi rivolsi a lui, terribile.
— E perchè? Chi vi ha dato il permesso? Da quando è qui?
— Da una settimana. L’ho comperala e mi tiene compagnia. Non può volare perchè ha le ali e la coda mozze, — aggiunse, scusando, più che sè stesso, l’uccello.
Il suo accento dimesso, quasi idiota, mi disarmava: eppure l’idea che egli si credesse così disperatamente solo nella mia casa da cercarsi la compagnia di una cornacchia, mi irritava e umiliava allo stesso tempo. Volli, per questo, fargli del male: e frenando il mio sdegno, anzi mostrandomi quasi dolente del mio volere, dissi:
— Oggi stesso porterete via di casa quest’uccello. Voi sapete che non amo le bestie in casa; nè cani, nè gatti, nè uccelli. Lo sapete: eppoi voglio che la cassetta sia chiusa.
Così dicendo io stessa rimisi alla cassetta il coperchio: e la cornacchia, nel sollevarmi che feci, mi beccò i capelli: poi lasciò cadere insolentemente, sul lucido legno, un’altra goccia che vi si impresse come un sigillo di cera gialla. E mi fissava coi suoi occhi vicini, inumani eppure per me beffardi, e pareva volesse dirmi: ringrazia il cielo che non te l’ho fatta addosso.
Fedele si avvicinò, con uno straccio tolse la goccia e si chinò per alitare sulla lieve macchia che, ripassatovi su lo straccio, scomparve.
— Va bene, — disse risollevandosi: — oggi stesso provvederò a me e alla mia Chia: intanto posso metterla nella mia camera.
Mise il braccio piegato davanti alla cornacchia e questa vi saltò su, con un lieve strido di gioia. Ed egli le posò una mano sopra, per accarezzarla e proteggerla. Io provai di nuovo una strana impressione: mi pareva di sognare. Fedele aveva pronunziato il nome della cornacchia come quello di una persona, e i suoi occhi d’un azzurro verdastro avevano preso una espressione simile a quella degli occhi di lei. Qualche cosa di selvaggio, d’irriducibile ad ogni umano sentimento, si rivelava improvvisamente in lui, risaliva dal fondo del suo essere primordiale. Ed io ebbi di lui la stessa misteriosa paura che mi inspirava l’uccello da preda: così fragili entrambi, in apparenza addomesticati, pronti ad affondarvi il becco negli occhi. E uniti entrambi da uno stesso amore che solo i simili fra di loro, quelli di una stessa razza, possono sentire.
*
— Va bene, — dissi anch’io, ritirandomi dignitosamente.
Sentivo invece che tutto andava male: se Fedele mi lasciava, una parte, sia pure la parte più meccanica, ma appunto per questo la più necessaria, della mia esistenza quotidiana, crollava. Sentivo che per ottenere i servizi da lui resi, occorrevano per lo meno altri due domestici, maschi o femmine che fossero; e già pensavo a loro come a dei nemici in agguato dietro la mia porta. Forse esageravo: forse c’era un fondo sentimentale nel mio disappunto, poichè con Fedele se ne andava un periodo, se non felice almeno quieto e sicuro, della mia esistenza.
Mi ritirai nello studio, mentre lui, silenzioso come non ci fosse, rimetteva in ordine la mia camera da letto; e tentai di scrivere una lettera alla direttrice di un’agenzia di collocamento, che per caso conoscevo, onde pregarla di trovarmi una persona di servizio fidata e abile.
Ma non mi riusciva. Aspettiamo, pensavo; forse Fedele cambierà idea e butterà dalla finestra l’uccellaccio.
E d’improvviso sentii che eravamo ridicoli tutti e due: e che l’uccellaccio, in fondo, ci univa più di prima, mettendo a prova il nostro egoismo e la nostra calcolata indifferenza reciproca.
Finito ch’egli ebbe di riordinare la camera, — e mi parve che lo facesse con più rapidità e accuratezza del solito, — vi entrai col proposito di vestirmi e uscire. Volevo andar di persona dalla direttrice dell’Agenzia: ma le finestre della mia camera davano una a levante e l’altra a mezzogiorno, e il vento vi batteva così forte che i vetri pareva dovessero spaccarsi. Io amo il vento, quando ne sono difesa, forse perchè il pensiero di affrontarlo all’aperto mi riempie di terrore. Aspettiamo dunque ancora, pensai; è ridicolo che io mi agiti così per una persona di servizio. Tanto più che Fedele mi dava il buon esempio: eseguiva le sue faccende con calma e silenzio, quasi ignorasse la mia presenza nella casa. La casa era abbastanza grande perchè servo e padrona non ci si incontrassero che nei momenti stabiliti: così, rientrando nello studio ritrovai sulla tavola i giornali e la posta, come venuti da per sè; e più tardi nella sala da pranzo la tavola apparecchiata e Fedele pronto a servirmi, zitto e silenzioso come un fantasma. Non ci si scambiò una parola, non uno sguardo. Solo quando venne a servirmi il caffè, egli mi domandò sottovoce:
— La signora oggi non va fuori?
— Sì, esco, — risposi aspra; subito pentita aggiunsi: — perchè? volete andar fuori voi?
— Sì, volevo chiederle un’ora di permesso.
Egli andava certo a cercarsi un altro servizio: e poichè il pericolo adesso mi appariva di fronte, vivo e immediato, mi sentii tutta fredda. Per vendicarmi, poichè istintivamente sapevo che Fedele rifletteva i miei sentimenti, e aspettava una sola parola per rassicurarmi e rassicurarsi, risposi:
— Se volete andate pure. Non ho bisogno di voi.
Ed egli uscì, lasciandomi spaurita.
*
Date le abitudini e le circostanze della mia esistenza di quel tempo, bisogna dire che quell’ora concessa a Fedele fu una delle più brutte della mia vita. Invano mi proponevo di uscire anch’io e cercare un’altra persona di servizio, certa che l’avrei trovata. Pagando bene si ottiene tutto. Anzi volevo vendicarmi: congedarlo appena rientrava, e non pensarci più. Per aver una scusa dignitosa andai a vedere se dalla cucina era sparita la cornacchia.
La cornacchia era lì, sul bastoncino dietro l’uscio, e allungò il collo guardandomi fisso negli occhi con gli occhi severi. E d’un tratto, non so perchè, mi parve che la mia casa non fosse più così solitaria come un momento prima. Un essere misterioso l’abitava, incarnato in quell’uccello austero e silenzioso. Mi accostai per guardarlo meglio, tendendo però l’orecchio per paura che Fedele tornasse e mi sorprendesse in quell’atto. Anche la cornacchia, senza dimostrare sfiducia per me, tendeva il collo guardando lontano sopra la mia spalla, come scrutasse un pericolo ignoto: o forse vedeva il pericolo in me, e fingeva per salvarsi.
Infatti io avevo desiderio di prenderla e buttarla dalla finestra nel cortile. Nel cortile i ragazzi della portinaia avrebbero pensato loro a farne scempio: il pensiero però di destare la loro curiosità e le conseguenti chiacchiere mi trattenne. Tuttavia cercai di afferrare la cornacchia, ma dovetti ritirare la mano per evitare una beccata; tentai di prenderla di sorpresa, per di dietro; essa si volse subito, allungò il collo, mi beccò forte le dita. Sdegnata le diedi un colpo sulla testa: essa parve sghignazzare, oscillò sul bastoncino, cadde sbattendosi sul pavimento, si sollevò di scatto e cominciò a svolazzare qua e là come una farfalla ferita.
Allora pensai con terrore a Fedele, come s’egli fosse il padrone ed io la serva colpevole. Adesso, se ritorna e ci trova così! — pensavo correndo dietro la cornacchia col vano proposito di riprenderla e rimetterla su. Impresa più difficile non mi era mai capitata: l’uccello mi svolazzava spaurito davanti; e alle mie preghiere false, di lasciarsi prendere, per il suo bene, e infine alle mie maledizioni rispondeva con dei cra cra rauchi e beffardi che mi impaurivano. Finalmente trovò da rifugiarsi nell’angolo dietro la colonna del forno a gas, e per quanto mi piegassi e cercassi di scovarla non uscì più di lì. — Va bene, benone anzi, dissi ad alta voce, passeggiando furiosa su e giù per il corridoio dall’uscio della cucina alla porta d’ingresso; — così quando quel mascalzone torna darò la colpa a lui se l’uccello gira liberamente per la casa; e sarà una migliore scusa per licenziarlo.
Se Fedele fosse rientrato in quel momento avrei forse dato ascolto ai miei rabbiosi propositi: ma egli non rientrava. Era già passata l’ora ed egli non rientrava. Forse, come certe serve maleducate, se n’era definitivamente andato. Questo timore mi calmò; e quando egli rientrò non gli feci osservazione alcuna. Anche lui non mi disse nulla, a proposito della sua uscita; più tardi, mentre io lavoravo nello studio, venne a domandarmi alcuni ordini per la sera, e vidi che si chinava premuroso a togliere un filo dal tappeto.
Tutto questo mi rassicurò. Rinunziai anch’io ad uscire, decisa di fingere di dimenticare la scena della mattina.
La sera scendeva triste e scura: il vento soffiava con violenza, velando col suo rumore i rumori della città. Nessuno venne a trovarmi, quel giorno, perchè io non avevo amici abbastanza affezionati da ricordarsi di me anche nelle cattive giornate: nè io me ne dolevo. I miei veri amici, in quel tempo, erano i libri belli; e di questi ne possedevo molti. Quando le lampade furono accese ripresi dunque a rileggere Anna Karenine: i casi di questa infelicissima donna, che mi avevano sempre interessato come quelli di una persona di mia conoscenza, quella sera mi lasciavano indifferente. Il rumore del vento richiamava la mia attenzione; e mi pareva di veder giù nella strada correre la gente, gli uomini tenendosi fermo il cappello in testa e le donne con le vesti svolazzanti: qualcuna di esse, forse, correva nella bufera, verso l’amore e verso la morte, come l’eroina del mio libro. E il ricordo di quel terribile senso di solitudine, ch’ella prova durante la sua ultima passeggiata, quel senso di vuoto e d’inutilità della vita anche se felice, mi tornava al pensiero: quante volte, senza aver amato e sofferto, o appunto per questo, avevo pure io sentito qualche cosa di simile!
E anche quella sera mi sentivo sola, nel vento, come in cima a una torre sopra un luogo deserto, e intorno a me fino ai limiti estremi della vita non vedevo che vuoto e desolazione.
Fedele è uscito per comprare i giornali della sera e fare altre spese: io sono di nuovo curiosa di vedere dove ha messo la cornacchia, e furtivamente ritorno nella cucina. Non accesi la luce, poichè le persiane erano aperte e non volevo che per caso egli rientrando dal cortile vedesse la finestra illuminata. Del resto ci si vedeva ancora, e al barlume lontano del crepuscolo distinsi la cornacchia sul suo bastoncino, immobile, con la testa un po’ piegata e gli occhi socchiusi. Dormiva. Dormiva appoggiata su una zampa sola: l’altra la teneva sospesa, semi-nascosta fra le piume del ventre: e tutto il suo aspetto, nella penombra, era così dolce e timido, così triste di abbandono, che uscii in punta di piedi per non svegliarla.
*
Si era verso la fine dell’inverno, e quelle giornate di vento si ripetevano spesso; ma era un vento caldo, il vento dei pollini, che portava fin lassù nella nostra casa un alito di terre lontane già fiorite. Fedele poi ogni due giorni rientrava con fasci di fiori comprati al mercato, e mi diceva che costavano poco. Insomma tornava il bel tempo, e il mio cuore non si era, ancora tanto indurito da non risentirne una certa gioia.
La domenica seguente a quel giorno dello scontro in cucina, Fedele, che aveva il diritto di alcune ore di libertà, uscì appena ebbe rigovernato. Non disse dove andava: io avevo sempre l’impressione che si cercasse un nuovo servizio, ma nel frattempo non osavo chiedergli nulla. Si era quindi più che mai in armistizio.
Anche quel giorno soffiava il vento, ed io non sentivo desiderio di uscire: mi annoiavo però: le giornate si erano tristemente allungate, e fin lassù, nonostante il vento, si sentiva la città rumorosa insolitamente sfaccendata, la esasperante città domenicale.
Dopo aver fatto cento inutili cose, esco per caso nel corridoio, ed ecco vedo una strana creatura venirmi incontro confidenzialmente, anzi con una certa curiosità. Era la cornacchia. Fedele aveva dimenticato l’uscio della cucina aperto ed essa era scesa dal suo rifugio ed esplorava la casa. Non ebbi il coraggio di scacciarla: veduta così per terra era graziosa, quasi bella; rassomigliava a una pollastrina nera senza la cresta. Arrivata davanti a me cominciò a beccarmi la punta delle scarpe, poi ne tirò i lacci come volesse scioglierli: questo mi divertì. Feci alcuni passi e lei mi seguì coi suoi passetti silenziosi: mi piegai per prenderla, e lei indietreggiò, non come la prima volta però, nemica e selvaggia, anzi quasi scherzosa, aprendo un poco le ali mozze e con quello strido di gioia che usava quando Fedele le porgeva il braccio per salirvi su.
Il desiderio di prenderla mi vinse. Mi piegai ancora di più, inseguendola fino all’angolo del corridoio e parlandole come a un bambino capriccioso: e con mia grande meraviglia, anzi, adesso posso confessarlo, con improvvisa commozione, sentii sulla mia mano le sue zampine fredde.
Quando mi sollevai, con lei afferrata al mio polso, ero un’altra donna. Quelle zampine fredde sulla mia carne calda mi riattaccavano a un mondo che da molto tempo avevo dimenticato. La natura umana, con tutti i suoi istinti di tenerezza per ciò che è piccolo, che ha bisogno di protezione e di aiuto, e solo per questo si fa amare, poichè l’uomo vero ama negli altri quanto vi è di buono e di grande in lui, si ravvivava in me.
Accostai il viso alla testina della cornacchia: ed essa mi beccò lievemente il lobo dell’orecchio. Anche lei seguiva il suo istinto, che era in fondo malvagio; ma pareva lo frenasse nel sentire il calore di affetto che oramai l’avvolgeva. La portai davanti ai vetri della finestra chiusa: vi beccò subito un moscherino solitario che ingoiò vivo, poi allungò il collo, piegò la testa da un lato, e con un occhio solo fissò il cielo. E l’occhio, che nella penombra era verde, si rifece azzurro.
Si stette così qualche tempo. Io non osavo accarezzarla perchè ad ogni mio tentativo del genere sbuffava e si rivoltava per beccarmi la mano, ma la guardavo come una cosa straordinaria. E lei, se io stavo ferma, pareva non accorgersi neppure di me: ferma sul mio braccio caldo come sul ramo di un albero fissava il cielo volgendo e rivolgendo la testina in su. E pareva ascoltasse il rumore del vento, forse ricordando il mormorio degli alberi della selva dove era nata.
*
Così cominciò la nostra amicizia segreta. La riportai sul suo bastoncino, e osservai che sopra la credenza c’era un vasetto con dentro della pasta minuta, e un altro vasetto alto pieno d’acqua: immaginai fossero destinati a lei e infatti, nel vedermi a toccarli, essa aprì le ali e si protese in avanti. Mi parve un segno di grande intelligenza; o forse era già un segno di debolezza mia verso di lei. Ad ogni modo le accostai il vasetto con la pasta e lei vi beccò dentro avidamente: pure avidamente bevette, sollevando dopo ogni sorso la testa e schizzandomi l’acqua sulla mano: quando fu sazia afferrò a tradimento col becco l’orlo del vasetto e tentò di rovesciarlo: poi si scosse tutta e, con le piume della testa dritte e gonfie, mi guardò severa. Questa era la sua gratitudine. Io mi divertivo: raccolsi qualche granellino di pasta caduto per terra, e rimisi ogni cosa a posto, per cancellare le tracce del mio passaggio, poi feci appena a tempo ad andarmene perchè Fedele rientrava.
E nella notte mi sorpresi a pensare alla cornacchia: mi pareva di vederla dormire su una sola delle sue zampe di corallo nero, con gli occhi socchiusi a sognare, in quel suo melanconico esilio, le macchie e gli acquitrini dove l’avevano presa e le sue compagne con le lunghe code e le ali possenti volano a stormi alte sul cielo solitario. Sentivo compassione di lei.
— Se la teniamo qui, vivrà anche lei senza gioia e senz’amore.
Anche lei. Poichè ricordavo bene i miei lunghi anni vissuti senza amore e senza gioia.
— Le faremo crescere le ali e la coda e in primavera la lasceremo volare, in cerca del suo compagno.
Non so perchè mi figuravo fosse una femmina: forse per concatenazione d’idee. E non sorridevo di me stessa, no: anzi provavo un senso di gioia nel ritrovare in fondo al mio cuore il filo spezzato della poesia.
*
Questo filo si riallacciò stranamente, per opera dunque di una cornacchia. Una pianticella, un ragno, un uccellino, bastano per rallegrare la solitudine di un prigioniero, di un eremita. Il pane che il corvo portava al profeta Elia era forse, nel pensiero di chi scrisse l’episodio, il nutrimento di vita, vale a dire di amore, necessario anche agli uomini che credono di poterne fare a meno.
Io conoscevo molta gente ma non amavo nessuno perchè credevo di avere abbastanza esperienza per non illudermi sull’amore degli altri. Lo stesso Fedele brontolava quando invitavo gente a pranzo o davo qualche ricevimento. Una volta mi disse: — provi a non dar loro nè da mangiare nè da bere e vedrà che nessuno ritorna. — Era probabile che anche la cornacchia, pure dandole da mangiare e da bere, non si affezionasse a me: eppure sentivo di volerle bene.
Quando il giorno dopo Fedele uscì per le spese, andai a visitarla. E attraverso il corridoio scuro sentii d’un tratto che il bel tempo tornava. La cornacchia cantava. Era un vociare aspro, con fischi e lamenti, ma aveva un tono infantile, come il canto di un monello che per attirare nella rete gli uccelli di macchia ne imita i sibili e i richiami.
La primavera entrava nella mia casa, con quel canto selvaggio.
Quando mi vide, la cornacchia sollevò le ali e si protese tutta verso di me: dunque mi riconosceva. Eppure rifiutò il cibo che le porgevo. Accettò invece di venire sul braccio, e cominciò a beccare i bottoni della mia veste, e sulle falde di questa mi regalò una goccia di mastice per nidi! In cambio accettò per la prima volta, ma sbuffando e ritraendosi, una carezza sulla testa. Mai ho sentito una cosa più morbida delle sue piume vive: e quella testa che pareva grossa e nella minaccia lo diveniva ancora di più, era piccola come una nocciuola, attaccata alla cordicella finissima del collo flessibile. Istintivamente allora le diedi un nome, che la distingueva nettamente dalla Chia di Fedele.
Chia era la cornacchia di Fedele: la mia la chiamai Piccolina.
*
Si accorse Fedele di tutto questo?
Se ne accorgesse o no mi pareva di non curarmene; ad ogni modo ero certa che egli non me ne avrebbe mai fatto cenno nè rimprovero. Altre cose mie, altre debolezze, altre vicende della mia vita egli conosceva, e a sua volta non se ne curava. In fondo ci si rassomigliava, in questo, nella perfetta indifferenza per i fatti altrui, anche se questi fatti ci riguardavano indirettamente. Tutto era sopportato e scusato purchè non ci si toccasse nel nostro interesse.
Così ero pure certa che l’avrei più molestato col far palesi le mie visitine alla sua cornacchia che col fingere di essermene completamente dimenticata. Un giorno però lei stessa fu per turbare il nostro tacito accordo.
Io stavo a lavorare nello studio: nonostante lo strepito della strada, al quale del resto ero così abituata che non lo sentivo più, il silenzio dentro era tanto profondo che mi colpì un piccolo suono strano all’uscio del salotto precedente; era come se un bambino vi raschiasse lievemente con una punta acuta. Incuriosita vado a guardare e vedo la cornacchia che appena socchiuso l’uscio allunga il collo e mette dentro la testa col proposito fermo di entrare nel salotto. Come sempre, la sua presenza mi desta un senso di sorpresa e di allegria, per non osar dire di gioia. Quest’essere selvatico, quest’uccello di rapina, carnivoro e ladro, che gira tranquillo per la casa, curioso e petulante, bisognoso di compagnia, mi dà sempre l’impressione di un essere misterioso la cui affinità e la distanza con noi non riusciremo mai ad esplorare.
Fu un uomo un giorno? Ladro e feroce fu condannato a rinascere nell’uccellaccio delle paludi: eppure conserva gli antichi istinti della casa e il bisogno di riavvicinarsi all’umanità. E stavo per aprire di più l’uscio quando sentii il fruscio particolare del passo di Fedele in fondo al corridoio. Rapida e silenziosa come lui chiusi e ritornai al mio posto.
*
La domenica seguente aspettai che egli uscisse, per andare a vedere la cornacchia. Di nuovo era cattivo tempo e lei doveva sentirlo perchè se ne stava melanconica e intirizzita, sebbene nella cucina facesse caldo. O forse sentiva la sua solitudine. Nel vedermi, infatti, si rianimò. Beccò, senza avidità, anzi quasi svogliatamente i granellini di pasta che le porgevo nel cavo della mano, scegliendo quelli più piccoli che si nascondevano fra le mie dita, e rifiutò di bere. Ad ogni granellino che ingoiava sollevava la testa e mi guardava. Pareva volesse dirmi: lo faccio per compiacerti, ma desidero sapere che cosa vuoi da me.
Il contatto del suo becco quando frugava fra le mie dita mi faceva piacere. Ecco, pensavo, potrebbe beccarmi e strapparmi la pelle e invece pare mi accarezzi: dunque mi vuole già bene.
— Piccolina, — le dissi, parlandole come si fa coi bambini. — È vero che mi vuoi bene? Siamo tutte e due sole, disarmate e lontane dal mondo: sole sole peggio che nella foresta. Piccolina, vuoi darmi un bacio?
Sorridevo di me stessa e sentivo di essere un po’ rimbambita; e non scambiai certo per un bacio la lievissima beccata che Piccolina mi diede al labbro inferiore, ma la scambiai per un segno di intelligenza o almeno di simpatia.
— Andiamo, — le dico porgendo il braccio, — tu sei curiosa e voglio soddisfarti. Voglio farti visitare tutta la casa. — Lei mise una dopo l’altra le sue zampe sul mio braccio e si lasciò condurre. — Cominciamo di qui, dalla sala da pranzo.
La sala da pranzo era la stanza più simpatica della casa: mobili antichi, in quercia; vecchie maioliche, pesanti argenterie di grande valore. La vetrata di cristalli gialli la rallegrava: pareva ci fosse anche nei tristi giorni il sole.
Piccolina allungava il collo e guardava di qua, di là, sotto e su, veramente curiosa e con interesse. Nessuno mai dei miei invitati aveva osservato con tanta franchezza la mia sala da pranzo. Peccato che lei si permettesse di lasciare di tanto in tanto cadere, con naturalezza senza esempio, la solita goccia di mastice; ma io aveva provveduto a questo mettendo sotto il braccio che la sosteneva un pannolino come si usa coi bambini innocenti.
Così si fece il giro di tutto l’appartamento: arrivate nello studio lei parve infinitamente sorpresa per la grande abbondanza di carte che vi si trovava: i suoi sguardi di traverso, anche di sopra della mia spalla, i suoi allungamenti di collo, il volgersi e rivolgersi della testa, non finivano mai.
Quando poi la deposi sull’ampia tavola da studio diede quel suo caratteristico strido che pareva uno squillo di gioia. E dapprima saltò sopra un giornale e parve leggerne il titolo; poi lo beccò producendo un rumore secco sul legno sotto, e lo affermò, lo trascinò qua e là finchè, nonostante la mia impotente difesa, non lo ridusse in minutissimi brani.
— Adesso Fedele, adesso stiamo fresche,— io gridavo rincorrendola. Ma in fondo mi divertivo.
*
Fu quella sera che Fedele rientrò tutto stravolto in viso, con gli occhi lagrimosi e i denti serrati.
Alle mie domande rispose che aveva preso freddo.
— Procurerò di sudare, questa notte: domani sarà tutto passato, — disse.
Infatti si alzò all’ora solita, accudì alle faccende solite e uscì a fare la spesa. Il tempo era orribile: il cielo bianco e basso dava un senso di tristezza funebre: ed io provai un presentimento di sventura.
Fedele rientrato dalla spesa lavorava in cucina: tutto intorno era pulito e in ordine come sempre; solo osservai che egli non aveva rinnovato i fiori nel vaso della tavola da pranzo; però mi guardai bene dal rimproverarlo, quando venne a servirmi la prima colazione. Era livido in viso e stringeva i denti.
— Fedele, — dico io quasi sdegnata. — E perchè non sei rimasto a letto? Tu sei malato.
— È un po’ di freddo, passerà: prenderò adesso un po’ di aspirina.
L’aspirina parve fargli bene: all’ora solita mi servì la seconda colazione, poi riordinò la cucina e mi chiese il permesso di mettersi un po’ a letto. Più tardi mi si ripresentò tutto vestito per uscire, ma col viso rosso per la febbre e gli occhi lucenti.
— Ascolti, — disse, umile e fermo, — io vado fuori a farmi visitare qui nella clinica accanto. Ho un dolore al fianco; è certo un reuma: è meglio, però, assicurarsi. Non s’impensierisca se tardo: se mi permette telefonerò dalla clinica: intanto per questa sera c’è tutto pronto. Le manderò poi su la Lauretta che si incaricherà di portar via la cornacchia.
Io cerco invano di oppormi: lo afferro anche per il braccio e lo supplico di restare. Farò venire il medico, farò venire un infermiere; lo curerò io. Invano. Egli andava verso la porta come uno che è aspettato in qualche posto e deve assolutamente non mancare: la sua sola preoccupazione era di assicurarmi l’intervento di Lauretta, la figlia del portiere, che spesso ci rendeva servizio. E se ne andò quasi ruvidamente, senza guardarmi, senza salutarmi.
*
L’anima nostra ha momenti di chiaroveggenza terribili. Io sento, nel momento che Fedele tira dietro a sè la porta, che egli mai più rientrerà in casa nostra. Sì, nostra, poichè quella casa apparteneva tanto a lui che a me. Ebbi desiderio di uscire sul pianerottolo, di guardarlo a scendere le scale, come si fa con una persona cara che parte: il pensiero del suo giudizio malevolo mi trattenne. Allora mi aggirai smarrita per la casa. Sopra tutto il pensiero delle difficoltà materiali che l’assenza di lui mi procurava, pareva destasse il mio turbamento: chi pulirà più così accuratamente le stanze, chi mi servirà puntualmente i pasti? Io ero la negazione assoluta di tutto ciò che è donnesco: e diffidavo profondamente delle altre donne, specialmente quelle di servizio. La speranza che Fedele tornasse era il mio solo conforto; ma la sentivo fallace.
Egli non era forse arrivato ancora alla clinica che già mi disponevo a telefonare domandando notizie: il timore di diminuirmi ai suoi occhi mi trattenne di nuovo.
Ed ecco suonano alla porta. La sola idea che sia lui, che tutto ritorni nell’ordine di prima, mi fa sobbalzare di gioia. È Lauretta, invece, che già viene a domandarmi se mi occorre qualche cosa. È una buona e allegra ragazza, spesso afflitta da dispiaceri amorosi: ad ogni sua delusione segue però una nuova illusione, e l’amore per lei non è che questione di scelta: cambiano i fidanzati ma l’amore è sempre lo stesso.
— Per il momento non ho bisogno di nulla, — le dico senza lasciarla entrare. — Se puoi vieni verso sera. — E ho desiderio di chiederle che cosa ne pensa della malattia di Fedele: lei stessa mi previene, con una smorfia di poca speranza.
— Poveraccio: aveva un brutto aspetto. Speriamo che se la scampi; ma la peste è di nuovo in giro, e lui lo sa. E adesso mi consegni la cornacchia.
La cornacchia? L’avevo completamente dimenticata. La cornacchia? Perchè sento un lieve calore alla fronte? Abissi dell’anima nostra! Il pensiero che l’uccello adesso è tutto mio, che finalmente posso allacciare la mia infinita solitudine alla selvaggia solitudine sua, mi rende quasi contenta che Fedele sia andato via.
— La porterai via più tardi, — dico alla ragazza: e sento che le parlo così per vergogna di me stessa, per nasconderle il mio disumano sentimento.
Desolato e nero il giorno moriva sopra la città fangosa che per contrasto pareva rumoreggiasse più del solito, ma di rumori meccanici, come una grande macchina in rotazione.
Anche il silenzio della mia casa veniva interrotto da squilli frequenti. Il telefono era in contatto con quello di un ufficio d’avvocato, e tutto il corridoio tremava per le incessanti chiamate. D’altronde non volevo togliere la comunicazione in attesa di notizie di Fedele.
A questa continua vibrazione metallica rispondeva quella dei miei nervi scossi: mai mi ero sentita più sola e senza aiuto in mezzo alla grande città ove pure gli uomini possono comunicare fra di loro anche senza muoversi dalla loro camera, e gli uni sono legati agli altri dai fili infrangibili della civiltà: a me pareva di essere entro una rete, come gli uccelli nei giardini zoologici, segregata oramai dall’umanità. E l’ombra della morte che minacciava il servo si allungava fino a me, si stendeva su tutta la casa coi veli neri della notte.
Accesi tutte le lampade: ma sotto quella luce anch’essa fredda e senz’anima la casa mi parve ancora più funebre: era come una casa rimessa in ordine dopo che vi è stato portato via un morto. E quel morto, lo sentivo bene, era tutto il mio passato.
*
Lo squillo atteso risonò infine, e mi parve ancora un segno di vita.
— Pronti, pronti, sono Fedele. Mi hanno visitato: ho un principio di polmonite, ma non è niente; fra due o tre giorni è risolta. Resto qui; ho preso una cameretta a pagamento: il letto ha il numero undici. Non si preoccupi. È venuta Lauretta? Lei come sta?
La sua voce era un’altra, quasi giovane, quasi famigliare. Non l’avevo mai sentita e mi sembrava quella di un estraneo, tanto che volevo chiedere, all’uomo misterioso che mi parlava, notizie precise di Fedele.
— Io sto bene, — dissi; — solo mi dispiace che tu non sii rimasto a casa. Domani mattina verrò a vederti.
— Non si disturbi. Farò telefonare dall’infermiera. È venuta Lauretta? — ripetè con insistenza. Poi tacque. Sentii che tossiva: la voce ritornò la sua, bassa e umile e come logorata dal tempo: — si ricordi di far chiudere le persiane: si faccia far tutto da Lauretta.
— Sì, sì, non ti preoccupare. Cerca di guarire presto. Buona notte.
— Buona notte, signora. Solo dopo che la comunicazione fu tolta mi parve di aver dimenticato di dirgli qualche cosa. Ah, la cornacchia. Ne ebbi rimorso, e fui per riattaccare discorso: ma di nuovo quel senso di distanza che era fra noi, — poichè speravo ch’egli guarisse e tornasse, — mi allontanò da lui.
La mattina dopo andai a trovarlo.
Era una clinica quasi di lusso, quella dove egli si rifugiava, quieta e circondata di giardini: una specie di pensione per malati, la presenza dei quali non si sarebbe avvertita senza il passare silenzioso delle infermiere vestite di candidissimi camici, e quell’odore lugubre di disinfettanti che desta il pensiero della morte.
Ed io recriminavo ancora una volta i gusti spenderecci di Fedele, che accumulava i suoi risparmi e poi li buttava via in un momento, quando pensai che forse era entrato in quel luogo con la certezza di starci poco....
L’infermiera che mi condusse da lui rispose con una smorfia d’indifferenza alle mie domande: pareva non sapesse, o neppure si curasse di sapere di che malattia si trattava.
La prima cosa che mi colpì, entrando nella cameretta dov’ella m’introdusse, fu un pesco fiorito che rosseggiava sullo sfondo della finestra grande quanto la parete. Da quanto tempo io non vedevo un pesco fiorito! Tutta la mia fanciullezza mi riapparve lì; e nello stesso tempo ebbi l’impressione che fosse stato Fedele a prepararmi quella sorpresa per distogliermi dal guardare il suo lettuccio bianco, nel centro della camera bianca e nuda come un sepolcro, col cartellino numerato che cambiava un uomo sofferente in una cifra, come nelle prigioni; il suo povero corpo che sotto la coperta banale e le lenzuola ruvide appariva più grande del solito, quasi gonfio e allungato; e sopratutto il suo viso macchiato di lividori, già percosso dallo staffile della morte.
Neppure lui s’illudeva: anzi cercai d’illuderlo io.
— Mi pare che non stai male, Fedele. Sei rosso e fresco.
Egli mi guardò, di sotto in su, e i suoi occhi severi, con quello sguardo già lontano che fissava qualche cosa di lontano, di là della mia persona, mi ricordarono quelli dell’uccello.
— Lauretta è venuta? — domandò riprendendo il filo della sua sola preoccupazione.
— È venuta; ha fatto tutto. È svelta e intelligente, quella ragazza: non credevo.
Egli lo sapeva già, quindi non fece osservazioni: anzi parve lievemente contrariato, come ingelosito. Che passava nell’anima sua già coperta di nebbia? Forse vedeva Lauretta al suo posto, nel luogo dov’egli aveva lasciato la parte migliore della sua vita, e ne provava dolore.
Non disse nulla: non mi domandò neppure della cornacchia: pareva se ne fosse dimenticato. Ma quando io, accostando la sedia per sedermi accanto al suo letto, dissi che non avevo permesso a Lauretta di portarla via, si animò lievemente. Di nuovo parve contrariato.
— Perchè? — domandò scuotendo la testa sul guanciale. — Sporca troppo.
— Ma no, poverina: se ne sta tranquilla sul suo bastoncino, sopra la cassetta aperta. Le ho dato io da mangiare e da bere; non ti preoccupare. Dimmi piuttosto cos’è che ti senti. Che dice il dottore?
— È la polmonite; null'altro. Passerà.
— Passerà, — ripeto io con fiducia. Ma l’aspetto di lui non mi piace. Adesso egli è calmo, rassegnato: non ha tosse e neppure difficoltà di respiro: i suoi occhi guardano verso la finestra, senza vedere il pesco fiorito, come aspettando di là un segno misterioso; ma questo suo raccoglimento, questa sua indifferenza per me e per le cose che gli vado stentatamente dicendo, e sopratutto il calore intenso che si spande dal suo corpo come se dentro tutto gli si arda e consumi, mi preoccupano più che se egli si agitasse e lamentasse.
Solo quando accennai ad andarmene e gli chiesi se aveva bisogno di nulla, se dovevo regolare io i conti con la direzione della clinica, si agitò alquanto.
— No, no, — disse con voce sibilante: — è tutto regolato. E lei non si agiti, non torni.
— Sei tu che ti agiti; sta quieto, — gli risposi, mettendogli una mano sulla testa. — Se ti dispiace non torno, no.
Egli fremeva tutto; non replicò, e al tocco della mia mano parve a poco a poco calmarsi. E io mi avvidi che chiudeva gli occhi per nascondere le sue lagrime.
Diedi una buona mancia all’infermiera, perchè lo trattasse bene, avvertendola di telefonarmi di tanto in tanto per darmi notizie. Domandai anche di parlare col dottore: ma il dottore a quell’ora non si poteva avvicinare.
Avevo stabilito di mangiar fuori, quella mattina, anche per distrarmi: nella strada però mi parve di ricordarmi che qualcuno mi aspettava, a casa: qualcuno che era solo e aveva fame e sete e forse soffriva per l’abbandono completo in cui veniva lasciato.
Piccolina! Una tenerezza improvvisa mi riassale, per lei, come si tratti di un piccolo essere umano affidato ormai alle mie cure.
Compro qualche cosa da un rosticciere e torno a casa. La casa ha un odore di chiuso, di morto; ma nell'attraversare il corridoio sento lo strido della cornacchia, che ha riconosciuto il mio passo, e mi pare un grido di vita.
Si sollevò tutta, nel vedermi, aprì le ali; ed io la presi con me alla mia tavola e mangiai con lei, parlandole infantilmente. Le racconto la mia visita al suo amico, le confido le mie speranze e i miei timori: essa becca nel mio piatto e beve nel mio bicchiere, tentando poi di rovesciarlo: non le importa nulla di quanto le dico; è piuttosto curiosa di sapere che cosa contengono gl’involtini da me deposti sulla mensa, e tenta di slegarli; si diverte col tappo della bottiglia e s’impunta a forarlo col becco: si allunga tutta verso la lampada, guardandola bene in giro, e tende l’orecchio al battito eguale della pendola: quando io verso l’acqua nel bicchiere lei introduce il becco nel collo della bottiglia e beve; forse ricorda la sorgente nel bosco: tutto la interessa fuori che le mie inquietudini. Eppure io non mi sento più sola, con lei, e la sua compagnia basta per attenuare la mia tristezza.
*
L’infermiera, nonostante la buona mancia, anzi avendola già ricevuta, non telefonava: ed io non domandavo notizie per orgoglio. Orgoglio di che? Di tutto e di nulla. Si può sapere chi è superiore e inferiore a noi? Noi stessi: ed è di fronte a noi stessi che noi ci si umilia e ci si esalta. Verso sera tornò Lauretta e mi domandò notizie di Fedele: e parve rallegrarsi sinceramente quando le dissi che egli non stava poi tanto male; aggiunse però:
— Però se lui, Dio non voglia, avesse a morire, verrei tanto volentieri io, qui da lei. Si sta bene, qui: pare di essere fuori del mondo. Mi vuole?
A dire la verità io avevo paura a star sola, specialmente la notte. Le dissi quindi che se voleva venire, provvisoriamente, sarei stata contenta. Ella si mise a ballare per la gioia: poi prese sul braccio la cornacchia, l’accarezzò, cominciò a dirle frasi d’amore. Eppure di lei non sentivo gelosia: e i suoi passi di danza, il colore vivo dei suoi capelli e del suo vestito mi comunicavano un senso di gioia.
Andò giù a chiamare il padre, e col consenso di lui rimase presso di me.
La mattina dopo si alzò presto, andò a fare la spesa di sua iniziativa, fece tutti i servizi che faceva Fedele, come una sua scolara; mi contentò in tutto. Una sola cosa osservai: ella non aveva comprato i fiori, come egli usava.
Ecco dunque risolto il grande problema: con questo di più: che ella destava in me un senso completo di fiducia, di intimità, di solidarietà femminile.
Non mi dispiacque, infatti, ch’ella entrasse in camera mia mentre mi pettinavo: cosa che mai avevo permesso a Fedele.
*
Se l’infermiera non telefona vuol dire che la malattia segue il suo corso regolare, — penso. Tuttavia nel pomeriggio mando Lauretta a domandare notizie. Io resto a casa, e mi diverto a portare la cornacchia sul davanzale della mia finestra. Il tempo s’è rasserenato; un cielo infinitamente grande e puro si stende sopra la città ancora lievemente assopita in quel primo calore primaverile. Pare che un velo sia disteso sotto le mie finestre: e i rumori vi arrivano attutiti, sotterranei; mentre di sopra, nell’aria trasparente, tutto vibra con armonia. Ed ecco l’uccello si mette a cantare: ma è una voce nuova, la sua, come di un altro uccello; è quasi dolce, è un richiamo insistente, squillante, che vuole, vuole, e si meraviglia di non ottenere quel che vuole e gli è dovuto.
Infine, stanca, Piccolina tace, si abbatte, si arruffa, china la testa e pare si sottometta a un comando superiore.
— Così è, — le dico io, riprendendola sul braccio e riportandola nel suo angolo melanconico. — È tempo d’amore; ma i tuoi compagni sono nel bosco e non ti sentono.
*
Lauretta tornò dalla clinica stravolta e agitata.
— Che luogo, Dio mio, che luogo! Pare bello eppure là dentro si muore. È vero, dunque, che si muore.
È vero, sì, e per i giovani il pensiero della morte sarà sempre inverosimile e inumano; per noi invece che discendiamo la china, la morte appare come il placido porto ove c’imbarcheremo su una nave meravigliosa. Così le notizie poco buone di Fedele non mi comunicarono il terrore risentito dalla fanciulla: ma il mio pensiero rimaneva fisso laggiù, dove l’uomo arrivava lentamente al porto, mentre lei già aveva dimenticato la sua impressione e canticchiava ogni tanto volgendosi alla cornacchia per prodigarle carezze e languide frasi d’amore.
— Ti ha chiesto di lei? — domando io, che contro il solito mi attardo nella cucina. La cucina è bella, con le sue maioliche bianche, il merletto verde intorno alla cappa del camino, gli arnesi lucenti che riflettono la lontana luminosità del cielo. Fedele aveva il culto della bellezza, anche nelle cose umili: era, nelle sue condizioni, un artista e un aristocratico: e lo ricordo ancora, in certe sere quando egli indossava il frak, e la sua linea, il viso un po’ duro e angolare, coi freddi occhi verdoni, lo trasformavano in un qualche gentiluomo nordico venuto misteriosamente fra noi.
— Non mi ha chiesto nulla, — dice Lauretta, oscurandosi ancora in viso. — Guarda sempre verso la finestra e pare non si accorga di nulla.
Più tardi tento di telefonare alla clinica. Prima che l’infermiera risponda passa un lungo minuto: ed ecco sento il silenzio lugubre della clinica, nella notte, quando i malati tacciono e le lampade notturne sembrano già vegliare i loro cadaveri.
Fedele peggiorava: e l’infermiera lo disse a voce alta con la convinzione che la mia indifferenza fosse pari alla sua.
Il giorno dopo tornai a visitarlo. Non so per quale ragione, forse perchè pensavo di acquistarne per me al ritorno, mi venne in mente di portargli dei fiori. Poi tirai dritta: non si portano fiori ad un servo: una barriera insormontabile, accumulata da millenni di odio e di interessi feroci, divide ancora servi e padroni.
Comprai invece dolci e arance: cose che gli piacevano: ma appena vidi il suo viso deposi la borsa come una cosa mortalmente inutile.
Eppure il suo viso esprimeva una certa volontà: era ancora il viso duro, angolare, con gli occhi verdoni, dei quali la pupilla grande e mobile si fissava su gente sconosciuta, forse odiata, che però bisognava servire in silenzio.
Per un attimo mi guardò: mi riconobbe, ma tosto volse di nuovo le pupille in là, come già si fosse dimenticato di me, o non volesse più riconoscermi.
L’avevano un po’ sollevato a sedere, perchè l’affanno era già grave; egli però non si lamentava, anzi quel suo sforzo di volontà pareva destato dal desiderio preciso di vincere l’affanno. Le mani, abbandonate sulle lenzuola, aride e tristi, erano già vinte; e la testa, a un tratto piegatasi giù, coi capelli grigi arruffati, mi ricordava quella dell’uccello che dopo aver chiamato invano si sottometteva a un comando superiore.
Chiesi insistentemente di conferire col dottore che curava Fedele. Ero sdegnata: mi sembrava che non avessero fatto nulla per aiutare e salvare il malato. Il dottore passava rapido nel corridoio, dando ordini a destra e a sinistra alle infermiere che entravano ed uscivano dalle camere dei malati e s’incrociavano come spole. Dovetti andargli appresso, mentre egli, invece di rispondere alle mie domande, mi chiedeva a sua volta se il malato aveva parenti. Null’altro: ma da queste semplici parole spirava l’alito della morte.
Rientrai presso Fedele, sedetti accanto al lettuccio: lo guardavo, poi guardavo il pesco fiorito, dietro i vetri chiusi, con l’impressione confusa che la vita dell’uomo, spegnendosi, accrescesse quella dell’albero. Oramai che sapevo la sua sorte mi sentivo quasi tranquilla; ma l’assistere al lento trapasso di un’anima da un mondo ch’è tutto luce e realtà ad un altro del quale ancora non conosciamo il mistero, è certamente pauroso e triste.
Eppure m’illudevo ancora: l’aspetto di Fedele non mi sembrava mortale: il suono stesso della mia voce, mentre tentavo di sottrarre il malato al suo affanno, parlandogli di cose inutili, mi dava un senso di vita. E fuori la grande giornata primaverile, il sole che tingeva di sangue roseo i fiori del pesco, i voli degli uccellini pazzi di gioia, tutto negava l’esistenza della morte. Oh, questa non esiste finchè siamo vivi noi.
*
Così lasciai la clinica dandomi la speranza che Fedele migliorasse: il tempo buono aiuta il malato a guarire. Del resto io compivo il mio dovere verso di lui: se egli moriva non era colpa mia. E s’egli se ne fosse andato, un giorno, come aveva minacciato di fare, non ci si sarebbe separati lo stesso?
Compro dunque i fiori per me; rientrando a casa sento Lauretta che canta una canzone d’amore e la cornacchia che imitando il grido del cuculo si crea forse d’intorno l’illusione della foresta in primavera. Tutti si cerca la gioia dove meglio si può.
Fedele non aveva parenti. Figlio illegittimo di un’antica cameriera di casa nostra, che si era illusa di poterlo far studiare, dopo la morte di lei, rimasto solo e senza mezzi, anche lui era entrato al nostro servizio. Aveva qualche anno più di me. Ricordo che un giorno mentre la madre mi sorvegliava, bambina, in un giardino pubblico, egli era arrivato di corsa, con altri ragazzi, e che tutti assieme, tumultuosi e violenti, mi avevano destato un senso di paura. Aggrappata alla donna tremavo tutta, finchè lei non chiamò Fedele accanto a noi.
— Vedi, non è niente, sono bambini che giocano. Fedele, sta un po’ tranquillo.
Egli aveva messo una mano sulla mia spalla: ansava per la corsa e la lotta coi compagni, ma la voce era buona, dolce.
— Ma no, piccolina, perchè devi aver paura?
*
Nel pomeriggio telefonarono dalla clinica: Fedele stava meglio e desiderava vedermi. Dio sia lodato; sì, durante tutta la giornata mi ero sentita serena, con l’impressione che una gioia, invece che un dolore, dovesse attendermi. E quello stesso desiderio di Fedele, che durante le mie visite s’era mostrato indifferente e quasi infastidito di me, mi confortava.
Egli stava ancora seduto sul letto, e questa volta i suoi occhi mi vennero incontro, ma opachi, quasi neri, con già dentro l’ombra del mistero: e fin dalla soglia sentii l’affanno che egli non reprimeva più. Pareva avesse corso a lungo, follemente. Mi ritornò l’immagine di lui ragazzo e la mia paura e il sollievo della sua voce.
Sedetti al solito posto: il piccolo spazio fra me e il letto mi dava un senso di angoscia, come un abisso. L’infermiera stava dall’altro lato, ferma, in attesa, quasi pronta a raccogliere e portar via l’anima che come un fiore stava per sbocciare sulla bocca del morente.
Ma egli forse voleva che altri cogliesse e portasse via questo fiore, perchè allungò la mano col dorso in su, facendo atto di scansare la donna. Anch’io le accennai di andarsene: ella obbedì.
— Fedele, — domandai sottovoce, — hai da dirmi qualche cosa?
Egli non poteva parlare per l’affanno: rovesciò la testa sui guanciali, chiuse gli occhi e aprì la bocca, come chi è molto, molto stanco.
D’impulso, io gli afferrai la mano, per trattenerlo, ma anche per sostenermi. Avevo paura, ed egli lo sentì. Sollevò la testa, sorpreso, e la sua mano rispose alla mia stretta.
— Piccolina.... — mormorò, ma come fra sè. Ed io ebbi l’impressione che egli avesse l’abitudine di pronunziare spesso, anche senza volerlo, quella parola.
Sulle prime pensai che chiamasse la cornacchia: ma no, egli non le dava quel nome. A chi dunque lo dava?
— Fedele! — gridai spaventata. Egli teneva ancora gli occhi aperti, con la pupilla che andava in su, in su, finchè scomparve. Era l’anima che se ne andava.
*
Nella sua camera abbiamo trovato i libri dei conti: null’altro. Ma in questi libri non appare mai il conto dei fiori ch’egli comprava quasi tutti i giorni. Questo è l’unico segno che un’anima vera e viva è passata accanto all’arida e meccanica anima mia.
E anch’io gli ho portato i fiori al cimitero: ma egli non li sentirà come io non ho sentito i suoi.
E il tempo passa, e facilmente si dimentica chi non si è amato.
Lauretta, quasi felice per la scomparsa di lui, canta, ride, mi ruba nella spesa, si fa amare da me e dalla cornacchia che le salta continuamente sull’omero e le becca lievemente e come con delizia i peli biondi della nuca e delle orecchie.
Con me invece Piccolina è sempre un po’ selvatica, a giorni anche nemica, e se può mi becca sul serio senza tanti riguardi. Però mi viene sempre appresso, ed io le voglio egualmente bene, anzi più è selvaggia e lontana dalla mia natura umana, più mi piace: uccelli di solitudine tutti e due, uniti da un vincolo inspiegabile d’amore come quello che avvince uomini in apparenza infinitamente diversi fra loro, eguali in fondo nella loro essenza divina.