Pagina:Deledda - Il sigillo d'amore, 1926.djvu/173


Piccolina 167

gli occhi verdoni, dei quali la pupilla grande e mobile si fissava su gente sconosciuta, forse odiata, che però bisognava servire in silenzio.

Per un attimo mi guardò: mi riconobbe, ma tosto volse di nuovo le pupille in là, come già si fosse dimenticato di me, o non volesse più riconoscermi.

L’avevano un po’ sollevato a sedere, perchè l’affanno era già grave; egli però non si lamentava, anzi quel suo sforzo di volontà pareva destato dal desiderio preciso di vincere l’affanno. Le mani, abbandonate sulle lenzuola, aride e tristi, erano già vinte; e la testa, a un tratto piegatasi giù, coi capelli grigi arruffati, mi ricordava quella dell’uccello che dopo aver chiamato invano si sottometteva a un comando superiore.

Chiesi insistentemente di conferire col dottore che curava Fedele. Ero sdegnata: mi sembrava che non avessero fatto nulla per aiutare e salvare il malato. Il dottore passava rapido nel corridoio, dando ordini a destra e a sinistra alle infermiere che entravano ed uscivano dalle camere dei malati e s’incrociavano come spole. Dovetti andargli appresso, mentre egli, invece di rispondere alle mie domande, mi chiedeva a sua volta se il malato aveva parenti. Null’altro: ma da queste semplici parole spirava l’alito della morte.

Rientrai presso Fedele, sedetti accanto al let-