Il sigillo d'amore/Il nemico
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IL NEMICO.
La vecchia Marala saliva al paesetto per vendere la sua roba ai villeggianti. E non intendeva venderla per poco, al giorno d’oggi costando parecchio la roba anche ai produttori; ma neppure ad un prezzo d’usura, come fanno gli altri contadini. Poichè lei era donna di coscienza, e per questo, e perchè in fondo non aveva bisogno di vendere, si credeva da più di una semplice vecchia contadina. Ma quando la roba si ha, non si deve buttarla; e così lei saliva al paesetto per venderla ai villeggianti.
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Sedette un momento sul parapetto della strada, dando le spalle all’abisso selvoso che vi si sprofondava sotto, e guardò questa sua famosa roba della quale era colmo il cestino deposto al suo fianco. C’era di tutto: uova, insalata e altre verdure, frutta, caciole fresche e secche, e polli già pelati. Poichè lei era una donna pietosa che non amava veder soffrire le bestie; e non faceva come gli altri sordidi contadini che legano barbaramente per le zampe, a coppie, gli infelici giovani polli e li portano a testa in giù vivi al mercato; e se non li vendono a peso d’oro li riportano a casa. Lei strozzava e pelava i polli, per portarli ai villeggianti; tanto, era sicura di venderli.
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D’improvviso trasalì e ricoprì la sua roba; si sollevò e guardò in su. Le era parso di sentire un bisbiglio, come di gente che sottovoce parlasse male di lei: e un bisbiglio si sentiva infatti, sopra la strada deserta, nel grande silenzio del monte; ma era un soffio di vento che saltando come un daino di macigno in macigno metteva in subbuglio i ginepri e le felci.
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Marala riprese a camminare, col cestino fermo sulla testa come un semplice copricapo. Camminava più diritta di prima, adesso, con la lunga persona rigida come un fuso, gli occhi fissi in alto ad esplorare la strada. Altre volte aveva camminato così, con l’impressione, se era buio, che i suoi occhi fossero lanterne che illuminassero la via da percorrere. Così, badando ai propri passi, fingendo di non aver paura e pronti a sfuggire agli agguati, comminano coloro che hanno qualche nemico.
E la contadina credeva di averne uno. Non sapeva chi era, se uomo o donna, ma era certa di averlo.
Per quanto, ogni volta che andava a confessarsi, facesse con scrupolo l’esame di coscienza, non le riusciva di aver mai fatto male a nessuno. E non era vanitosa, non si curava dei fatti degli altri, non domandava a Dio che di vivere e morire in pace, lavorando, senza peccato: eppure un nemico ce l’aveva, e da lungo tempo, dagli anni della giovinezza. E in quel tempo si poteva spiegare l’esistenza di lui: forse era un pretendente respinto, o un vicino invidioso, o un parente offeso da ragioni d’interesse: forse lo stesso sagrestano che ancora pretendeva si pagassero alla parrocchia le decime, e le otteneva dai paesani superstiziosi. E lei era donna di coscienza; ma la sua roba non la buttava via così, per leggerezza o per paura.
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Fatto sta che il nemico si era manifestato più volte, perseguitandola di nascosto, ma in modo tale che parecchie delle sue cattive azioni ella se le era legate alle dita.
Ed ecco che ella solleva la mano destra, chiude il pugno che sembra un nodo di vecchio ramo, e aprendone poi una dopo l’altra le dita comincia a contare.
Dapprima la persecuzione di quando si era fidanzata col ricco mercante di legname e carbone. Non lo amava: pensava però che col matrimonio, i figli, la vita agiata, l’amore sarebbe venuto. Qualcuno, il nemico, andò a riferire al mercante ch’ella aveva già una relazione col cugino, e il ricco matrimonio andò a monte.
È vero che tutti sapevano della sua relazione col cugino, e nessuno si meravigliò quando loro due si sposarono: le maldicenze cominciarono dopo, sempre per opera del nemico. Il cugino era un bel ragazzo, molto innamorato della moglie ma poco del lavoro. Marala cominciò quindi a maltrattarlo e a rinfacciargli che per colpa di lui non s’era sposata col ricco mercante: questi modi, invece di spingere il marito verso la zappa e il campo, lo spinsero all’osteria. Furono tristi anni. Ella però avrebbe sopportato cristianamente la sua disgrazia, senza le mormorazioni della gente: brutte voci correvano sul conto suo; ch’ella bastonava il marito, che lo tradiva, che lo minacciava di morte. E tutti parteggiavano per lui, che oltre il conforto dell’osteria aveva trovato quello di qualche facile donnina pietosa. Così a lei restavano il danno e la beffa.
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Al ricordo di quei tempi Marala si ferma in mezzo alla strada, ancora assalita da un impeto di rabbia e di dolore.
— Era lui, era lui certamente che spargeva le calunnie sul conto mio: era lui che aizzava contro di me quel disgraziato del mio povero uomo, e ne ha causato la morte. Perchè senza tutte le nostre discordie il mio povero uomo non avrebbe bevuto fino a morire di un colpo. Lui, lui.
— Lui, — gridò, ancora esasperata dal ricordo. E l’eco nascosta nei macigni le diede ragione. — Lui.
Il nemico.
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E qui ritorna alla memoria il mercante di legname e carbone. S’era sposato anche lui, ma ogni volta che se ne presentava l’occasione, passava, sul suo bel cavallino sardo da montagna, davanti alla casa di Marala. Voleva farle dispetto o voleva farle la corte? Tutte e due le cose assieme. E poichè la faccenda continuò anche dopo la disgrazia del marito, lei, che non intendeva di essere sbeffeggiata oltre, un giorno affrontò il suo antico pretendente e lo caricò di male parole.
Senza scomporsi, egli scese di cavallo e la pregò di riceverlo un momento dentro casa. Voleva parlarle. Aveva modi insinuanti, ed era ben vestito, con gli orecchini, due catene d’oro e la pistola guarnita d’argento.
Ella lo ricevette. Egli tornò altre volte, anche di notte. Che male c’era? Ella era libera e poteva ricevere in casa sua anche il frate che passava per la questua, come infatti lo riceveva.
Ma il nemico stava all’erta. E se per il frate non fiatava, per il mercante ricominciò a soffiare sul fuoco della calunnia. Ricominciarono le persecuzioni. Alla moglie del mercante, che s’era mangiata un cocomero di tre chili, vennero i dolori di ventre: e Marala si vide in casa il brigadiere dei carabinieri in persona, che la interrogò a lungo: la interrogò circa il veleno ch’ella doveva aver fornito al mercante per liquidare la moglie.
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E per giunta il mercante non si fece più vedere. Chiusa nel suo campo intorno al quale aveva fatto mettere una siepe alta tre metri, Marala lavorava e piangeva. Pregava anche, ma arrivata alle parole del paternostro: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo....» si fermava. Si fermò ancora: ancora sedette sul parapetto della strada, come oppressa dalla stanchezza di tanti anni di solitudine e di umiliazione. E sospirò. Meno male, da quel tempo il nemico l’aveva lasciata in pace. Lei però passava veloce sulle parole del paternostro, senza impegnarsi circa la remissione dei debiti altrui.
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Una donna scendeva quasi di corsa la strada. Nel vedere e riconoscere Marala si fermò d’un botto e si fece il segno della croce.
— Non sono poi il diavolo, — disse lei con la sua voce d’uomo.
— Marala! Voi, voi! Io scendevo per cercarvi. E il Signore mi vi manda incontro! Come non farsi il segno della croce? Marala, Marala, amore santo, ho bisogno di voi.
— Peccato che non sia un maschio: sarebbe il momento di prendervi, tanto sembrate innamorata.
La donna le si inginocchiò davanti, le mise la testa quasi fra le ginocchia. Ansava, e davvero pareva basisse d’amore.
— Marala, mio figlio, che è garzone nel caffè dei villeggianti, ha commesso una cattiva azione: ha rubato cento lire al padrone, e il padrone mi ha mandato a chiamare perchè le rivuole entro oggi; altrimenti caccia il ragazzo in prigione. Ho pensato a voi. Marala. So che date denari a interessi....
Marala guardò su e giù per la strada, poi disse ad alta voce:
— Un corno, interessi! Aiuto qualche buon cristiano, quando capita l’occasione di fare del bene.
— Sì, lo sappiamo: siete una santa donna. Datemi le cento lire.
E poichè Marala la guardava quasi deridendola, l’altra riprese, sottovoce:
— Ve le renderò sabato, quando ritorna mio marito dalla foresta. Vi renderò cento venti lire.
— Non le ho, — disse burbera la vecchia. — Venite più tardi a casa e vedremo.
La donna si volse verso il cestino della roba, con le mani giunte.
— Non è il cestino col Bambino Gesù, — disse allora Marala, ridendo come una ragazza. — Ho già capito.
— Sì, Marala; datemi la vostra roba: la vendo io e poi vi rendo il cestino. Cento lire ci si ricavano di certo.
Marala aveva calcolato sulle ottanta lire: dignitosamente disse:
— Oh, se ne ricaveranno anche cento venti. Solo i polli valgono dodici scudi.
Sollevò con religione il fazzoletto che copriva la roba, e toccò con un dito i polli.
— Vedi, sono grassi, bianchi e teneri come bambini appena nati.
*
Così Marala si risparmiò la fatica di andare fino alla stazione dei villeggianti. Ma appena la donna scomparve in alto come divorata dal macigno mostruoso che si sporgeva alla svolta della strada, ella sentì distintamente una voce:
— Usuraia.
Si sporse a guardare. Giù nel torrente turchino della valle i pastori lavavano il gregge prima di tosarlo, e una donna coglieva i frutti di un ciliegio più rosso che verde. Sembrava il paradiso terrestre, e Marala si sollevò col cuore in pena. No, la cattiva voce non poteva venire di laggiù. Piuttosto dall’alto della strada, dai macigni che sembravano grandi diavoli con la barbaccia verde e le corna di rami secchi. Lassù stava nascosto lui, il nemico. L’aveva aspettata per anni, in diabolico agguato, e adesso avrebbe ricominciato la persecuzione.
Un senso di follia le ottenebrò la mente. Nascoste fra i macigni le parve di sentire a sogghignare le persone alle quali dava in segreto denari a forti interessi: ma queste, no, non potevano tradirla: erano persone dignitose che non confessavano di aver debiti.
Gridò infuriata, sfidando i macigni:
— Chi sei dunque, per Dio?
L’eco rispose:
— Io.
E lei sentì che era finalmente la sua coscienza a rivelarle il nome del suo vero nemico.