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132 | il sigillo d'amore |
Entro anch’io da Fedele, con la convinzione che quella mattina si doveva una buona volta rompere il lungo armistizio. Facevo i più brutti pensieri sul conto suo: che mi rubasse sulla spesa, che ricevesse donne in casa, quando io non c’ero, che parlasse male di me con la gente del mercato: quel giorno poi, tutte le cose sembravano sporche, e la colpa non era del tempo, ma sua. All’affacciarmi sull’uscio lo vedo al solito posto, davanti ai fornelli: tutto intorno è pulito e in ordine; anche il cestino con le verdure ha qualche cosa di elegante e di pittoresco.
Io non trovo nulla da ridire, ma volgendomi verso l’angolo dietro l’uscio vedo la cassetta per i rifiuti insolitamente aperta, e una goccia come di mastice sciolto che vi cade d’improvviso dentro mi fa sollevare gli occhi.
Un senso di allucinazione mi fa restare per un momento immobile e smarrita; davanti a me, appollaiato su un bastoncino collocato tra l’uscio e la parete, vedo un uccello nero, con un grande becco aquilino, e vicini fra di loro due occhi di un azzurro pallido che mi fissano severi.
— Che cos’è? — grido quasi impaurita, come se l’uccello misterioso fosse penetrato da sè nella mia casa con cattive intenzioni.
— È una cornacchia, — rispose Fedele, senza muoversi.