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168 | il sigillo d'amore |
tuccio: lo guardavo, poi guardavo il pesco fiorito, dietro i vetri chiusi, con l’impressione confusa che la vita dell’uomo, spegnendosi, accrescesse quella dell’albero. Oramai che sapevo la sua sorte mi sentivo quasi tranquilla; ma l’assistere al lento trapasso di un’anima da un mondo ch’è tutto luce e realtà ad un altro del quale ancora non conosciamo il mistero, è certamente pauroso e triste.
Eppure m’illudevo ancora: l’aspetto di Fedele non mi sembrava mortale: il suono stesso della mia voce, mentre tentavo di sottrarre il malato al suo affanno, parlandogli di cose inutili, mi dava un senso di vita. E fuori la grande giornata primaverile, il sole che tingeva di sangue roseo i fiori del pesco, i voli degli uccellini pazzi di gioia, tutto negava l’esistenza della morte. Oh, questa non esiste finchè siamo vivi noi.
*
Così lasciai la clinica dandomi la speranzza che Fedele migliorasse: il tempo buono aiuta il malato a guarire. Del resto io compivo il mio dovere verso di lui: se egli moriva non era colpa mia. E s’egli se ne fosse andato, un