Il secolo galante/Introduzione
Questo testo è completo. |
◄ | Il secolo galante | Madamigella Aisse | ► |
INTRODUZIONE
AD UNO STUDIO
SOPRA ALCUNE DONNE FRANCESI
DEL SECOLO DECIMOTTAVO
Un pregiudizio molto diffuso condanna nelle letture la forma romanzesca e vorrebbe che dalla storia sola si possano ritrarre vantaggiosi ammaestramenti; ma anche alla storia poi si fanno restrizioni scolastiche, e fuori delle guerre, delle cadute di imperi, delle morti di eroi, di incendi e di massacri, non pare utile occuparsi d’altro.
La divisione troppo rispettata fra studi seri e studi ameni rende spesso gli studi seri noiosi, quindi impopolari, e gli studi ameni superficiali, quindi sdegnati dai lettori intelligenti. Abbiamo da una parte i cultori delle scienze positive, della sociologia, degli studi classici; tutte persone gravi strette intorno alle grandi Riviste; e abbiamo dall’altra una schiera di novellatori che, affollando i troppo numerosi giornali della penisola, si lagnano di non trovare più il pubblico attento dei tempi del Boccaccio. Eppure nel risveglio intellettuale nostro parmi dovrebbe trovar posto quel genere di letteratura, fiorentissimo in paesi più culti, che sa accompagnare alla serietà della ricerca storica o della speculazione filosofica o dell’intento morale tutta l’attrattiva di un geniale romanzo, tale che ognuno può attingervi a seconda delle sue facoltà assimilatrici, come da cibo ben composto, i principii essenziali della vita.
È alle donne sopratutto che io pensavo componendo con pazienza e diletto il seguente studio. Quante volte ho udito ripetere quella frase od una consimile: «Io leggerei volentieri, ma i romanzi non mi interessano più e gli altri libri non mi divertono». Passata l’età degli amori, è pur vero che il romanzo non interessa più, almeno in una grande maggioranza di casi; eppure sfogliando le memorie, gli epistolari, le cronache del secolo che ci precedette, troviamo del romanzo la parte più vitale, quella che si rivolge non alla calda fantasia dei vent’anni, ma alla mente un po’ stanca, un po’ intiepidita e pur vigile dell’età che ricorda. loro che accusano il romanzo di non essere vero hanno qui la verità autentica, riconosciuta. Sono cuori che da cento anni e più cessarono di battere, menti che spaziarono nelle regioni elevate del pensiero e che al pari di noi sostennero le tormentose battaglie del dubbio. Sono i nostri predecessori, i nostri padri, essi che formarono non solo la sostanza del nostro sangue e dei nostri nervi, ma che diedero a tutta la nostra anima l’impulso, di idee nuove e di nuovi ideali. Cadono oramai in polvere sotto alle nostre dita impazienti gli anelli della catena che d congiunge ai Greci ed ai Romani, ma le tombe di questi passati, e pur tanto vicini ancora, danno ancora rose al nostro desiderio.
Lo studio del secolo XVIII trovò in Francia numerosissimi cultori e ne trovò pure in Germania e in Inghilterra. Qui da noi, slegati, divisi, assorbiti sempre nelle lotte politiche, rimase, si può dire, sconosciuto. Non bastò certamente a darne una idea complessiva in questi ultimi anni qualche raro bozzetto frammentario, o pubblicato separatamente in un giornale della domenica, o affastellato con criteri soverchiamente eclettici in una raccolta di medaglioni destinati, per causa del sistema, a confondersi nella mente del lettore. Tutt’al più alcune rare signore, avendo letto uno o due volumi di Memorie del tempo, trattennero nell’orecchio non assolutamente nuovi i nomi della Geoffrin o della Lespinasse, ma sono nomi che suonano a vuoto staccati così dal loro ambiente e dai personaggi contemporanei. Chi poi non ha letto nulla, e sono i più, conserva del secolo scorso una vaga idea di cipria e di minuetti dove nessuna figura virile emerge e dove le migliori qualità della donna sembrano aver fatto totale naufragio nella galanteria dominante. Infine molte persone non hanno neppure questa visione confusa, e a domandar loro chi furono la Geoffrin e la Lespinasse risponderebbero: favorite dei re di Francia! perchè effettivamente i romanzi più popolari hanno messo in scena talvolta le favorite dei re, giammai una di queste donne intellettuali e fini che diedero una caratteristica tanto spiccata ai costumi francesi del secolo XVIII.
Evocare tuttavia queste donne parzialmente sarebbe ora lavoro inutile, ma riunirle in modo che non si presentino più come perle staccate, ma veramente a guisa di una collana nel suo astuccio, è ciò che mi parve potesse tornar gradito tanto a coloro che non le conoscono quanto e forse più per chi, non affatto estraneo all’argomento, potrà dietro la vaga suggestione di un nome ricostruire la nozione precisa dei fatti e dell’ambiente. Sarà per costoro come riudire un’opera conosciuta con cantanti nuovi.
Prendendo quella parte del secolo che va dal 1720 alla vigilia della Rivoluzione, il quadro che mi propongo di tracciare racchiude i tipi femminili più interessanti e per sè stessi e per i rapporti che ebbero colla società vivente allora a Parigi: società Unica, completa, che riuniva in sè tutte le forze di una grande nazione e che non si potrebbe in alcun modo sostituire coi quadri ristretti e direi quasi provinciali dell’Italia d’allora, divisa in staterelli, ognuno dei quali conservava colla propria autonomia le proprie caratteristiche. Se noi abbiamo avuto una Albrizzi a Venezia, una Malvezzi a Bologna e qualche altra in altre città, si comprende però come tali donne divise e staccate non potessero riunire ognuno intorno a sè guel denso substrato di vita intellettuale che, concentrata tutta nella città di Parigi, portava da una riunione ad un’altra il calore comunicativo di centinaia di intelligenze eccitate ed alimentate nella emulazione. E questi ch’io ho raccolti, benché legati dalle tre unità di tempo, di luogo e di abitudini, sono tipi dissimili l’uno dall’altro, che rappresentano ognuno uno stato particolare dell’animo femminile. Così, mentre la Geoffrin dovrà lasciarci nella mente l’emblema del criterio direttore d’ogni altra facoltà, la Lespinasse ci parlerà il linguaggio ardente della passione amorosa; vedremo nella d’Epinay tutta la debolezza del sesso ammantata dalla sua grazia; nella Du Deffant l’ingegno mordace e il cuore arido; nella dolce Aissé la personificazione del sentimento pudico e racchiuso; nella d’Houdetót la foga dei sensi e della immaginazione; nella Genlis la caricatura di tutti i difetti del secolo. Perfino intorno al profilo evanescente della duchessa di Choiseul, che pare ritrarsi dalle sue contemporanee, l’antica grazia aristocratica disegna una linea di suprema nobiltà non priva di insegnamenti.
Sono figure che sì muovono nel ciclo di cinquanta o sessantanni, note l’una all’altra, vivendo nella medesima città non solo, ma quasi nella medesima cerchia di amici, per cui la conoscenza dell’una completa quella delle altre e ci avverrà, lungo il corso di queste pagine, di incontrare sovente le stesse persone come avviene appunto in casa di amici, dove lo schiudersi dell’uscio reca non una presentazione ma una ricognizione; e qui, come là, la compagnia dovrà farsi per questo sempre più interessante, più calda di intime correnti. Per la visione esatta e personale di queste donne, il lettore riuscirà a distinguerle così bene nella sua mente da trovare egli stesso ad ognuna l’aggettivo proprio, quasi la personificazione di un carattere; le vedrà muoversi in tante pose diverse da non rendere possibile la confusione. Una lettera del tempo dice per esempio: «La contessa d’Houdetót entrò (nel salotto) come una pazzerella», ma non potremo mai immaginarci a questo modo una entrata della signora Geoffrin; e pensando alla Lespinasse che covava ansiosamente l’uscio cogli occhi aspettando le notizie del suo amore, la fantasia ce la rappresenta concentrata e muta. Vedremo leziosa sempre la d’Epinay; fredda e cinica la Du Deffant; riservatissima madamigella Aïssé, questo fiorellino raro del mazzo. Esse non sono solamente le donne del secolo XVIII, sono le donne di tutti i tempi, buone, mediocri e pessime, ma riesce interessante lo studiarle così vere ed eterne sotto i loro nèi effimeri, nel dolce incantamento delle cose passate per sempre!
Un’altra ragione ancora ci fa volgere di preferenza gli occhi sulla società francese quando si tratta di secolo XVIII ed è la pagina sanguinosa che essa doveva preparare alla storia, pagina indimenticabilmente tetra, solcata da profondi bagliori. Finché il sentimento di solidarietà umana accenderà nei nostri cuori la sua opera continuatrice, noi non ci stancheremo più dal frugare in queste ceneri palpitanti, tanto più suggestive per la violenza del contrasto fra la preparazione e l’epilogo.
A rievocare la cornice graziosa e barocca del quadro dove agiscono i nostri personaggi gioverà il ricordo di certi mobili, di certi oggetti che si conservano ancora nelle antiche famiglie agiate, dove vediamo i ritratti delle bisavole colle pettinature rialzate sulla fronte, bizzarre, alla belle Poule, alla Montgolfier, al Parterre galant; coi fichus destinati a velare più o meno lo scollo dell’abito e colla posa o languida o provocante ma ad ogni modo complicata nella ricerca persistente dell’effetto, con un fiore o con un libro in mano, la bocca composta ad un sorriso di ciliega che sboccia. Era il tempo del guanto destro tagliato nel pollice e nell’indice perchè la dama, anche in visita, potesse agevolmente approfittare della tabacchiera che le veniva offerta: tabacchiera ampia, rotonda, ornata quasi sempre da una miniatura che per essere in costume di Ninfa non rappresentava meno un ritratto ben reale. Tutto ciò accompagnavasi ai cassettoni panciuti con applicazioni e maniglie in metallo lavorato; alle poltrone e ai divani ricoperti da ricami al canovaccio ispirati a soggetti teneri, galanti; alle alcove dove affondavano i letti, ai paraventi, ai parafuochi, ai
Il secolo galante | 2 |
piedi in forma di esse, alle placche da appendere al muro collo specchietto e con due candele davanti, agli scrigni a doppio fondo ricchi di innumerevoli cassettini, ai bauletti, ai cofani di lacca chiara dipinti con scene pastorali, ai telai dove le signore passavano molte ore del giorno ricamando e che si fabbricavano coi legni più preziosi; ebano, rosa, cedro.
Gli armadi avevano una ampiezza chimerica; nel loro ventre misterioso si celavano non solo gli abbondanti approvvigionamenti di biancheria, vanto d’ogni padrona di casa, ma nascondendo spesso un gabinetto od una scala segreta servivano pure di comodo scioglimento a molti drammi intimi. Uno scandalo d’allora fu il caminetto montato sopra un perno girante che dalla camera della signora della Popelinière apriva il varco alla casa confinante abitata dal duca di Richelieu, il quale non si trovava affatto alle sue prime armi.
Ed era il tempo dei giardini tagliati a scacchiera, cogli alberi trasformati in anfore, in piramidi, in parrucche; il tempo del parfilage (una sciocca moda di sfilacciate le stoffe e le frangie dorate); dei travestimenti, dei ritratti a penna dove tutti si lodavano a vicenda; delle canzoni, degli epigrammi, dei brindisi scritti in forma di coppa, dei salassi che si ordinavano per qualunque malattia del vaiuolo a cui pochi sfuggivano; il tempo dei prodigi infantili di Mozart, delle dispute fra Gluckisti e Piccinisti, delle corrispondenze interminabili giustificare dalla mancanza di giornali e dal servizio difettoso della posta. Una diligenza (dice un contemporaneo) partiva dai principali capoluoghi due volte alla settimana ed era tutto per il movimento degli affari. Un solo giornale, la Gazzetta di Francia, usciva anche quello due volte alla settimana ed era tutto per il movimento, intellettuale.
Si capisce che le lettere private dovevano tenere un gran posto nella vita, quelle lettere che non si potevano nè spedire nè ricevere tutti i giorni; e se lo scrivente era una persona nota, se dava notizie della Corte o di qualche pettegolezzo, se faceva pompa di spirito e di bello stile, la lettera girava di mano in mano, letta, riletta, commentata, conservata con ogni cura in quei famosi cofanetti, in quegli stipi dagli innumerevoli ripostigli. è questa l’origine degli epistolari che non furono mai così numerosi in nessun altro secolo, talmente radicati nel costume da originare il romanzo per lettera di cui i maggiori esempi furono per la Francia la Nuova Eloisa di Rosseau, Pamela di Richardson in Inghilterra, il Werther e l’Agatocle in Germania, l’Iacopo Ortis in Italia; e poi le Lettere inglesi di Voltaire, le Lettere persiane di Montesquieu, una intiera fioritura del genere.
Noi, frettolosi abbonati delle cartoline postali, tutti noi che in una lettera mettiamo colle minori parole possibili lo stretto necessario, stentiamo a farci un’idea di quella svariata collezione di lettere dove ogni corrispondente maschio o femmina appare uno scrittore, tanto era l’impegno di dire bene quello che si pensava e tanto era abituato il pensiero ad aggirarsi fra le spire sottili dal ragionamento e del sofisma, agile ed alato, reso duttile dalle frequenti discussioni filosofiche che non sembravano allora un triste privilegio dei pedanti, ma che erano ammesse in ogni conversazione e devano di prammatica le liete cene alternando un madrigale ad una definizione dell’anima.
La storia di quel secolo, che fu scritta per intero nelle canzoni e negli epigrammi, ebbe a collaboratori tutti coloro che sapevano tenere una penna in mano: l’ozio, l’abitudine del filosofare e la vanità di sapere la propria lettera ammirata da tante persone facevano raccogliere con premura i bei motti e le satire eleganti per infiorare la propria corrispondenza o per farne sfoggio nei salotti. Le guerre dei letterati, la politica e la galanteria servivano egualmente di tema. Voltaire, che dal suo posto elevato era fatto segno a moltissime ire, rispondeva agli attacchi del mediocre e invidioso Fréron con questi versi:
L’autre jour au fond d'un vallon |
Il mite Marmontel fu portato in giro per le conversazioni con una specie di ritratto-caricatura dove il veleno si rifugia nell’ultimo dardo.
Ce Marmontel si long, si lent, si lourd, |
Nel matrimonio di Luigi XV con Maria Leczinka la sposa non fu risparmiata. Ecco che cosa le dedicarono:
Les Dieux vous ont conduite au printemps de votre age |
Quando poi Luigi XV, che era scampato al pugnale di Damiens, morì di vaiolo nel 1774, venne pianto con questo distico:
Ci-git Louis quinze, pauvre roi! |
E non doveva mancare l’epigramma empio:
Ci-git un dieu qui se fit homme |
Secolo socievole, dice Taine, dove con sei barzelette, trenta motti spiritosi e un po’ di uso di mondo, un uomo aveva la certezza di essere dovunque bene accolto. Secolo galante, che permetteva ad un cavaliere, per rendere omaggio ad una signorina, di rapirle una calza e portarsela trionfalmente sul cappello a guisa di piuma. E il valletto di un gentiluomo, avendo osservato dalla Finestra una dama attraversare la via senza che vi fosse alcuno a sorreggerle lo strascico, si precipitava sui di lei passi esclamando: «Non sarà mai detto che il servitore del marchese di*** abbia lasciato una dama sola a reggersi lo strascico». Secolo allegro che vide un re (Stanislao Leczinki, suocero di Luigi XV) accompagnare alla fiera una bella signora (la marchesa della Ferté-Imboault), e poiché ella vi aveva acquistato quindici soldi di quei nastrini che i Francesi chiamano faveurs, sollevarli e agitarli al di sopra della sua testa gridando a squarciagola: «Quinze sols! Quinze sols les faveurs de madame la marquise!» con grande divertimento del pubblico.
Allora, come adesso però, i rancori erano all’ordine del giorno e chi voleva, senza tingersi le dita nell’inchiostro, lanciare una satira velenosa, trovava un Gilbert astioso e pieno di fiele che per un lieve compenso vendeva il proprio ingegno:
Au banquet de la vie, infortuné convive, |
Leggendo questi versi nelle antologie dove si avverte come realmente il poeta morisse giovane, quanti cuori sensibili si sono commossi! E non è ancora così?...
E allora come adesso appena un libro otteneva fortuna, sorgevano a frotte gli imitatori e vi era, come vi è, innondazione di scrittori sciocchi, maligni e presuntuosi. Abbondavano anche allora le traduzioni fatte a casaccio, senza scelta, pur di tradurre, per modo che i buoni libri tradotti erano rari e molti i pessimi. Infine anche allora si diceva che il secolo era prosaico, che nessuno leggeva più versi, la qual cosa però non impediva che tutti ne facessero a profusione. E di scrittrici pure e di poetesse ve n’era una caterva, fra cui una certa signora du Bocage pubblicò un poema ornandolo del proprio ritratto col motto modesto: Forma Venus, arte Minerva; e si ebbe anche allora una agitazione femminista, si fondarono società e vi furono congressi di donne.
Dei pittori celebri che la signora Geoffrin accoglieva ai suoi pranzi del lunedì abbiamo sott’occhio brevi monografie che non ci sarebbe difficile sostituire con nomi moderni: «Carlo Vanloo, rinomato specialmente per la bellezza del colorito, possedeva tutto il talento che un pittore può avere senza il genio. Vernet era ammirabile nell’arte di dipingere l’acqua e la luce. Latour, pieno di entusiasmo si trovava umiliato quando gli parlavano di pittura e il suo entusiasmo lo impiegava a filosofare per dritto e per traverso.
Infine Boucher, debole di colore, aveva del fuoco nella immaginazione, ma pochissima verità e nobiltà ancor meno.... il n’avait pas va les Gràces en bon lieu» — precisamente come qualcuno dei moderni.
Ma non è tutto. Alla metà del settecento vediamo la geometria trionfare della metafisica che aveva prima tenuto sì alto seggio ed a sua volta agonizzare quindici anni dopo, dando luogo a dissertazioni ed a prove pro e contro, come ora per altre forme del pensiero. In quanto ad igiene, teneva luogo di esercizi sportivi il gusto per la caccia, diffusissimo; i signori che vivevano ancora sulle loro terre erano tutti grandi cacciatori ed erano anzi frequentissime le lagnanze per i danni che tali caccie sfrenate recavano alle coltivazioni. La pulizia, a dir vero, non aveva progredito molto da quando Luigi XIV faceva i suoi lavacri mattutini con un po’ d’alcool versato sulle dita; ma vediamo madamigella Lespinasse che dando il rendiconto di alcune corse fatte nella giornata vi acclude una messa ed un bagno. Vediamo il dottor Tronchin precedere i nostri igienisti col raccomandare alle sue clienti la passeggiata mattututina e l’esercizio muscolare, e vediamo Buffon che, senza destare gli scandali e le recriminazioni suscitate più tardi da Schopenhauer, dichiara tranquillamente essere l’amore fisico il solo che esiste in natura.
Confronto ultimo e impressionante. Nel mondo delle idee uno scrittore sommo, Voltaire, prodiga Ingegno, popolarità, danaro, riposo per far rivedere un processo iniquo, per salvare l’onore di un uomo, Calas!
La prodigalità, il lusso, la mania dello spendere toccavano qualche volta il parossismo. Noi siamo abituati a citare come caso unico la perla ingoiata da Cleopatra; ma il principe di Conti volendo offrire ad una signora la miniatura del canarino che le era morto, la fece chiudere nel castone di un anello, sopra il quale pose, a guisa di vetro, un grosso diamante assottigliato per la circostanza, e siccome la signora, accettando la miniatura, respinse il diamante, il principe lo fece macinare e ne sparse la polvere sul biglietto che le scrisse in risposta. Non è vero che questo aneddoto raccolto da Taine è molto più raffinato? È ben vero che il principe di Conti apparteneva alla Corte e la Corte allora era la quintessenza della raffinatezza riunita e perfezionata da parecchie generazioni. «Occorrono — dice l’autore dell’Ancien Régime — centomila rose per fare un’oncia sola della senza che serve ai re di Persia; così era la gran sala di Versailles, delicata anfora d’oro e di cristallo contenente la sostanza di una vegetazione umana».
La Reggenza che era stata proclamata alla morte di Luigi XIV nel 1715, trovandosi ancora infante il futuro Luigi XV, pose a capo di quella Corte Filippo di Francia duca d’Orléans, che per ingegno, per cultura, per spirito, diede molto a sperare di sè nei primi anni e seppe durante la minore età del suo pupillo conservare la pace nel regno in mezzo alle violenti discordie dei partiti, ma che circondato da cattivi compagni si abbandonò alle maggiori dissolutezze affidando il suo nome, più che alla storia, alle cronache galanti onde il secolo doveva essere così ricco. Era intorno a lui che si aggruppavano la Tencin, la Du Deffant, la Parabère — quanto dire la malvagità, l’egoismo, la lussuria rappresentate nella forma di tre belle donne — e invano la principessa madre, la buona principessa Palatina, che aveva la faccia e il contegno di un guardaportone, se ne affliggeva lagnandosi nelle sue lettere intime ai parenti. Quale argine poteva opporre la sua onesta rudezza di donna brutta e trascurata alle seduzioni di tutte quelle dame, agli esempi di amici come Richelieu e di precettori come Dubois, del quale si diceva: « c'est du bois dont on fait ls cuistres? » Vi è nelle cronache della Reggenza il racconto di un capriccio di Filippo d'Orléans per una povera fanciulla, alla quale si fece egli stesso credere povero per meglio adescarla, che potrebbe bene avere ispirato a Victor Hugo la prima idea del dramma Le roi s'umuse.
Attraente tuttavia, in mezzo ai disordini della sua vita, questo principe nato dal più assurdo connubio eppure bello e intelligente come un figlio dell'amore. Suo padre, fratello di Luigi XIV, era quell'effeminato Monsieur che portava veli e gioielli al pari di una donna, che passava le giornate coi suoi mignons a profumarsi ed a guardarsi nello specchio e che avendo sposato in prime nozze la leggiadra Enrichetta d'Inghilterra si mostrava geloso, non delle passioni che ella poteva ispirare, ma del successo delle sue acconciature. E dopo che Bousset dal pergamo, ebbe annunciata l'improvvisa morte di Enrichetta colle parole che rimasero celebri «Madame se meurt, madame est morte!» si fece sposare a Monsieur la figlia dell’Elettore Palatino, che fu poi la madre del Reggente, colei; che Saint-Simon, ha ritratta in una sola parola: la figura di un guardaportone; da lei stessa confermata perchè la povera donna conosceva appieno le imperfezioni del suo fisico massiccio, grossolano, de’ suoi piccoli occhi e delle sue grandi mani, delle quali confessava con umiltà non aver mai viste le ] peggiori. Discesa da Heidelberg con un bizzarro colletto di pelo che doveva conservare il suo dome (la Palatina) e lanciata nel mezzo della Corte più brillante, nel confronto di dame avvenentissime, a fianco di un marito col quale sembrava che si fossero scambiati i sessi, la disgraziata principessa fu la prima ad arricchire gli archivi di un numero strabocchevole di lettere, dirette quasi tutte a’ suoi parenti tedeschi e dove ella si sfogava m termini energici, veritieri e spesso anche conformi è d’uopo dirlo, più allo stile di un guardaportone che a quello di una principessa.
Il piacere liberato da qualsiasi scrupolo, la passione per il giuoco e per la mensa si estendevano da Versailles, centro della Corte, alla città di Parigi, dove un’altra aristocrazia, quella dell’ingegno, teneva le sue piccole corti chiamate bureaux d’esprit un po’ qui, un po’ là, nella via di Sant’Onorato e nel sobborgo di San Germano, dove, invece di giuocare, si discuteva filosoficamente. Tre di questi salotti riunivano in modo speciale tutte le condizioni della celebrità e furono senza dubbio quelli della Geoffrin, della Du Deffant, della Lespinasse; i due ultimi più vicini alla signorile distinzione dell’alta società per la nascita e per l’educazione di che li dirigeva, più splendente forse di ingegno ma più alla buona il salotto della signora Geoffrin, borghese semplice di modi e di costumi, nel quale tuttavia Marmontel trova che non c’era abbastanza libertà di pensiero, perchè la padrona di casa non voleva tollerarvi la boccaccesca licenza della parola tanto in uso e tanto tollerata altrove; per esempio, in casa di Helvetius (così sincero nella intimità quanto fittizio appare ne’ suoi scritti) e del barone d’Holbach, questo tedesco dalla larga cultura e dal largo censo, che l’una e l’altro impiegò nobilmente a favorire lo sviluppo delle lettere e delle scienze; grande materialista, grande amico di Grimm, di Diderot, di d’Alembert, coi quali collaborava alla Enciclopedia e che riceveva in casa sua Hume, Sterne, Beccaria, Verri, Galiani, Garrick, Franklin, Rousseau.
Queste gaie riunioni del barone d’Holbach continuavano poi nella calda stagione al Grandval, proprietà campestre della signora Aine, suocera del barone, e incitati da questa signora vi si facevano e vi si dicevano le più stupefacenti cose del mondo, là in quel salotto che è facile immaginare riscaldato dai fumi della cena e delle discussioni che gli uomini agitavano intorno alla tavola, mentre le donne, riunite sull’ampio divano in fondo, gettavano di tanto in tanto il loro razzo nel fuoco d’artificio, appoggiando sui larghi sgabelli i piccoli piedi. Ma contrariamente alle altre conversazioni che ricevevano il tono da una donna, in casa del barone d’Holbach, il padrone, ad onta di tutto, restava lui. Sua suocera era troppo volgare, sua moglie — una almeno delle sue mogli, perchè morta la prima sposò la seconda sorella — era una soave creatura che Diderot ci mostra curva sul telaio da ricamo, in una attitudine modesta e graziosa, arrossendo, con amabile imbarazzo alle ardite argomentazioni della sua terribile madre e non occupandosi affatto di prendere il bastone del comando, galleggiante, abbandonato nel flusso e riflusso di quella marea torbida.
Curiosissima l’ospitalità patriarcale di quel secolo, dove la maggior parte di coloro che non avevano da mangiare in casa propria trovavano sempre, o sotto un titolo o sotto un altro, il modo di stabilirsi in casa altrui. Il piccolo castello di Mayac, per esempio, proprietà della famiglia d’Aydie che non era molto ricca, vedeva arrivare qualche volta all’ora del pranzo una comitiva di dodici o quindici commensali improvvisati; i giovani a cavallo, i vecchi in lettiga, ciascuno accompagnato da due o tre persone di servizio. La brigata entrava rumorosamente nelle sale intanto che in cucina si spennacchiavano alla lesta polli, si rompevano uova, si improvvisavano focaccie, e le cataste di legna si ammucchiavano scoppiettando sotto agli ampi camini. Nelle altre camere venivano allestiti i letti (due o tre persone per letto, forza maggiore), gli uomini da una parte, le donne dall’altra; anche nei corridoi quando non c’era più posto altrove. Era il tempo in cui si trovava molto spiritosa l’idea di cucire nascostamente le lenzuola perchè uno non potesse coricarsi, o di fargli sparire gli abiti perchè non si potesse vestire, o di mettergli della crusca nel letto, della paglia nelle scarpe, della sabbia in tasca, pur di fare la burletta. E si rideva, si ciarlava, si mangiava, si improvvisavano giuochi e travestimenti, balletti e commediole, tutto con una larghezza, una noncuranza una festività di gente felice e spensierata che mostrava di comprendere appieno la filosofia del grande pontefice imperante, Voltaire. «Rien de trop ni de trop peu en tout genre; buvez chaud quand il fait froid, buvez froid dans la canicule; dìgérez, dormez, ayez du plaisir et moquez-vous du reste» la quale massima aveva però il difetto di venire bandita da un uomo che possedeva centomila lire di rendita.
Voltaire! ecco il grande scrittore di un tempo che pure ebbe tre scrittori di primo ordine: Montesquieu, Diderot, Rousseau, ma più grande per l’impronta d’aquila che seppe imprimere. Impronta vanamente raschiata da Rousseau, il quale non giunse col suo sentimentalismo falso e briccone a cancellare lo scetticismo sincero del poeta che diede il suo nome al secolo.
Avido, violento, maligno, non sempre illuminato nei giudizi come lo provo quello che diede su Dante Alighieri, il patriarca di Ferney era per altro generoso di soccorsi ai parenti ed ai confratelli bisognosi, alloggiando per parecchi mesi intere famiglie. Veramente l’ospitalità senza limiti è una delle caratteristiche singolari di quella società. Egli stesso, il signore di Voltaire, abitò per tre anni consecutivi nel castello di Cirey nell’alta Marna, di proprietà del marchese di Châtelet, e questo non per bisogno certamente, ma per i begli occhi della marchesa. Quanto a lui, il marchese, pago dell’onore di ospitare il grande poeta, non trovava nulla a ridire — era anche la tolleranza senza limiti nelle abitudini del tempo — e lasciava che Voltaire e sua moglie facessero tranquillamente gli onori di casa ai compiacenti visitatori.
Non fu tuttavia la marchesa di Châtelet una donna che sapesse formarsi centro di un salotto; le mancava il talento ed il gusto del ricevere; era colta, troppo colta forse, poiché sapeva l’inglese, l’italiano ed il latino, traduceva Virgilio e Franklin Newton, leggeva Locke e Leibnitz, scriveva libri d’algebra e di astronomia, ma infine non aveva nè il tatto squisito della Lespinasse, nè lo spirito della Du Deffant, nè il calore benefico della Oeoffrin. Il presidente Iiénault descrivendo una visita fatta a Cirey dice: «Li ho trovati che facevano l’uno dei versi, l’altra dei triangoli.» Di versi la marchesa ne fece uno solo, latino, che fu inciso sulla tomba provvisoria di Voltaire nel chiostro dell’Abbazia di Scellière.
Post genitis hie carus erit, nunc carus amicis.
Oltre che donna colta la marchesa era donna galante. Già compromessa col duca di Richelieu, ostentò per quindici anni la relazione con Voltaire, e quando il poeta filosofo carico d’anni e di malanni le cantò malinconicamente:
Si vous voulez que j’aime encore |
ella cercò da prima una diversione nel giuoco, perdendo in una sera sola ottocento luigi che aveva con sè e ottantaquattromila franchi su parola, poi trovò da consolarsi meglio col marchese di Saint-Lambert, che faceva versi alquanto inferiori a quelli di Voltaire, ma che aveva vent’anni di meno. Disgraziatamente ne contava lei dieci di più del suo nuovo amante e queste passioni tardive sono sempre fatali. A quarantatrè anni morì dando alla luce una bambina. Voltaire, Saint-Lambert e il marito circondarono i suoi ultimi istanti di cure pietose, ma non poterono impedire che circolasse, more solito, l’epigramma di circostanza:
Cig-git qui perdit la vie |
La spudoratezza di tali relazioni, dove mogli, mariti ed amanti vivevano insieme nel migliore accordo, sorpassa certamente l’istituzione italiana contemporanea del cavalier servente, il quale era, nella maggior parte dei casi, impiegato solo per la comparsa; e la libertà del linguaggio, il genere degli scherzi, la parola cruda che le più grandi dame nonché tollerare pronunciavano imperterrite sotto la maschera del belletto e dei nèi, destano la nostra meraviglia.
C’è però un confronto curioso già osservato da quello scrittore coscienziosissimo che è Carlo Déjob (nome che ogni italiano dovrebbe conoscere ed amare se non altro per riconoscenza ove non fosse già degno di ammirazione per la nobiltà dell’ingegno) nel suo recente studio sulla commedia del secolo XVIII. In mezzo a tanta immoralità di costumi, il teatro si conservava relativamente casto. «Non è un peccato — conclude il Déjob — che si abbia a rispettare meno oggi il pubblico in teatro che non ai tempi in cui Luigi XV aveva tante favorite e la grande Caterina tanti amanti?» Gli è che il buon gusto che allora serviva di freno a quella vecchia società corrosa nelle intime fibre, non avrebbe sopportato la promiscuità grossolana del pubblico nei suoi divertimenti. Si può immaginare madamigella Lespinasse, la quale sveniva all’udire una frase volgare, assistere a rappresentazioni del genere del Tacchino o dell’Albergo del libero scambio? Non credo nemmeno che la marchesa Du Deffant, per quanto poco suscettibile di scrupoli, le avrebbe trovate convenienti, e certo la signora Geoffrin, ravvolgendosi nella sua mantiglia, avrebbe lasciato il palco mormorando il suo celebre: Voilà qui est bien, col quale frenava in casa sua gli sdruccioli della conversazione. Oh! la signora Aine, quella sì, si troverebbe a tutto suo agio nel repertorio moderno, ella che certamente doveva sbadigliare all’Orfeo di Gluck; ma è sicuro un peccato che mentre il livello morale delle famiglie tende notevolmente a rialzarsi e la dignità del vincolo coniugale assurge a sempre più alto concetto, la sensibilità pubblica sia poi così scarsa da permettere che donne oneste assistano senza nessuna indignazione a spettacoli degni solo di una madama Aine.
La signora d’Epinay racconta nelle sue Memorie una tipica conversazione — tipica appunto per il modo col quale vi sono trattati argomenti scabrosissimi — alla quale assistette in circolo ristretto in casa di una attrice, anzi alla mensa, perchè le attrici allora facevano concorrenza alle signore nel chiamare intorno ad una tavola imbandita tutto ciò che vi era di meglio in fatto di gentiluomini, di filosofi, di poeti.
E le attrici del secolo di cui parliamo, raccogliendo l’eredità della Lecouvreur, si chiamarono Gaussin, la bellissima; Clairon, l’amabile; Sofia Arnould, l’intelligente; e Dusmenil e Dugazon, tutte ricche di amori e di follie, fino a quella madama Riccoboni che volle aggiungere agli allori di Talia la fronda di romanziera; una malinconica idea non venuta ancora, ch’io sappia, ad alcuna delle nostre attrici.
Il disaccordo fra gli scritti e le opere era del resto tra i filosofi tanto comune quanto fra il teatro e la vita. Dopo di essersi divertiti colle solite storielle grassoccie che stavano a guisa di piatto d’obbligo tra la pera e il cacio e dopo averle comunicate per lettera all’amica del cuore (vedi Diderot); prendendosi l’una via l’altra le mogli degli amici (vedi Saint-Lambert); e mandando i propri figli all’ospedale (vedi il sovranamente antipatico Rousseau), questi signori dissertavano in modo ammirabile sulla virtù e sulla morale. Troppo deboli forse per praticare essi stessi quella che chiamavano con tanta compunzione la virtù, le rendevano almeno il tributo rispettoso che si concede ai morti, quando il lugubre convoglio ci passa accanto rompendo le file gioconde della vita. Lo sapevano bene gli spensierati gaudenti, che in quel crogiuolo dove facevano fondere gli averi e resistenza si consumava un tesoro anche più prezioso, la forza dell’ideale, ma spinti ciecamente alla rovina polverizzavano come il principe di Conti i loro diamanti per cospargerne i madrigali delle belle.
Uno però di questi pazzi dell’ingegno splendente merita una particolare simpatia ed un più lungo indugio per il calore e per la luce che uscivano a fiotti dalla sua anima, per la sincerità delle sue passioni, per l’ardore della sua sensibilità. «Chi non ha conosciuto Diderot che nei suoi scritti non lo conobbe punto. Bisognava ascoltarlo quando, parlando, tutto il suo volto si illuminava e la sua grande cultura non era che la pronta ancella di una intelligenza spontanea e piena di fuoco. Tutta l’anima gli veniva allora negli occhi e sulle labbra». Così dice di lui un amico; ma anche forzati a giudicarlo dai soli scritti, basta leggere le lettere a Falconet e quelle a madamigella Voland perchè da queste pagine famigliari si vegga sgorgare appieno la genialità. Genialità che resiste alle prove, talvolta molto dure, cui sono costrette tutte le nostre opinioni sulla decenza e sulla convenienza e che ci fa comprendere alla fine l’attitudine sorprendente di Caterina II, che pur di godere la sua conversazione si lasciava pizzicare i ginocchi e sbattere in faccia la parrucca. È ben vero che Caterina II era molto dei suoi tempi, ma infine si tratta di una imperatrice! Brutale dunque negli atti, senza freno nella parola, marito di una donna e amante di un’altra, ma con tutto questo tanto alto fra contemporanei per l’ampia, profonda, schietta facoltà d’amare!
Nato da una famiglia di coltellinai a Langres, in Sciampagna, aveva disertata la professione che da un secolo i Diderot si trasmettevano di padre in figlio, attratto dalle vette luminose del pensiero: poi si era innamorato di una povera ragazza che sposò per la sua fresca bellezza, ma che non poteva in alcun modo corrispondere ai bisogni del suo temperamento passionale e della sua viva intelligenza; matrimonio sproporzionato ed infelice, del quale cercò, ardente come egli era, un pronto compenso, e trovollo nella relazione con madamigella Voland. Ei non fu in ciò molto dissimile da Rousseau, da Grimm, da d’Alembert, da Saint Lambert; solo però ebbe in mezzo a tutti gli uomini del suo tempo e, — singolare a dirsi, anche in mezzo alle donne — la nota gentile della simpatia per l’infanzia. Invano leggendo attentamente lettere e memorie del secolo XVIII si cercherebbe il bambino. Dove erano i bambini? Chi se ne curava? Chi li amava? Possibile che fra tante corrispondenze famigliari, non sorga mai viva e schietta revocazione di un fanciullo? Di educazione scrivevano Rousseau e la Genlis, è vero, ma con tutta l’artificiosità delle loro anime vane, smentendo nella vita la retorica delle loro composizioni letterarie. De’ suoi figli parla tratto tratto la signora d’Epinay e certo li amò, ma l’amore materno è in lei debole al pan d’ogni altro affetto, e quanto alla figlia della signora Geoffrin, essa non tenne nella sua vita che lo spazio di una culla. Resta la buona, la dolce Aïssé, che almeno andava, a trovare prima dalla nutrice, in seguito al convento, la piccola furtiva creatura avuta dal cavaliere d’Aydie. Tuttavia non ci troviamo ancora davanti al vero amore per il bambino. Questa rivelazione, che nessuna donna del secolo ha saputo darci, la dobbiamo a Diderot, il filosofo materialista, l’uomo licenzioso, l’autore della Religiease!
Nelle lettere sensuali a madamigella Voland, la nota delicata appare e riappare, insistente, spontanea, fresco zampillo di una sorgente pura che scorre sotto la melma. Quando una signora sua semplice conoscente perde una bambina, quale parte egli prende ad un simile dolore! Per parecchi giorni le tiene compagnia, la consola, la conforta; è tutto invaso e penetrato da quelle lagrime materne. Sempre a proposito di bambini e del modo di istruirli giuocando, scrive: «Si può dir loro delle ottime cose, tanto sopra una bambola o un cenciolino, quanto sugli affari più importanti.» Egli comprendeva l’infanzia, comprendeva il sottile congegno delle menti tenerelle, ne divideva le gioie, soffriva i loro dolori. Biasima ferocemente l'attrice Sofia Arnould, che abbandona il proprio amante «perchè ne aveva due figli.» Per la sua propria figliuola sente una tenerezza straordinaria; la descrive, se ne compiace, spasima per le malattie che ha, vorrebbe educarla lontana dai pregiudizi e dalle idee un po’ grette di sua moglie. Il suo amico Suard, da lui stesso definito « una delle anime più belle e più tenere,» gli manda in busta aperta un libro inglese, pieno di figure invereconde, ed egli si indigna, si esalta, quasi si dispera, pensando che avrebbe potuto cadere nelle mani di sua figlia. Caldo, sincero, passionale, Diderot spicca in rilievo sul fondo lezioso dei salotti, dove le signore non lo tolleravano troppo volentieri in causa delle sue intemperanze, egli se ne distacca e ci appare solitario, coi difetti e colle qualità di un gran cuore esuberante.
La signora Geoffrin, la testa femminile più solida del suo tempo, ha tracciato nel suo modo di contenersi con Diderot l’elogio e la critica insieme di quest’uomo eccezionale, perchè non lo riceveva in casa, ma lo colmava di benefizi. Egli dovette a lei di poter continuare il lavoro della Enciclopedia, che per le mene dei Gesuiti soppresso, poi ristabilito e soppresso ancora definitivamente da Luigi XV, che gli tolse ogni sovvenzione, sarebbe caduto se la signora Geoffrin, col suo inesauribile ingegno benefico, non fosse intervenuta a pagare le spese dell’editore. Non so se di questa generosità le furono grati i quattromila sottoscrittori del celebre dizionario — e Diderot stesso — ma per essa il nome della signora Geoffrin resta legato in perpetuo ai migliori nomi della Francia contemperanea.
Una malanconica considerazione ci viene suggerita dal fatto che l’ardore sincero di Diderot non fece proseliti, che il suo sentimento profondo andò perduto, mentre il sentimentalismo a freddo di Rousseau e l’ampollosa retorica trovarono una generazione pronta ad imbeversene. Tutte le sue teorie di miglioramento sociale, nate non dalla grandezza di un sogno, ma brulicanti fra i più bassi istinti di invidia, posero lui, uomo immorale, amico ingrato, padre senza viscere, scrittore senza coscienza, in una luce romantica, che dilagò verso la fine del secolo nella più crudele parodia, che si potesse offrire come prologo alla spaventosa tragedia finale. Incominciarono proprio allora le estasi per la natura, per le albe, per i monti, per i salici piangenti; le ciocche di capelli entrarono; a far parte dei ricami e dei gioielli; gli svenimenti parvero doverosi ad ogni donna gentile, ed una di esse fece montare nel castone di un ciondolo la facciata della chiesa dove era stato sepolto il suo diletto. « La sensibilità diventata istituzione» fra tanta putredine morale, non poteva essere che un elemento corruttore di più.
Tale a larghe linee e certamente incomplete il quadro; perchè la mia intenzione, m’affretto a dirlo, non fu quella di rifare la storia del secolo XVIII, ma solo di richiamarne la speciale fisionomia, onde siano meglio intesi i sentimenti, gli errori, le grazie delle donne che mi sono proposta di studiare.
NEERA.