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capitolo v. | 157 |
— Ed ora, che cosa abbiamo a fare di questa moneta?
E gli altri: — E come entriamo noi nei fatti tuoi? Tu l’hai vinta e tu goditela.
— No, non ha da esser così, — riprese Omobono — la farina del diavolo, dicono, che va in crusca; miriamo un po’ se fra tutti noi troviamo maniera da cavarne un pane. Orsù, ognuno di voi dica la sua.
— Per me, — saltò su a parlare il cavaliere Faina, scrittore di un giornale malignamente buffone, noleggiato dagli sguatteri di Corte, e che però si chiamava pubblicista per la medesima ragione per cui le femmine di partito si dicono pubbliche — fonderei o piuttosto sussidierei un giornale, bene intesi del nostro partito.
Voi vedete da per voi quali orribili sdruci faccia ogni dì la demagogia nel consorzio civile; ad ogni passo aumenta di forze: vires acquirit eundo, giornali, e giornaletti pullulano su in maggior copia dei ranocchi quando piove in estate. Voi beneficati dalla fortuna avete a perdere più degli altri, legatevi pertanto, e con maggior concerto di quello che abbiate fatto fin qui: la marea monta; o che attendete per ripararvi, che ella vi sia arrivata alla gola? Noi pubblicisti mettiamo veglie, ingegno, opera e pericolo, voi opulenti ponete un po’ del vostro superfluo per salvare il ne-