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capitolo v. | 147 |
Entriamo nello studio di Omobono: mirate, due volte la settimana ei passa la notte intera a registrare su certi libri arcani una quantità di note segnate sopra fogli volanti; avvertito che egli cavò questi libri da una cantera praticata sotto la cassetta che serve di serbatoio di legna da ardere, accanto al camminetto ammannito con frasche e legna secche a levare m un attimo un magnifico falò. Ci fu un tempo in cui la penna di Omobono volava scrivendo su cotesti registri, e all’atto dello scrivere assentiva col capo e tutta la persona, mentre stirava la bocca verso le orecchie come borsa che si allarghi per ingollare monete: cotesto allargamento di labbra era il sorriso di Omobono. Adesso poi pare che la gotta gli abbia rattrappito le mani; di tanto in tanto caccia fuori un sospiro da disgradarne il soffio del mantice di un magnano: è inverno, è fréddo, è notte, ma egli suda come di agosto, e le gocce gli cascano giù dalla fronte a quattro a quattro; lì presso, osservate cotesta catinella piena di acqua fredda, ecco egli vi tufia la spugna che poi si mette sul cranio calvo per temperare la vampa del corvello. L’ultima volta che Omobono ebbe a tribolarsi in cotesta disciplina parve rimanerne sgomento più del solito, onde, lasciate cadere sul banco ambedue le braccia, ci posò in mezzo il capo e lungamente rimase in cotesto atto; poi lo rialzò scotendolo tre volte o quattro, se lo rinfrescò con la