Canto primo

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Thomas Moore - Il profeta velato (1817)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Flechia (1838)
Canto primo
II

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CANTO PRIMO.




     Nella beata regïon del sole
Cui primiera sorgendo egli saluta
Fra le Perse contrade, ove ridenti
Figli del raggio suo sbocciano i fiori
5E s’indorano i frutti in ogni riva,
E leggiadro su tutte altre fiumane
Il Murga la sua chiara onda rivolve
Infra i boschetti e i nobili palagi

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Onde bella è Merou, quivi su trono,
10A cui lo sollevò cieca credenza
Di popolo infinito, altero siede
Il sovrano profeta, il gran Mokanna.
Sulla sua faccia un velo ampio si stende,
Argenteo velo ond’ei, buono e pietoso,
15Alla vista mortal la sua nasconde
Sembianza abbagliatrice, il cui splendore
Nudo non sosterría l’occhio dell’uomo,
Poichè, qual va fra suoi devoti il grido,
Men lucenti d’assai parvero i raggi
20Che la fronte di Mossa incoronaro
Mirabilmente il dì, quando dal monte,
Tutto fuoco le tempia, egli scendeva.
     D’ambo i lati, di cor pronti e di mano,
Stanno eletti guerrieri vigilando
25La persona di lui; giovani arditi
Che a difender la fè, non in parole,
Ma ne la spada la ragione han posta,
E tanto è il loro zel, ch’ivi garzone
Non alza il brando, che non sia parato
30A piantarselo in petto a un cenno solo
Del suo sovrano, e con devoto affetto
Non benedica il labbro onde partiva
D’un sì caro morir l’alto comando.

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Candide, in odio del color notturno
35Onde s’orna il califfo, hanno le vesti,
E qual neve il cimier candido ondeggia.
Varie son l’armi; qual spedito incede
Alla battaglia e di leggiera canna
Giavellotto costrutto in pugno arreca;
40Qual tende un arco di bovino corno
E splendida faretra al fianco adatta
Piena di stecchi, che d’Iran sul margo
Di raccor quei guerrieri han per costume;
Qual de la guerra ne’ più crudi assalti
45Mazza enorme palleggia o poderosa
Bellica scure; e mentre essi marciando
Degli elmi eccelsi i candidi pennacchi
Agitan nella luce del mattino,
Ti par quasi veder mobile selva
50Di platani ramosi allor che il verno
Di neve imbianca le sorgenti cime.
     Fra le colonne di porfiro eccelse
Che sostengon la volta aurea, dipinta
A moresco lavor, sorgon le vaghe
55Gallerie dell’Harèmo, ove traverso
Le cortine e le argentee reticelle
Ad or ad or si mira un amoroso
Di pupille brillar sopra la pompa

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Che nel tempio s’accoglie, a quella guisa
60Che un subitano tremolío di luce
Schiara le nubi dell’autunno e passa.
Or chi sì ardito fia ch’osi maligno
Dir che voi, sante vereconde, entraste
In tal soggiorno da pensier condotte
65Che non fosse del ciel? Chi creder puote
Che la potenza di terreno affetto
A stringer valga delle sue catene
Del gran profeta l’anima severa?
Oltraggioso pensiero! A lui dall’alto
70Commesso fu di popolar gli ameni
D’Eden boschetti di leggiadre forme,
Leggiadre sì che schiudan poscia in cielo
Gli occhi medesmi e le medesme labbra
Onde fur belle in terra, e là raccolte,
75Fra le native vergini sedute,
Allegrino di gioia sempiterna
Gli spirti in cielo a soggiornar sortiti.
Bene adempito avea l’alto comando
Il sovrano profeta; e quante mira
80L’occhio del sole di beltà raggianti
Pellegrine mortali avea raccolto
Entro il vago soggiorno. Havvi la bella
Che si prostra sul margo alle bollenti

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Fonti di Brama; la leggiera ninfa
85Che vispa e vaga le carole intesse
Di Yémeno sui monti; havvi la Persa
Dai grand’occhi di cervo e sfavillanti
D’una luce amorosa; havvi la breve
Fanciulla del Catai che move intorno
90Languidette le luci; havvi di tutte
Le giorgiane bellezze il fiore eletto;
V’hanno le forme colorate in bruno
Dell’arabe donzelle, e le ricciute
Onde s’allietan le ridenti e gaie
95Isole d’occidente; un tale e tanto
Tesoro di bellezze ivi s’aduna,
Poichè tutte contrade avean mandato
Il lor più bello e giovinetto fiore
Per apprestar sì vaga ajuola al cielo.
     100Ma perchè nel Divano oggi si spiega
Pompa cotanta, e innumeri guerrieri
Armati e il capo di turbante avvolti
Vi si accolgono e piegansi dinanzi
A quel velato e venerabil volto
105Siccome tulipani innanzi al soffio
Del vento occidental? Quale il profeta
Oggi novello indice alto mistero
Per far più santi della fede i riti?

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Tutto splende il delubro, e mille e mille
110Ardon lampade intorno emule in luce
Delle vivide stelle onde s’adorna
A notte il cielo. Un giovane guerriero
Dalla folla si parte e maestoso
Procede in mezzo al tempio; un lucid’arco
115Egli tien nella manca; il fianco ha cinto
D’una fascia trapunta; un foderato
Berretto a pelle gli ricopre il capo
Quale s’usa in Bucaria. In tale arnese
Egli dunque s’avanza e fiero è tanto
120Nel portamento suo, che una vagante
Cometa ci sembra per lo cielo estivo
Minacciante sciagura. Esso è venuto
Tutto fede e prodezza, e unirsi anela
Ai guerrieri che pugnano devoti
125Allo stendardo di colui che scese
Messaggiero del cielo all’universo.
Quantunque ei fosse dell’età nel fiore,
Pur già del giovinetto Azimo il nome
Suonò nell’occidente; oltre le nevi,
130Di che Olimpo s’ammanta, ancor garzone
Egli pugnò; nella battaglia oppresso
E fatto prigioniero in Grecia ei stette
Finchè la pace i suoi legami infranse.

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Oh! chi, pur anco nel servaggio, il piede
135Mosse di Grecia sul sacrato suolo,
Nè in cor sentì lo spirito infiammarsi
Di nobil foco? Chi mirò la terra
Un giorno ostel di libertà, nè vide
Di quell’austera Dea le luminose
140Vestigia, nè sentì quasi un’arcana
Aura di suo passaggio accusatrice?
Non ei, non ei quel giovine guerriero;
Troppo forte all’ardente anima il suono
Gli favellava dell’antiche etadi,
145Ed or ch’ei torna alla natal contrada
Piena ha la mente di que’ sogni aurati
Che inutilmente grandi ahi! son tormento
Di giovin core; — audaci sogni in cui
Il mortale s’esalta al par d’un Dio,
150Ma fallaci così come l’aspetto
Dell’orizzonte là dove ne pare
Che questa terra si congiunga al cielo.
Appena ei seppe che divino un braccio
A redimer le genti erasi alzato
155E vide sfavillar chiare e raggianti
Sul bianco segno di Mokanna impresse
Queste parole: libertade al mondo!
Subitamente e fede e brando e core

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Al profeta sacrò: qualunque spada
160Che sotto il suo drappel uomo brandisse
Doppiamente affilata a lui pareva:
Sacra alla causa della terra e sacra
Alla causa del ciel, — nè mai la fede
La sua benigna benda ebbe spiegato
165Sopra un ciglio che più volonteroso
Ciecamente credesse alla virtude;
Nè alcuno mai si riposò ripieno
Di fidanza maggior nel compimento
Dei desiderii suoi quanto costui
170Che or pallido si prostra e ossequïoso
Alla presenza di quel vel d’argento,
E crede quella forma a cui s’inchina
Essere un puro, immacolato e santo
Angiolo redentor, quaggiù spedito
175A francar d’ogni laccio e d’ogni colpa
L’umana stirpe e a ritornar la terra
Ai primi onori di sua gloria antica.
     Come il giovin guerriero al suol prostrossi,
Pur quella turba di diverse genti
180Inchinò le ginocchia e ad alto suono
«Alla, Alla» sclamò, mentre sublimi
Sul capo del profeta ivano al vento
Mille bandiere dispiegate al lume

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Siccome l’ale de’ candidi augelli
185Che ventavano il trono ove sedea
Il mago Solimano. — Allor dall’alto
Il gran profeta favellò: «Straniero!
Benchè l’anima tua di giovinetta
Forma si vesta e sia novella in terra,
190Pur da secoli molti io già vedea
La sua sembianza ne’ diversi aspetti
Di quell’ente infinito, in cui diffusa
Per un lungo di casi ordine alterno
(Siccome face che di mano in mano
195Si trasmetton fra lor giovani in fila)
Rapidamente va di forma in forma
L’inestinguibil alma in fin che giugne
A quella meta che le assegna il fato.
Nè creder tu che solo ai men lucenti
200Spiriti in foco tenebroso accesi
E dannati alla terra un tal prescriva
Destino il ciel; divini esseri ancora
Degnan talor di splendere per questa
Umanità. Cotale era l’essenza
205Che in Adamo albergava, a cui de’ cieli
Si piegâr tutte le potenze, tranne
D’Eblis l’altero spirto; e tal pur era
L’Intelligenza che rifulse un giorno

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Nella forma di Mossa onde partita
210Passò nel seno d’infiniti vati
E alfin di Macometto il petto accese,
Finchè via procedendo (al par d’un chiaro
Fiume che dopo il scendere di molte
Succedenti colline e dopo molti
215Giri e rigiri alfin ritrova un lieto
Clima ove, d’ogni labirinto uscito,
In un lago di luce il corso acqueta)
Quel santo spirto riposato e franco
D’ogni errar, d’ogni nebbia in me s’accolse.»
     220Mille voci di nuovo a tai parole
Sonaro intorno e folgoraron tutte
Le spade de’ guerrieri alzate al cielo;
Un’aura subitana amabilmente
Le bandiere agitò, mentre di dietro
225A quei persici arazzi istorïati,
Che le bellezze dell’Harèmo invano
Tentavano celar, candide mani
Scoter godean le ricamate ciarpe
Onde cotale una fragranza uscìa
230Quale soglion mandar l’Uri vezzose
Quando, incontrato l’immortal guerriero,
Ai boschetti del ciel gli fanno invito.
     «Ma queste sono verità sublimi,»

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Il profeta seguiva, «e a ben vederle
235Si richiede di sensi una più santa
E più diva natura a cui non regge
La vile argilla che gli umani informa.
Questa spada dappria discioglier deve
Il tenebroso carcere che lega
240La schiava umana stirpe anzi che vegna
La pace a visitarla e il ver diffonda
In un mondo di colpe il suo splendore.
Solo allora, o guerrieri al ciel devoti,
Solo allora che al suol cadranno infranti
245Nanzi alle nostre glorïose insegne
I troni della terra e i sacri templi,
E ai nostri piedi deporrà lo schiavo
Le spezzate catene ed il tiranno
La sua corona, il sacerdote il libro,
250Il vincitor gli allori, e dalle labbra
Del ver proromperà, siccome turbo,
Gagliardo un soffio ad animar la pira
Consumatrice dell’umane fole,
Solo allor sulla terra avrà principio
255Il regno dello spirto, e l’uom sorgendo,
Come innovato di seconda vita,
Incederà per quella luminosa
Primavera del mondo al par d’un nume,

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Ed il vostro profeta allora anch’esso
260La fronte sua discoprirà del velo
Che or ne asconde la luce, e rallegrata
Quant’è vasta la terra avrà conforto
Da’ rai di questo glorïoso aspetto.
E tu giovin guerrier, ben giungi a queste
265Sacre contrade; — ma ti resta ancora
Qualche rito a saper, qualche fralezza
A mettere in obblio, prima che splenda
Sulla tua fronte il candido cimiero
Che mio guerrier ti segna; ove cotale
270Tu divenga una volta, essere il devi
Fino alla tomba.» — Terminato è il rito
E le turbe n’andâr; ma forte ancora
Nell’orecchio e nel cor di ciascheduno
Mormora il suono di que’ cupi accenti,
275Qual se d’Alla medesmo il santo labbro
Proferiti li avesse. I giovinetti
Di maraviglia ingombri eran rimasti
De’ cimieri alla vista e delle lance
E del trono splendente e più degli occhi
280Che brillavan dall’alto; intenti e fisi
Stavano i vecchi sul promesso regno
Di verità, di pace, e le fanciulle
Dardeggiavano occhiate ai sottoposti

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Guerrier nel tempio; ma non fuvvi alcuno
285Che del velato aspetto i portentosi
Raggi un istante rimirar potesse.
     Ma pur fra le donzelle una v’avea
Che dietro le cortine, onde si cigne
L’Harèmo, spesso ad arrossir fu vista;
290Una a cui più che morte era funesta
La pompa di quel giorno, — e voi lo dite,
Voi, sue compagne, che vedeste a un tratto
Pietosamente impallidir sue gote,
E ne intendeste il doloroso grido
295Allorchè primamente all’infelice
Quel giovane s’offerse ahi! noto troppo,
Ed essa il vide, oh vista! ùmile in atto
Prostrarsi innanzi del profeta al trono.
     Sventurata Zelica! eravi un tempo
300Quando ogni sguardo suo sopra il tuo core
Un incanto piovea; quando vederlo,
Udire il suono delle sue parole,
Spirar l’aura che a lui moveva intorno,
Era la prece del tuo cor — la prima,
305La più fervida prece; e agli occhi tuoi
Tale il cigneva allor magico spirto
Che, se ad opra ei moveva, ogni mortale
Gli sembrava secondo. Oh! dì beati

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Quando, se il caro giovinetto un fiore
310Od una gemma del tuo sen toccava,
Quella gemma e quel fior da quell’istante
Eran sacri per te; quando tu stessa
Lo studïavi sì che ogni suo moto,
Ogni suo sguardo fatto erasi tuo,
315E tanto risonar s’udia simíle
La tua voce alla sua, ch’Eco parea
Quando a sera, su queta ala di vento,
Più soavi rimanda e più pietose
L’aeree note di gentil melode.
320Eccolo; ei vien quel giovinetto e splende
Di cotal luce che la luce avanza
Di sua primiera età; bello...., sì bello,
Ma non per te, meschina! ei s’appresenta
Agli occhi tuoi terribile, funesto
325Come l’imago di persona estinta
Quasi il colpevol spirto ei ti volesse
Turbar col sogno di beata etade,
Che per sempre sparì, ma pur sorvive
Nella memoria, e ne trafigge il core.
330Sogno tristo e fatal! Siccome allora
Che della giovinezza il gajo spirto
Ne appar fra il sonno luminoso e vago
Dell’innocenza che fu nostra un giorno,

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E, ahi tristo gioco! ci rimena indietro
335Infra i sentieri dell’età novella
Dove i raggi ne addita ad uno ad uno
Che di pace brillanti e di speranze
Lungo il cammin ci abbandonaro infidi.
     Coppia felice un dì! Chi fu ne’ vaghi
340Di Bocara boschetti, e non intese
De’ loro primi giovanili amori
La dolcissima istoria? Entrambo nati
Sul fiume antico che, veloce uscendo
Dall’Oscure Montagne, in suo cammino
345I mille accoglie pellegrini rivi
Che splendon di vaghissimi rubini
Delle miniere di Bucaria avanzi,
E nel mar caspïano indi lasciando
La metà de’ suoi flutti, alfin disbocca
350Dell’Aquile nel Lago, in quelle rive
In compagnia d’infanzia eran cresciuti,
E i fior che rugiadosi in sul mattino
Si curvano sul fiume oh! di sì vago
Color non mai nè di sì grato olezzo
355Quelle sponde allegrâr, come le occhiate,
Come i sospiri di que’ novi amanti.
Ma di lor gioie il fortunato corso
Interruppe la guerra, e il giovinetto

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N’andò da quei celesti occhi lontano
360Ad aggiugnersi ai Persi in ripa all’Ebro;
Ei trasmutò le riposate sedi
De’ nativi boschetti in rozze tende,
Ed in campi di zuffa; i vaghi lumi
Di Zelica non più, ma le vaganti
365Sulle greche pianure atre fiammelle
Gli ferirono il guardo, e i cari nodi,
Onde amor l’ebbe dolcemente avvinto,
Mutârsi in peso di servil catena.
     La derelitta vergine frattanto
370Si struggea di desiro e sospirava
Pel lontano garzon; la primavera
Avea due volte rallegrato il mondo,
Ma non per lei; chè dolorosi e scuri
Anco i dì più ridenti eranle al core
375Perchè d’Azìmo in compagnia goduti
Non splendeano quei dì; triste novelle
Venian talora a funestarle il core
Che il suo caro pingean vicino a morte.
Alfine un suono, un ineffabil suono
380La tramortì gridando: Azimo è spento!
Oh! quale angoscia il sofferir pareggia
D’un core allor che primamente ei resta
Solitario, angosciato, e più non trova

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Quell’unico perduto ente compagno
385Per cui soave si tenea la vita
Ed amaro il morir, come liuto
Che nota più non sospirò dal giorno
In cui spezzossi la maggior sua corda.
     Preda così d’un indomato affanno
390Quell’infelice vergine rimase,
E in tanta piena di dolor la stessa
Ragione si smarrì. Benchè lo spirto
Vigoroso lottasse incontro al fato
E le guancie di lei rosea salute
395Tornasse ad infiorar, pur la catena
De’ suoi pensieri inordinata e guasta
Non più si ricompose; ardente e gaio,
Quale a’ più lieti dì di giovinezza,
Era il suo cor, ma travïato, errante
400Siccome navicella a cui dan luce
Tutti gli astri del ciel, tranne quell’uno
Che guidarla dovrìa. Di nuovo, è vero,
Il riso a lei disfavillò sul labbro,
Ma strano era quel riso e senza il lume
405Della gioia sincera; e quando il canto
Al flebile lïuto ella sposava,
Il suo cantar simìle era alle note
Che liete scioglie e dolorose a un tempo

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Moribondo usignuol, quando dall’arte
410Di melifluo cantor vinto alla prova
Egli muor sul lïuto onde partìo
La dolce nota che gli ruppe il core.
     In tale si vivea misero stato
La giovine Zelica allor che tutto
415Scorrendo il vago orïental paese
Il profeta cogliea quanti per via
Più leggiadri s’offrian risi di donna
Per intesserne poscia un vario e vago
Adornamento al ciel. Rapida, al pari
420Di voratrice fiamma infra le foglie
Che l’autunno appassì, questa novella
La già bollente fantasia raccese
De la mesta fanciulla; al cor repente
Le s’apprese quel fato e tutta l’arse
425In santo zel. — Del paradiso eletta!
Oh! incantatrice idea! predestinata
Sposa di qualche valoroso in cielo....!
«Di qualche valoroso!» — ah no! del solo,
Del solo onde nel cor profondamente
430Sculta ha l’imago; di quel solo a cui
Di nodi indissolubili legato
Sta il suo pensiero; di quel sol che regna,
Con benigno splendor, sulle rovine

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Della buia sua mente unico, eterno!
     435Sventurata Zelica! il tuo soltanto
Spirto nel mesto immaginar deluso
Veder poteva in quell’allegro Harèmo
Vergini sante destinate al cielo;
O sognar che l’iniquo onde tu fosti
440Vittima così presto, una lucente
Potenza fosse di lassù discesa
A far pel ciel di pure anime accolta
Somiglianti alla tua, che in terra, ahi lassa!
Desolava quel tristo. — Oh! di ragione
445Te non avesse abbandonato il lume
Entro un buio fatal, la santa imago
Che sculta hai tu profondamente in seno
Preservata t’avrìa, come amuleto,
Dal tentatore astuto, e vivo e puro
450Serbato avrebbe il verginal candore
Che macchiato una volta ahi più non fia
Sorriso dall’amor! Ma la sua mente
Si perdè, s’infiammò; de la gentile
Sua tempra in vece e del soave aspetto
455Tutta l’accese un inquïeto zelo.
Esso medesmo l’impostor nudrìo
Di quell’alma il delirio; il gaio fiore
Di giovinezza, le divine forme,

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Onde bella s’offria, parvero all’empio
460Malìe potenti a soggiogar gli spirti
Di sue genti devote; ed ei con arte
E con incanti dall’inferno appresi
La credula deluse ora col buio
Di terribili scene, or colla luce
465Di gioconde sembianze a tal che, spinta
Nel suo travolto immaginar per torta
E tenebrosa via, la sciagurata
Si diede in braccio a voluttà che solo
La sua tristezza alimentar dovea.
     470Era il fin d’un banchetto; ivi congiunti
Il canto e il suon le avean mirabilmente
All’orecchio ed al cor pinta la gioia
De le sfere celesti a cui rapita
Un giorno anch’essa, e d’ogni labe astersa
475Del dolce Azimo suo sposa perenne
Avrìa lieta e beata ogni desiro
Spento nel riso dell’eterna pace,
Quando da tai pensieri inebbrïata
Il reo profeta per occulte vie
480Seco la trasse alla magion dell’ossa.
Van per quelli di morte avvolgimenti
Da poco lume rischiarati, e mentre
Oltre muovono i passi, esterrefatta

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L’infelice donzella si ritrova
485In sede orrenda; un lungo ordine al guardo
Le si presenta di squallidi corpi
Che, mentr’ella trascorre, al tetro lume
Di meste tede aprir sembran le labbra
E basse note mormorar. S’arretra
490La spaventata e vede esti defunti
Libar neuro licor, mandando a torno
Il fatal nappo. In quest’orrido punto
(Ah! quei guardi e quel nappo insanguinato
Le staran sempre nel pensiero impressi)
495Fu l’infelice dal profeta astretta
A proferir tremendo, orribil giuro
Nel linguaggio d’ inferno — e fu che sempre,
Finchè di lui la mistica presenza
Rimarrà sulla terra, e l’arco azzurro
500Del dì sovr’essi brillerà sospeso,
Sempre, per quello invïolabil giuro,
Nella gioia e nel duolo ella al suo fianco
Si starà... sempre! — Di sè stessa uscita
La meschina giurava e «sempre, sempre»
505Quegli spettri gridando eco le fero.
     Da quell’ora fatal la sciagurata
Tutta fu del profeta — ed ella, ahi lassa!
Si credeva del ciel. La mente e il core

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Infiammati le fur. Quanta alterezza
510Le vestìa la persona allor che prima
Sacerdotessa della fè sedeva
Nell’adunato Harèmo! Oh! come il guardo
Le ardeva oimè! non di celeste luce
Quando i rapiti adorator mirava
515Prostrati a sè dinanzi. Oh! ben s’avvide
Il reo Mokanna che quel solo aspetto
Col forte incanto della sua beltade
Intiere squadre a conquistar bastava.
Avvenenti, leggiere, agili membra,
520A cui dava uno spirto aereo moto
Come a sottile ramuscel l’augello
Che l’abbandona; porporine labbra
Che, se mai nel sorriso apron la rosa,
Rubano l’alma e fanno invito ai baci;
525Guancie cui sale a colorar la fiamma
Subita e passeggera al par di lampo
Che solca un cielo oscuro sì, ma bello.
E quegli occhi! — oh! chi mai tanta nel core
Saggezza acchiude che non vinto affisi
530Quegli occhi accesi, irrequïeti, erranti
Ove or fra l’ombra di terreni affetti
Ed or fra i raggi d’un’eterea luce
Vedi d’un’alma travïata, è vero,

[p. 29 modifica]

Ma pur splendida sempre, il lume arcano,
535Che degli interni affetti altrui fa fede.
Zelica era cotal; ma pure ahi! quanto
Da lei mutata che felice un tempo
D’Azimo al fianco errava infra i boschetti
Onde ombrato è il Bokara. In tale aspetto
540Ella comparve il dì lieto e festivo
Quando fra il riso e la splendente pompa
Del superbo Divano a lei dinanzi
Qual subitana visïone apparve
Il giovinetto che cotanto amava
545Ed estinto piangea; quando — lucente
Al suo sguardo così come se corso
Mezzo il cammin che al lieto Eden conduce
Ritornato ei si fosse alle terrene
Stanze raggiante di divino lume —
550Il vago Azimo suo le stette innanzi.
Oh! di quali portenti operatore
È spesso un raggio di ragion gettato
Sovra il buio intelletto; esso (siccome
In rocca a cui si fanno adito i mille
555Assediatori allor che mano amica
Qualche passo secreto a lor dischiude)
Col memore pensier mille seguaci
Idee risveglia che giacean sepolte.

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Ma così non si fu nella tua mente
560Infelice donzella! Abbenchè lume
Venisse a te, non tutto esso veniva;
Era un barlume che brillò fugace
Sull’intricate vie del labirinto,
Fra cui ciechi e perduti ivano i sensi,
565Ma non mostrò l’uscita; era un barlume
Che fra la procellosa onda rifulse
Di subito splendor, ma il sospirato
Porto di scampo illuminar non volle.
All’apparir del giovine diletto
570La memoria sollecita al pensiero
Le recò le beate ore di pace
Che sì ratte passâr; ma ripensando
Che poscia l’alma sua s’era sommersa
Nel lezzo della colpa, e astretta ell’era
575Dal giuramento..... oh! allor nova demenza
Le invadeva lo spirto e abbrividendo
Ella tornava nell’orror primiero
Del suo buio mental, quasi felice
Si ritrovasse nel ritor lo sguardo
580Ad una luce che spaventi arreca
E le lacera il cor; pure un conforto
Questa memoria di sua prima etade
Misto all’amaro del martir le addusse;

[p. 31 modifica]

Pianto, dirotto pianto intorno al core
585Da lungo tempo raggelato ed ora
Distemprato e disciolto a quella guisa
Che di neve squagliata a primavera
Giù per gli omeri al monte a mille a mille
Si devolvono i rivi e giunti ad imo
590Irrigano la valle ove da lungo
Più non scorreva la benefic’onda.
Così mesta e depressa or primamente
Raccapricciò d’orrore, or che s’ intese
Dal profeta invitare al consüeto
595Loco della preghiera; un fresco e vago
Giardin locato in ripa alla corrente,
Ove il velato sir solea ritrarsi
Al cader d’ogni sera e alzar suoi preghi.
Iva solo talor; ma più sovente
600Compagna ai santi riti era una ninfa
Destinata a partir seco le preci.
  Nessuna innanzi a lui trovato avea
Tanta grazia e favor, quanto cotesta
Giovin sacerdotessa, e benchè spesso
605(Dopo l’orrenda notte in cui gli spechi
Terribili di morte alto echeggiaro
Di quel giuro fatal che sua la fece)
Le avesse il reo sua trista anima aperto

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E proferto bestemmie inique tanto
610Che anco uno spirto dissennato e cieco
Inorridito avria; pure lo zelo,
L’ambizïone, il suo voto tremendo,
Il continuo pensier che quel lucente
Volto di gloria, infino ad or nascoso
615A tutt’occhio mortal, manifestato
Sariasi a lei tra poco, a lei soltanto,
E la speranza alfin, la sopra tutte
Gioie dell’alma sua cara speranza
Che il suo viver quaggiuso altro non fosse
620Che un volar passeggero infra l’impuro
Foco terreno onde affinato e terso,
Più puro ancor di pria, sarebbe asceso
Il suo spirto lassù, come profumo
Che tra globi di fiamma alzasi agli astri,
625E che, quando il divino abbracciamento
Circondata l’avria d’Azimo in cielo,
Nè un sol vestigio di terrena impronta
Maculato le avrebbe il casto seno,
Ma splendente, illibata e sua per sempre
630S’avria godute le dolcezze eterne....
Queste soavi illusïoni e questi
Sogni del core suo fatti signori
La delusa teneano anima avvinta

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Al voler del profeta e dolce ancora
635Parer faceano la nequizia istessa.
Ma quella forma che pur or s’offerse
Tremenda all’occhio suo, quella sembianza,
Terribil tanto, se non mente il guardo,
Che d’un subito apparve a lei dinanzi,
640Oh come la spaventa! In quella guisa
Che pel nordico mar, quando la notte
Torbida incumbe, vagabonda nave
In isola di ghiaccio urta improvviso
E, destando i meschini a lei commessi,
645Li travolve nell’onda — a tal sembianza
L’apparir di costui scosse Zelica,
Ma solo aimè! per traboccar quell’alma
Entro un abisso d’infiniti affanni.
     Pallida, sospirosa, a lento passo
650Al sacrato Kïosko incamminossi
Dove, librando i suoi disegni iniqui,
L’attendeva Mokanna; — i lieti sogni,
Onde il core ha giocondo, occupan troppo
Il suo pensier perch’ei noti la doglia
655Che la vittima sua porta nel ciglio,
O il lento passo avvisi, or sì mutato
Da quel che un dì movea, quando, siccome
Leggerissimo spirto, appena appena

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Coll’aereo suo piede il suol toccava.
     660Il velato Mokanna era seduto
Sopra il tappeto suo, mentre all’intorno
Le lampe ardean, non quali ardon sull’ara
Del santo Komo sotto i tenebrosi
Portici della Mecca illanguidite
665E di scarso chiaror, ma sfolgoranti
E di luce cotal che sull’aspetto
Delle vergini spanda un più gentile
Vezzo d’amore e più leggiadra e cara
La sembianza ne renda. A lui daccanto,
670In vece di rosario e santi libri,
Che gli stolti credean meditar sempre
Segregato colà, stavano vasi
Pregni d’aureo licor che a lui mandava
Di Kismi il tralcio e il pampinoso colle
675Della florida Sira; e spesso il labbro
Ei v’appressava con gelosa cura
Quasi ogni goccia che sorbìa bramoso
Portentosa si fosse al par del fonte
Del sacrato Zemzemo, a cui la fama
680Dona il poter di trasmutare in fiori
Le virtudi del cor. Seduto adunque
Ei beveva e gustava, e in cotal opra
Sì forte intenti e fissi eran suoi sensi

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Che appressarsi la vergine non vide.
685Riscosso alfin, con infernali risa,
Quai già s’udîr dal maledetto spirto
Quando l’uomo peccò, tale parlava:
     «Vile schiatta mortal! nata a trastullo
Degli spirti d’abisso, abbietta troppo
690Per questa terra, e nondimen vantante
Origine dal ciel! Voi degli dei
Imagin, voi?... Sì, degli dei, ma quali
Han culto in India — scimïoni informi.
Creature d’un soffio, effigïate
695Forme d’argilla a cui bene a diritto,
Come narran le nonne, un dì niegava
Lucifero prostrarsi ossequïoso,
Benchè l’esiglio dall’eterno regno
Gli dovesse costare un tal rifiuto.
700Tempo verrà, nè fia lontano, io spero,
Che questo piede vi porrò sul collo
Ed il freno allentando all’ira mia
Sfogherò l’odio che vi posi eterno.
Sì, condottier di mille a me devoti,
705Prodi e ciechi guerrier come falconi
Incapellati, scorrerò la terra
Desolando le genti; il mio stromento
Fia l’uom vil, la mia preda il maledetto. — »

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     «Ahi me perduta!» inorridita esclama
710L’infelice donzella a cui l’orecchio
Ferito avean quegli esecrati accenti.
Si riscosse Mokanna; isbigottito
Non già, chè a lui straniero era il timore,
Ma il suon di quelle flebili parole
715Sì pieno era d’angoscia e simil tanto
A quella voce che tremenda piomba
De’ dannati sul cor quando per sempre
Li accoglie in grembo la città dolente,
Che anco quell’alma snaturata e fera
720Tocca ne fu. — «Vien quà, bella ministra
De’ riti miei,» le si volgea dicendo
Con raddolcita voce il frodolento:
«Tu che ridendo schiudi infra le rose
De’ tuoi labbri divini una dolcezza
725Cara così che le speranze eccede
Per cui son lieti del profeta i sogni,
E il zelo unisci della fè sì stretto
A quello dell’amor che inebbrïato
L’uom non conosce la sua gioia e ignora
730Se nell’estasi sua sospiri il cure
Al paradiso che lassù n’additi,
O a quel che schiudi tu medesma in terra,
Oh! senza te che fora il poter mio?

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La vittoria che fora? Ancorchè retta
735Dall’angeliche man la mia bandiera
Perderia la sua luce ove non fosse
Dal tuo santo sorriso irradïata.
Perchè mesta così? quelle pupille
Che amorose splendean nella trascorsa
740Notte — e che? — la lor luce hanno perduta?
Vieni, oh vieni! stamane ha scolorito
La fatica il tuo volto, e i vaghi lumi
S’oscurâro, o mia figlia; ora degg’io
Tornar loro la luce; i soli istessi
745Eclissati sarien se le vicine
Lor comete, com’io sopra il tuo volto,
Non recassero a lor dall’inesausta
Fonte di luce rivi di splendore.
Vedi tu questa coppa? entro il suo grembo
750Non terrestre licore accolto stassi,
Ma bensì l’onda immacolata e pura
Di quell’ultima sfera i cui torrenti
Su letto di rubini hanno lor corso
E fluendo si tingono nel vago
755Color di gemma. I genii a me ministri
Vengon di notte e queste urne mi colmano.
Or via ne bevi; in ogni goccia è posta
Un’essenza di vita onde raccesi

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Saran foco il tuo cor, luce gli sguardi.
760Vieni, oh vieni! stanotte è a me mestieri
Di tutto il riso della tua sembianza.
Un garzone giugnea — tu lo vedesti;
Bello forse ei non è? di’; non vorresti
Che simìli a costui ne’ fortunati
765Boschi del ciel ti fossero gli amanti?
Bench’ei, tem’io, mi sembri austeri troppo
Nudrir pensieri dell’amor nemici,
E quella fredda deitade onori
Che Virtù chiama il mondo, oh! noi dobbiamo
770Tuttavia soggiogarlo al poter nostro.
Non mostrarti ritrosa; a me tu devi
Obbedir sempre, nè indagar giammai
I misteri del ciel. L’acciaro, il sai,
Dee pel foco passar prima che fatto
775Valido brando forte man l’impugni.
Questa notte medesma assalir voglio
Quel giovinetto cor colle potenti
Armi della beltà. Quanto raccoglie
L’Harèmo mio di vago e di scaltrito
780Fia contr’esso adoprato; i cilestrini
Occhi di Mirza che languenti intorno
Si movono a rapir l’anime amanti;
Di Zuleica gentil le colorate

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Guance ed i labbri che baciando han possa
785Secreta come il magico sigillo
Di Salomone; le soavi note
Che sul lïuto suo Zeba ridesta,
Ed il piè velocissimo di Lilla
Che, movendosi a danza, in mille guise
790Si libra e rota quale augel marino
Alïante sull’onda; ogni donzella
Di sua bellezza adoprerà gl’incanti
Per rapir di costui l’austero spirto
Nella soave voluttà d’amore.
795Ma tu, gentil sacerdotessa, ascolta
Quanto dirti vogl’io; ciascuna, è vero,
Di queste, ch’io nomava, una possiede
Arte sua propria di rubare i cori;
O muovendo lo sguardo, od atteggiando
800Leggiadramente la persona e il piede,
Poste innanzi a lo speglio hanno un incanto
Per sè stesse dapprima, indi per quello
Che le rimira; ma fra tutte oh! manca,
Manca pur sempre a far certa la palma
805Una guerriera che non move occhiata
Senza ferir; che di bellezza i raggi
Sopra sè tutti concentrati aduna;
Una il cui labbro persüade il core

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Senza far motto, e, quando apresi ai detti,
810Adorate così son le parole
Che pur vôte di senso occupan l’alma
Come il suon che dal vano esce d’un templo
Da nullo inteso e tuttavia divino
Creduto dalla fè. Questa, sì questa
815È la ninfa che, in luce alma d’amore
Tutta raggiante, coronar l’impresa
Questa notte dovrà; questa la scaltra
Incantatrice che dovrà far suo
Il cor di quel guerriero — e tu sei dessa!»
     820Con le man giunte e con le labbra aperte
E pallida ed immota ella si stava
Mirando il vel da cui quelle parole
Venìan come l’austral vento che move
Da venefici fiori e morte arreca,
825E sì audaci del tristo eran gli accenti
Come se di Zelica estinti al tutto
Fossero i sensi di virtude ed egli
Sentisse che di lei l’animo immerso
Una volta nel lezzo della colpa
830Eternamente vi saria rimasto.
     Benchè muta ascoltasse, ella dapprima
Quasi sogno credea l’empie parole
E del fiacco intelletto il poco lume

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Il disegno di lui non comprendea.
835Ma quando finalmente egli proferse
«E tu sei dessa!» per le membra un foco
Improvviso le corse e un grido alzando
«Ah no pel cielo!» ella sclamò — «gran Dio!
A cui pura già tempo io mi prostrai,
840Questo è dunque il mio fato? Ogni mio sogno,
Ogni mia speme al ciel, la verginale
Purità di quest’alma, orgoglio mio,
Dovean questo aspettarsi orrido fine?
Viver trastullo alle procaci brame
845D’un ente maledetto? Esser lasciva
Seduttrice d’altrui, servendo, ahi lassa!
Alle tue colpe? inabissata io stessa
Quanto in giù la fiumana atra discende
Dell’empio averno, rovinar pur anco
850Meco altri spirti nella ria vorago?
Altri! Che dico? quel garzon medesmo
Che oggi quivi giugnea? — non fia, non fia!
Non lui che adoro io perderò! — Deh! dimmi,
Dimmi ch’ei non è desso, anzi mel giura,
855Ed io sommessa, o spirito d’inferno,
Vuo’ far quanto m’imponi — anche adorarti!»
     «Bada, finchè n’hai tempo, o sconsigliata,
A non cadermi in ira, a non dir motto

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Che insoffribil mi suona, ancorchè uscito
860Dalle tue labbra. — Or va; tempra il lïuto
E sciogli il canto; quel guerrier n’intenda
La magica melode e ne rimanga
Commosso e vinto: rimirar m’è caro,
Sia qual vuolsi la causa, il foco antico
865Rinfiammar le pupille alla leggiadra
Sacerdotessa mia; lascia che tutto
All’estinto amor tuo si rassomigli
Quel giovinetto che farai beato
Del fulgor de’ tuoi lumi; e tu cotanto
870Più felice sarai, quanto più caro
È un acceso amator vivo e fiorente
Di mille e mille che si giaccian freddi
Entro il sepolcro. Oh! non ombrar la fronte
Di quel piglio indignato, anima cara!
875Quel tuo sguardo soave accender dêssi
Per l’ira no, ma per l’amor — t’arrendi.»
     «Ahi me deserta! io dunque ho meritato
Questi oltraggi? – oh pur troppo! – e la vendetta
Troppo grave non può sopra il mio capo
880Scagliare il ciel!... ma il valoroso e fido
E leggiadro garzon deve pur esso
Cader meco nel fondo, e bello e santo
Qual è, siccome rinnegato, andarne

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Dall’amore e dal ciel per sempre in bando,
885Com’io n’andai?... Com’io! stolta! che dissi!
No; non com’io; chè immacolato e puro
Si rimarrà pur sempre il giovinetto.
O demoni, colmate infino all’orlo
Vostra coppa infernal; vostre malìe
890Non fien potenti a conquistar quel core.
Vadan pur di beltà tutte raggianti
Vostre impudiche seduttrici a lui...
Egli ama, egli ama e il lor poter disfida.
Travïata qual son, tuttora io regno
895Sovra il suo core invïolata e santa
Siccome allor che primamente entrambi
C’incontrammo quaggiù. Benchè perduta,
Benchè macchiata io sia, siccome incanto
Che la memoria d’un estinto imprime
900Sculta sull’alma egli ha l’imagin mia
Che da colpe il preserva. Oh! sempre ascoso
Rimanga a lui di quale obbrobrïosa
Nota segnato è il fronte a cui nell’ora
Del mesto dipartir baci offeriva.
905Deh! che nessun gli dica in qual di colpe
Cupo abisso cadea la verginella
Ch’egli un giorno dilesse — un giorno! — ah! sempre,
Pur sempre ei l’ama con immenso affetto.

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Uomo infernal, tu ridi? e che? tu forse
910Vuoi la mia colpa a lui far manifesta?
Oh! invano, invan; non otterrai credenza;
Ei mi finge costante; ei nel suo core
Crede che nulla sulla terra ha forza
Di mutar la mia fede — ah! tale io pure
915Pensava un dì; ma questo ora disparve
Fortunato pensier! — quantunque il fato,
Che m’incolse, di morte, anzi d’inferno
Più straziante mi prema, oh! nondimeno
Mi fia lieve il soffrirlo ove per sempre
920Egli l’ignori; io me n’andrò lontana,
In qualche terra ignota a cui dinieghi
Suoi raggi il sole infin che polve io giaccia
Nell’oscuro sepolcro; in una terra
Ove chieda nessuno alla deserta
925Di qual parte ella venne e dove io possa
Senza nome i miei dì chiudere in pace.
E tu, — qual ch’io ti deggia o maledetto
Uomo nomarti o spirito d’inferno,
Che trovasti in mio cor questa di foco
930Piaga dilaniatrice e con quell’arti,
Che t’insegnaro i demoni fratelli,
L’hai così presto lacerata e sparsa
Per l’alma e per le membra infin ch’io tutta

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Peste e fiamma divenni, orribil mostro —
935Deh! quando andata io sia — »
                                                  «Taci, demente!
Taci, nè m’irritar. — Vedi baldanza!
Tanto audace non è quell’augelletto
Che ronzando s’attenta insinuarsi
Del cocodrillo nell’aperta bocca.
940Vuoi tu dunque fuggirti? — e non t’incresce
Lasciar la gloria del tuo casto impero
Sopra tutto l’Harèmo ove tu regni
Ora d’Allà ministra, ora d’Amore,
Ora adorata come santa ed ora
945Amata come bella e stai sospesa
Fra cielo e inferno come il venerato
Sepolcro di Medina? — E vuoi fuggirti? —
Fuggirai, sì; ma come fugge il vile
Rettile dal serpente allor che cinto
950Il tiene ei già coll’amorose spire.
Il tuo destino è immoto; — o fero o mite
Che si volva il tuo fato, insino a morte
Tu mia sarai, mia sposa insino a morte!
Dimmi: obbliasti il giuramento?» —
                                                            A queste
955Terribili parole ella, che forte
Da quell’amaro motteggiar trafitta

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D’un indomito sdegno erasi accesa,
Smarrita si restò come se il fiato,
Che quel detto recolle, una si fosse
960Aura letale, e pallida ed immota
Stettesi — imago di persona estinta.
     «Sì mia sposa tu sei; tal ti giurasti.
Altri cerchin giardini — a noi fu templo
Pe’ nuzïali riti il tenebroso
965De’ scheltri albergo; balsami e fragranze
Non ci allegrâr, ma biancheggiante ossame
Ci surgeva all’intorno; una lugubre
Pallida teda illuminò la sala
Del nuzïal banchetto, e lunga fila
970Di cadaveri ritti, ospiti grati,
Ne feo corona; — il giuramento a cui
Molti udisti echeggiar pallidi labbri,
La coppa (oh! non tremar; dimmi; soave
Non era forse?) quella coppa, ond’ambo
975Libando noi d’alterna fede in pegno
Degli estinti bevemmo il vino eletto,
Mia ti sacrâr.... sì mia perennemente,
E di tal nodo mia che la medesma
Possa d’Averno nol potria disciorre.
980Or parti, o donna, e vanne infra la turba
Dell’Harèmo e colà mostrati allegra,

[p. 47 modifica]

Mostrati austera — qual più vuoi ti mostra,
Fuorchè dolente; — oh! resta: — anco un istante.
Quanto stanotte è occorso, a te palese
985Mi fece in parte — alfine ora del tutto
Il profeta conosci. A me, tu stolta,
Davi piena credenza e in tuo pensiero
Tu mi fingevi degli umani amico;
Amico, io? — sì; ma quale ama i guizzanti
990Pesci dintorno a sè cane marino,
O del Nilo l’augello ama le dolci
Uova dell’angue ond’ei si pasce e vive.
     E or che dell’alma mia tutta tu vedi
L’angelica natura, anco del viso
995Le fattezze svelate a te dinanzi
Folgoreggino alfin. Questa sembianza
Nel cui lume divino a te soltanto
Dato è bear l’estatica pupilla,
Questo ciglio abbagliante innanzi a cui
1000L’uomo immortale si prostrò tremando,
Oh! fulmini del ciel fossero al mondo.
Ma ti volgi e rimira — indi, se il vuoi,
Di’ che la terra, dove nato io fui
Mostrüoso cotanto, io non dovea
1005Maledir vendicando i torti miei
Sull’uom che vil, qual è, pure rassembra

[p. 48 modifica]

Creatura del cielo a me vicino.
Or mira e dimmi se potria l’inferno
De’ suoi profondi e abbominati orrori
1010Al mio sordido ceffo aggiugner dramma.»
     Ei tolse il vel — la vergine si volse
Lentamente e mirò — mise uno strido
E cadde come corpo morto cade!