Canto secondo

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Thomas Moore - Il profeta velato (1817)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Flechia (1838)
Canto secondo
I III

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CANTO SECONDO




     Azimo, ti prepara! — in campo aperto
Hai disfidato d’Ellade i guerrieri,
Prestanti battaglier, quantunque schiavi;
Là nella Grecia ad incontrar corresti
5Quell’armate falangi incoronate
Dell’antica lor gloria; alle frequenti
Macedoniche picche e ai tortüosi
Globi di fiamma presentasti il petto,

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Ma invitto sempre e con ardita fronte
10Quei perigli affrontasti: ora t’aspetta
Più fera prova e più tremendo assalto;
Di splendid’occhi femminili un’oste
D’ogni terra raccolta, in cui la donna
Il suo riso dischiuda e il suo sospiro;
15Oste diversa di color, siccome
In loro luce d’innalzar bandiera
Nera od azzurra si diletta Amore,
E in ogni modo d’assalir soave
Preparata ed instrutta, o balenando
20Percoter si convegna all’improvviso,
O sotto le palpebre astutamente
Semichiusa celarsi a quella guisa
Che mezzo il brando la guaìna asconde;
Tale un’oste, o garzone, ora s’appresta
25Ad assalirti luminosa e vaga.
Glorïoso il guerrier vantisi pure
Di vinte pugne e di raccolti allori;
Ma il giovinetto che virtude oppone
Ai vezzi di beltà; che in cor ne sente
30Tutto l’incanto ed il poter ne sfida,
Di vittoria miglior, di maggior forza
Meritamente glorïar si puote.
     Le belle dell’Harèmo intente or sono

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Della tôletta ai riti; agili ancelle
35Vanno di stanza in stanza affaccendate:
Qual s’adopra a intrecciar leggiadramente
Alla fronte il turbante o il vel sospende
Leve leve cadente in sull’acceso
Volto di giovinetta, a cui, se un occhio
40Fra l’ondeggiar del velo arde e sfavilla,
Quell’occhio solo conquistar potrìa,
Come di Saba la regina, i cori;
Qual d’Henna colle foglie ugne e colora
Delle dita la punta in rosea tinta
45Lucente sì che nello speglio han forma
Di coralli splendenti in grembo all’onda;
Qual tempra il nero di Kohòl colore
Che di dolce languor l’occhio abbellisce,
Di quel languor che sì leggiadre e care
50Fa le veglie Circasse all’Ottomano.
     L’opera ferve; e anelli e perle e piume
Splendon per tutto: — della luna al raggio
Le più giovani intanto entro il giardino
Tesson fresche ghirlande alle lor chiome.
55Donzellette gentili! è dolce al core,
Benchè mesto, il mirar come ciascuna
Il serto intreccia di quel fior che reca
Al suo pensiero i puri anni infantili,

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I dolci campi, ed i lontani amici.
60L’indïana fanciulla, in sen tenendo
Novellamente le dorate foglie
Del suo campàco, si rallegra e pensa
Ai dì felici che lunghesso il Gange
Colle dolci compagne il crin fioriva
65Di quelle foglie rugiadose ancora;
Mentre la verginella araba, avvolta
Dall’olezzo de’ suoi montani fiori —
La grata acaja e quell’arbor cortese
Che s’inchina sul capo a chi l’appressa —
70Vede, quasi per forte opra d’incanto,
Il pozzo di sua terra e intorno a quello
Vede i camelli e le paterne tende
E in quella cara illusïon sospira
Alla quiete del natìo soggiorno.
     75Frattanto lungo le splendenti sale,
Di cui gli alti silenzi altro non turba
Che il cader d’odorata onda sorgente
Dallo sculto diaspro in mille sprazzi,
Azimo ingombro di stupor s’aggira,
80E di tanta quiete e delle molte
Lampade ardenti la cagione ignora.
Tinto a varii colori è il pavimento
O d’egizii tapeti ricoperto,

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E lunghesso gli androni una soave
85Si diffonde fragranza alimentata
Da ramuscelli d’odorose piante
Che si bruciano in vaghe urne d’argento,
E mill’altri profumi intorno sparsi
Allegran l’aere di cotal dolcezza
90Quale la verga d’una Peri effunde
Quando a spirito eletto addita il calle
Che guida al riso dell’eterna pace.
Ed ecco a lui, che senza legge errava,
Spazïosa e lucente al par del sole
95D’improvviso una sala appresentarsi,
Ove nel mezzo, riflettendo i raggi
A somiglianza d’iridi spezzate,
Una fresca fontana alto zampilla
E ripercossa dall’arcata volta
100Il pavimento screzïato irrora
Che riluce così come conchiglia
Raggiante in ripa all’eritrea maremma.
     E quivi pur l’albergo egli ritrova
Dell’amor della donna in quelle vaghe
105Della terra e dell’onda abitatrici
Picciole creature il cui destino
Pari è a quel della donna, essendo anch’esse
Per la loro bellezza imprigionate;

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Chè in un de’ lati, splendidi siccome
110Il cristallino vaso onde son chiusi,
Guizzan piccioli pesci ali-dorati
E dorati le squamme e pajon verghe
Corte e sottili di miniera uscite;
Mentre nell’altro in lavorate gabbie
115D’odorifero legno incarcerati
Vi son tutti gli augei che varie e vaghe
A lucente color dispiegan l’ale.
V’ha il calderino luminoso e gaio
Quale alïar si vede infra i vermigli
120Fior di corallo germinanti intorno
All’apriche dell’India isole amene.
V’ha della Mecca la colomba azzurra,
Ed il tordo v’ha pur dell’Indostano
Che gode alzar melodïosi a sera
125Dall’eccelsa pagòda i suoi concenti;
V’hanno i dorati augei che cadon morti
Al tempo degli aromi entro i giardini,
Inebbrïati da quel dolce cibo
Che li sedusse colla sua fragranza.
130V’ha quel che sotto il mite arabo sole
Di mirra e cinnamomo il suo compone
Sublime nido, e v’han quanti pennuti
Trattan rari e leggiadri i campi azzurri,

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Tutti quivi raccolti a riposata
135Sede di luce, come i verdi augelli
Che svolazzano a stormi entro i beati
Campi dell’Eden d’asfodillo allegri.
     Così fra scene che pensier non finse,
Nè mente immaginò — più somiglianti
140Al fasto immenso di quel rege iniquo
Cui l’oscuro di morte angiol percosse
Di voluttade sulla soglia istessa
Che al santo albergo d’un profeta a cui
Di redimer le genti il ciel commise —
145Azimo errava e si guatava intorno
Ferocemente e il suono aspro de’ ferri
Che de’ passi al mutar metteano i piedi,
E il suo schietto vestir male alla calma,
Male alla pompa s’addicean del loco.
     150«Ed è questa,» pensò, «questa la via
Che dell’uomo francar deve lo spirto
Da mortale torpor? — questa la scôla
Che gl’insegna vivendo ad altro fonte
Non libar gioia che virtù non schiuda,
155E morendo lasciar splendida fama
Di sue bell’opre monumento eterno?
Ah! non era già tal l’alta dottrina
De’ saggi antichi tuoi, terra nudrice

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Di pensier forti e di sublimi imprese,
160Nè in grembo di boschetti al piacer sacri
I suoi fochi divini alimentava
La prisca libertà; nè i sacri mirti,
Ond’ella avvolse il vincitor suo brando,
Crebbero ai raggi d’una luce infausta
165Che in vece d’avvivar dona la morte,
Ma si nudriro de’ robusti fiati
Dell’eterea virtù, che sola induce
Vita e splendor di libertà ne’ serti!
Oh! chi — se mira a questa stretta ajuola
170Che noi calchiamo, alla brevissim’ora
Che nel corso del tempo il viver segna,
All’istmo angusto che li duo divide
Da nessun lido circoscritti mari,
Il passato e il futuro, entrambo eterni —
175Chi vorrebbe macchiar la luminosa
Stanza terrena o sterile lasciarla
Quand’ei puote innalzarvi un tempio altero
Ed un nome legar che lungamente
Tutto d’intorno ne consacri il loco
180E sia d’ogni più pura alma il sospiro?
No; possibil non è che un uom mandato
Da Dio quaggiuso a sterminar menzogna,
Un profeta del ver, che trae dal cielo

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Per compir la sant’opra ogni diritto,
185Voglia sua causa profanar con pompe
Di cui si serve in sua stoltezza il mondo;
No; possibil non è; ben io penétro
L’ascoso suo pensier; fiacco ei mi crede,
Quindi un tanto di vezzi abbagliamento
190Apprestava a tentar la giovinetta
Anima mia; ma s’opri ogni lusinga
Per provar questo core; invitto io resto!»
     Così fra sè discorre il giovinetto;
Ma pur mentre in segreto egli disfida
195Questa magica scena, ogni suo senso
Cede all’incanto e ne rimane avvinto.
Il profumo che a lui volgesi intorno —
Il basso mormorar delle cadenti
Acque, che ai sensi persüade un dolce
200Invincibil sopor, come il ronzìo
Delle pecchie indïane allor che dense
Si raccolgono a sera intorno al fiore
Dell’odorosa nilica e nel cavo
Del suo calice azzurro abbandonate
205Si posano a dormir, — la melodìa,
La cara melodìa che tutto occûpa
Sopra ogni altro poter l’anima amante,
Or da lontano udita e incantatrice

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Come l’arcana melodìa d’un sogno, —
210Tutto oh! tutto sovr’esso una sovrana
Esercita potenza e lo rapisce.
Incantato così sopra un sedile
Cader si lascia e l’anima abbandona
A pensieri d’amor, dolci pensieri
215Succedenti siccome onda sopr’onda
Quando il amar posa e caggion l’ire ai venti.
A Zelica egli pensa, alla diletta
Vergine del suo core e ai dì beati
Quando entrambi d’amor l’anima ardenti
220S’assideano vicini, e muti e paghi
Si fissavan ne’ rai, quasi la terra
Null’altro offrisse più sembiante al cielo.
     «Oh! di quest’alma amor, vergine amata
Che pur di sì lontan la tua ben nota
225Magica forza sul mio cor tramandi!
Tu, di cui la divina aura pur sempre
Mi circonda e mi segue ovunque io mova,
Deh! mira in qual per l’amor tuo mi spinsi
Periglioso cammin; dietro la fama
230Per te sola, o mio ben, corro affannoso;
Per veder la tua gota imporporarsi
Nel fuoco della gioia onde t’avrai
Pieno il core in udir mie belle imprese:

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Per leggerti negli occhi una mia lode
235E tener compensata ogni fatica
Se m’avrò da tue labbra un sol sorriso,
Un tuo sorriso che del cielo è degno.
Oh! quando mai saluterò quell’ora
In cui, vinto ogni rischio, a me fia reso
240Quel core ov’io pur sempre unico impero!
Quando sugli occhi tuoi con baci e baci
Del largo pianto asciugherò le stille,
Di quel pianto che fia fervido e puro
Qual fu del vale ne’ supremi istanti!
245Oh! quando, vita mia, quando tenerti
Potrò di nuovo ne’ miei caldi amplessi!»
     Mentre ei pensa così, sull’ale ai venti
Più vicina si fa quell’armonia
Che con ogni sua nota un novo aggiugne
250Legame alla gentile aurea catena
Di che avvinto ha lo spirto; ei si rivolge
Alla parte onde il suono a lui procede,
E lontano lontan fra un infinito
Risplendere di faci egli rimira
255Movere a lui d’incontro allegro e gaio
Di vaghe forme femminili un gruppo:
D’esse alcune danzar vedonsi avvinte
Leggiadramente da gentil catena

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Fra le verdi del bosco ombre intrecciate
260Quasi fosser captive al re de’ fiori;
Altre l’agile piè movono a ruota
Liberamente, e pajono il servaggio
De le avvinte schernir mentre veloci
Loro danzano intorno a somiglianza
265Di leggiere farfalle intorno al lume;
Altre intanto da lire, arpe e lïuti
Traggon grata melode, anima al canto
Cui tenere fanciulle alzan temprando
La docil voce della danza al moto;
270E tutte innanzi a lui vengon ridendo
Queste leggiadre giovinette forme
Cui natura creò quasi volesse
Il pennello emular di fantasia
E infonder vita in cose anco più belle
275De le più belle fra le sue pitture.
Fattesi a lui vicine esse si danno
In vago cerchio a carolar congiunte
Con tutta leggiadria, quindi si spezzano
Come rosate nuvolette a sera
280Erranti intorno al padiglion del sole,
Finchè, tacitamente ad una ad una
Disperdendosi, a lui tutte s’involano
E sen vanno a’ giardini ove vaganti

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Al raggio della luna alzano un riso
285Che sui vanni dell’aure a lui pur viene.
     Ogni forma disparve; una, sol una
Coll’altre non partìa; tutta tremante
Dietro le sue compagne era rimasa
E loro invano di tornar fea cenno,
290Ch’esse parendo la lasciâr soletta
Fra tanta luce; non un vel coprìa
Quel bellissimo volto, ancor più bello
Nel suo pudico giovenil rossore;
Solo una catenella aurea le avvolge
295Vagamente i capei, quale di Sira
Le fanciulle di porsi han per costume,
E da questa pendea doppio amuleto,
Ove, incisi nell’arabo idïoma,
Del lor santo profeta oppur d’un bardo,
300Venerato del par, leggonsi i versi.
Trepidando ella stette, e la sua manca
Un lïuto reggea dove un istante
Ella destò con agitato moto
Qualche nota dolente, indi di nuovo
305Le sue ritrasse tremebonde dita.
Ma quando alfin gettò timida un guardo
Del garzone sul volto e mesto il vide
Starsi in atto e tacer, quella presenza

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Le quetò de lo spirto ogni paura;
310Qual gazzella ammansata, al giovinetto,
Benchè tremante ancor, fessi vicina,
Indi mesta s’assise, e fatta audace
Preluse alquanto ne’ pietosi modi
D’Isfaàno e così disciolse il canto:

     315Un roseto solo solo
          Sorge in ripa al Bendemir;
          Lamentoso un usignuolo
          Gli racconta il suo martir.
     Visitar que’ vaghi fiori,
          320Ascoltar quel mesto augel,
          Di mia vita ai primi albori
          Era il sogno mio più bel.

     Io rimembro ad ogni istante
          Quelle rose e quel cantor,
          325E se vedo april festante
          Dico in voce di dolor:
     Sorge ancora il mio roseto
          Presso il queto — Bendemir?
          Narra ancora l’usignuolo
          330Il suo duolo — il suo martir?

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     No; cadero oimè! le rose
          Che pendean sul fiumicel;
          Ma pur, quando ancor nascose
          Stavan dentro il bottoncel,
     335Io ne colsi in su lo stelo
          E ne trassi un dolce umor
          Che resiste al caldo e al gelo
          Nè mai perde il primo odor.
          
     Così pure, in pria che mora
          340L’ora lieta del piacer,
          La memoria di quell’ora
          Coglie il provvido pensier;
     E così ridente e gaio
          Con perenne sovvenir
          345Io vagheggio il mio rosaio
          Presso il queto Bendemir.

«Infelice fanciulla!» egli pensava:
«Se col dolce liuto e coll’incanto
De’ tuoi vezzi a destar fosti mandata
350Desiderii non santi in questo core,
O a tentarne la fè, male a quest’arte
Atta ne vieni, chè, quantunque il labbro
Tu dischiudessi a consigliar la colpa,

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Pur quegli occhi pudichi e quel sembiante
355Il contrario dirian di tue parole.
Ma d’una tale purità ricinta
Mi comparisti ed il gentil tuo canto
Con un tale d’amor senso ritorna
Ai puri giorni dell’infanzia e guida
360Della prima innocenza al sentier santo
L’anima tua — se pure ella n’usciva —
Che piuttosto in suo volo io ratterrei
La libera colomba allor che riede
Tutta accesa d’amore ai dolci nati
365E avvolgerei le sue candide penne
Di spietati legami in pria ch’io voglia
Stornar dalla virtude un tuo desio.»
     Mentre in questo pensiero Azimo errava,
Ecco alzarsi le cerule cortine
370Che chiudean le finestre e d’improvviso
Mill’occhi sfavillar vividi a guisa
D’astri nel cielo e riguardar ridendo
Quasi a irridere i duo ch’ivi composti
Stavansi in atto di dolor profondo;
375Ed ecco quindi in nuvola ravvolte
Di gesmini che loro eran gittati
Per ischerzo da fuori, ecco repente
Leggiere entrar due giovinette forme
Che radendo de’ piedi il suolo appena

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380S’inseguiano veloci in varïata
Danza, che tutte dell’amor vicende
Finger sapeva in sì mirabil guisa,
Che veder t’avvisavi ora le gioie
E il languor degli amanti, ora l’infinte
385Ritrose voglie ed i consensi alterni.
La desolata vergine frattanto
Che in modi sì gentili avea cantato
Suoi domestici sogni in sul lïuto,
Come vïola che ne’ raggi ardenti
390D’estivo sol languisce e si scolora,
Timidetta e smarrita indi traeva
In altra parte, ma con sè portava
D’Azimo il mesto e fervido sospiro,
Quel sospiro che il cor manda talora
395Se fugace veggiamo a noi dappresso
Una forma passar, leggiadra ahi! troppo
Per rimaner quaggiuso; angiol di luce
Che noi mai più non rivedremo in terra!
     De le vaghe danzanti intorno al collo
400S’avvolgeano monili aurei di gemme
Orïentali che la fiamma e il lampo
Vincean della lucente onda che giace
Colà nel Caspio mar sotto l’eccelsa
Montagna di cristal; mentre sonagli

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405Dai capelli nerissimi pendendo
Armonïosi, come quei che scote
Dalle piante d’Eliso aura perenne,
Ricevean dalla danza e moto e suono
E ad ogni scossa tintinnian giocondi
410Quasi de’ loro piè fosser la voce.
Si rimossero alfin le danzatrici
Dalle carole e stettero legate
D’alterno amplesso; subitana intanto
Procedea dall’aperta aura degli orti
415Mista al sospir de’ fiori una melode
Che risonando armonïosa e chiara
Emergere parea dalle tranquille
Onde d’un lago; e quando era vicino
Al chiuder delle note il bel concento,
420D’infra quel vario tintinnìo di corde
E quel di voci giovinette e grate
Gentil cantare uscian queste parole
Di tutto il fuoco dell’amore impresse:

Havvi uno spirto che del suo divino
     425Sospiro e terra e ciel scalda ed accende;
     Quando la guancia splende
     Nel suo rossor, lo spirito è vicino;
     Quando incontransi i labbri in bacio ardente
     Allora.... oh! allor lo spirito è presente!

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430Il suo soffio è odoroso al par del fiato
     Di questi fiori, e la gentil pupilla
     Azzurra disfavilla,
     E sembra il loto allor che aura seconda
     A lui dintorno tremolar fa l’onda.
435Salve! noi t’invochiam, spirto possente!
     Spirto di voluttà, spirto d’amore!
     Quando nel suo splendore
     Regna la luna, il tuo poter si sente.
     Vieni! non mai quell’argentata stella
     440Fulse, com’or, sì luminosa e bella.

     Pel rossor che accende il viso
          Alla bella ed al guerrier
          Quando a entrambi è il cor conquiso
          D’un insolito piacer!
     445Per la lagrima cocente
          Che dall’occhio esprime amor,
          Quando il fremito fervente
          Dell’affetto inonda il cor!
     Per quel primo allegro giorno
          450Che compensa il sofferir,
          Per le gioie del ritorno
          Per le angosce del partir!

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     E per quante all’uom tu appresti
          Non mortai felicità
          455Cui per essere celesti
          Manca solo eternità!

Noi t’invochiam! deh vien, spirto possente!
     Spirto di voluttà, spirto d’amore!
     Quando nel suo splendore
     460Regna la luna, il tuo poter si sente.
     Vieni! non mai quell’argentata stella
     Fulse, com’or, sì luminosa e bella.

     Schivo omai di tal scena, ove da tante
Vaghezze allettatrici eragli il core
465Pur suo malgrado affascinato e vinto,
E ove tra fiori e riso e melodìa
(Le più forti lusinghe a cui s’adeschi
Un giovin core) la vittoria è fuga,
Azimo disdegnando allontanossi
470Da quelle ninfe e da quei canti impuri,
E si volse a mirar quelle che intorno
Dalle mura pendean vaghe pitture.
Ma quì pure novella opra d’incanto
I suoi sensi rapìa; chè quante avviva
475Del pennello la muta onnipotenza

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Imagini d’amore e di bellezza,
Quivi tutte splendean, non manifeste
Soverchiamente, ma velate alquanto
Qual pinger suol quella finissim’arte
480Che sa della beltade ivi più forti
Essere i vezzi dove meno è aperta,
Siccome il vivo orïental pianeta,
Che conforta ad amar, fulge più bello
Allor che mezzo nuvoletta il vela.
     485Con piè veloce il giovine trascorre
Dinanzi a questi istorïati amori
E s’affaccia al verone ove tranquillo
L’argentato piovea raggio di luna;
Di là vestiti i campi egli rimira
490D’una limpida luce e queto intorno
Ode il tutto tacer, quasi di vita
Nè uno spirto animasse i venti e l’onda.
Quivi ei respira; lontanando intanto
La melodìa sul core una favella
495Gli piove impressa di più santo suono
Come se la distanza e quella pura
Luce di cielo, fra cui passa il canto,
Le avesser tolta ogni terrena impronta.
Oh! com’egli potea tendere a questo
500Suono l’orecchio, contemplar quel cielo

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Di sì leggiadri fochi incoronato
E di lei non sognar che il core amava?
Mentre tu ancora il puoi, sogna, sì sogna
Giovane ignaro; estrema gioia è questa.
505Di lei la cara idolatrata imago
Contempla nel tuo cor prima che tutta
L’abbandoni la luce onde sì vaga
L’adora il tuo pensier; pensa al sorriso
Per cui l’ultima volta a te comparve
510Tutta raggiante di beltà celeste;
Rimembra il pianto che versò nell’ora
Funesta dell’addìo, puro, verace
Quale il pianto sarìa d’angiolo in cielo
Se piangesse un celeste; in cor ti fingi
515Che ancor fra l’ombre del natìo boschetto
Ella t’attende, innamorata ancora
E ancor bella qual pria; ch’ivi ricinta
Dalla sua solitudine perenne
Vive pur sempre tua, sola, raggiante
520Come una stella che ti stia sul capo.
Oimè! quel sogno sì beato e caro
Dovrà svanire in sì terribil guisa?
     Si tacque il canto; le leggiadre e vispe
Danzatrici n’andaro, e il giovinetto
525Felicità sognando ivi s’aggira

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Dolente e solo; — ahi non è sol! quel grave
Sospir, quel rotto singhiozzar d’un core,
Che trafitto è dal duolo, a lui venuto
Da vicina persona — oh! di chi fia?
530Puote oimè! la sventura anco aver stanza
In questo suol di voluttade ostello?
Si rivolge a quel suono, e un femminile
Sembiante ei mira, una dolente forma
Che, il volto ombrata di sottil zendado,
535Da marmorea colonna è sostenuta,
Quasi a un tempo da lei fosser partiti
La forza e il core; — non di gemme adorna,
Nè di floridi serti incoronata,
Qual eran le compagne, ella appariva;
540Ma in quel mesto racchiusa abito azzurro
Che vestir di Bokara hanno in costume
Le verginelle allor che onorar vonno
Di caro estinto o di lontano amico
La soave memoria; e tal Zelica
545Avev’abito il dì che Azimo, ahi duolo!
Da lei tolse congedo, — ora fatale
In ch’ei pel troppo di suo cor dolore
Non potè motto proferir, ma solo
Con un bacio infocato a lei sul volto
550La suprema asciugò lagrima amara.

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     Da strani affetti esagitato il core
Ei si sente a tal vista; apre le braccia
Quasi per moto involontario ed ella
S’alza e raccolte le sue forze estreme
555All’incontro gli corre.... ah! ma svenuta
In quel subito corso e in quella piena
D’indomabili affetti al suol ricade
Pria che d’Azimo al seno ella si stringa.
Le cade il vel — le fievoli sue braccia
560Lentamente s’avvinghiano tremando
D’Azimo alle ginocchia. — È dessa, è dessa!
È Zelica, è Zelica! O ciel! ma quanto,
Quanto pallida ell’è, quanto mutata!
Ah! nessuno potria, tranne un amante,
565In quel volto sparuto e senza tinte
Ravvisar di beltà le traccie antiche,
D’una beltà sì vagheggiata a lungo.
Pure ei si stette taciturno alquanto
E non ben certo ancor ch’ella si fosse
570Sulla fronte di lei le inanellate
Chiome divise e fisse immoto il guardo
Entro a quelle pupille onde sì vago
Splendore un tempo tremolando uscìo;
Alfin la riconobbe; alfin ben vide
575Che quell’era la sua vergin diletta

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Quella gentil cui tanto ha vagheggiato
Nella gioia e nel pianto, e bella sempre;
Quella che, quando il duolo era più forte,
Quand’ei, pur suo malgrado, a lei diceva
580L’estremo vale a guerreggiar partendo,
In quell’ora amarissima si stette
Tutta nell’ombra del dolor racchiusa,
Come il notturno fior quando lo cinge
Oscuritate e gli diffonde intorno,
585Quasi incenso benigno, i suoi sospiri.
     «Alza il guardo, o Zelica; un sol momento
A me que’ tuoi leggiadri occhi solleva
Ond’io possa mirar che la tua vita,
La tua bellezza non è tutta estinta,
590Ma che almen ne’ tuoi lumi ancor rifulge
Come rifulse ognor! Deh! ti riscuoti;
Azimo tuo rimira; un guardo solo,
Un sol di quegli sguardi onde beato
Mi festi un tempo, e a qual si sia ventura,
595Che quì t’ebbe condotta, io benedico.
Quì — su queste palpèbre — esse si movono;
Il mio bacio l’ha scossa al par del primo
Soffio di vita che le corse al core,
E mia la tengo fra perenni amplessi,
600Novellamente mia! — Gioia suprema!

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Io, pur dianzi, se mio stato si fosse
Quanto il mondo di ricco in sè raccoglie,
Te per mia gemma eletto avrei, te sola
Fra le ricchezze del creato intero.
605Ed ora — oh! gioia che ogni gioia avanza! —
Ora quì ti ritrovo; ora mi beo
Di gaudio inaspettato in rimirarti,
O santo amor dell’alma mia, Zelica!»
     E veramente dell’amate labbra
610Il tocco onnipotente avea rimosso
Dagli occhi di Zelica il passeggero
Velo dell’ombre; e quale al molle fiato
D’un’auretta d’aprile a poco a poco
Si dissolve la neve e i fior disvela
615Germoglianti di sotto, a tal sembianza
Le palpèbre s’apriro ed i lucenti
Occhi fur visti s’affisar sovr’esso
Non più, siccome pria, con guardo errante
Ed inquïeto, ma sereno e sparso
620Di mestizia gentil, quasi un istante,
Benchè scorso in deliquio, a lui vicino
Dato avesse al suo spirto alcun conforto;
E quasi il ridestarsi infra gli amplessi
E le carezze dell’amato oggetto
625Le avesse il cor purificato in parte:

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Ma quando udì che santa era chiamata
Dal diletto amor suo, più non sostenne
Tanta vergogna, ma si svolse a un tratto
Dagli amplessi di lui, quindi celando
630Fra le sue mani la colpevol faccia
Disse con voce che spezzato avrìa
D’angoscia e di pietade il cor più duro:
«Santa, santa mi chiami! oh cielo! oh cielo!»
     Il suono della voce, i tramutati
635Guardi del volto, le funeste traccie
Cui lasciano profonde, ovunque han sede,
La colpa e la sventura, il disperato
Volgersi di quegl’occhi ove già tempo,
L’avess’egli incontrata all’improvviso,
640Visto avria fortunato il suo sembiante
Reflesso in mille modi e sempre in gioia;
E il loco alfin, quel maledetto loco
Ove sotto ogni forma, onde s’adesca
Con magico poter la mente e il core,
645Stassi il vizio nascoso a quella guisa
Che fra l’olezzo de’ fioretti asconde
Le sue lubriche spire un rio serpente;
Tutto, tutto il suo cuore ebbe percosso
D’un improvviso e gelido spavento
650Come di morte; ogni parola è troppa;

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Tutto è palese a lui quanto lo possa
Il medesmo rossor far manifesto
Con sue note di fiamma; e sia qual vuolsi
Quella mano che a lui strappa ed al cielo
655Quella lucente creatura — è fisso —
Al cielo, a lui per sempre essa è perduta!
Per lui fu quello un ineffabil punto;
Interminati secoli di pianto,
E di lento, perenne, orrido crucio
660Non fien bastanti a pareggiar l’angoscia
Di quel punto fatal; quanto d’amaro
In sue mille vicende il dolor chiude
In quell’ora d’ambascia a lui sul core
Piobbe raccolto e in tanta onda d’affanni
665Ogni speranza di quaggiù sommerse.
     «Non maledirmi» ella gridò, mentr’esso
Disperato la mano al cielo alzava;
«Benchè perduta eternamente io sia
Deh! non pensar che da procaci affetti
670O da nove vaghezze affascinata
In tanto orror cadessi; ah! mi travolse
Dolor la mente e forsennata errai.
Oh! non dubbiar della mia fè; quantunque
Abbi a me l’amor tuo tutto ritolto
675Pur deh! almen credi che smarrita e spenta

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Tutta luce si fu della ragione
Entro il mio spirto in pria ch’io travïassi
Ciecamente da te! Barbare voci
M’avean recato di tua morte il grido;
680Ah! perchè non perimmo, Azimo, entrambi
Nell’ora dell’addio? — Deh! manifesta
Fosse a te la profonda, inconsolata,
Che il core mi struggea, tristezza interna
Quand’io piangendo sulla tua partita
685Te, sempre te nel mio pensier volgea,
Finchè il pensiero si converse in pena,
E la memoria mia, gocciola quasi
Che per lungo cader marmi distrugge,
Spietatamente mi consunse il core!
690Oh! veduta m’avessi al suol nativo
Quand’io, dipinta di pallor, sedeva
Sempre l’occhio volgendo a quel cammino
Che tornar ti dovea! quando passava
Fra la speme divisa ed il timore
695La lunga notte e trepida l’orecchio
A ogni suono tendea quasi recasse
De’ tuoi passi il rumore e di tua voce!
Vista oh! m’avessi allor, nè meraviglia
Sarebbe in te, che, finalmente estinta
700Del vederti tornato ogni speranza,

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Quando ferimmi il grido: Azimo è spento!
Fossi tolta di senno e andassi errando,
Come naufraga in mare, alla ventura
Senza un barlume che dal ciel venisse.
705Allora io mi perdei! questo medesmo
Indomabile affetto, ond’io t’amava,
Fiamma infausta mandò, che mi fu guida
Al sentier della colpa. Ah! sì tu stesso
Mi compiangi e m’escusi; oh! invan l’ascondi,
710Tu mi compiangi; — creatura, il credi,
Non ha la terra più di me deserta.
Quel demone che in questa orrida sede
Me credula traea, — fatti più presso,
Ch’ei non oda i miei detti, o sei perduto —
715Quel demone un parlar tale mi tenne,
Con tal’arte d’inferno, onde deluso
Stato pur ne sarebbe il cor più santo;
Di te mi favellava, e di quell’alta
Sfera raggiante di perpetua luce
720Dove beata alfin, quando servito
Lui quaggiuso avess’io, perennemente
Sarei vissuta nella tua presenza
Dal tuo ciglio bevendo un lume eterno.
Pensa or tu se demente esser dovea
725Quand’io sperai che ricondurmi al cielo

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Infra gli amplessi tuoi potea la colpa!
Ma tu piangi per me — tu piangi? — oh gioia!
Lascia deh! che d’un bacio io ti rasciughi
Quella stilla dall’occhio — ah! maledette
730Son le mie labbra, nè toccar ti denno.
Una sola carezza, un sol momento
Di fortunato obblio, ch’io mi godessi
Fra le tue braccia, mi saria tesoro
Che la memoria serberia gelosa
735Nell’anima sepolto insino a morte.
Ma tu devi partirti — eternamente
Di quì partirti; questo loco è tale
Che a te si disconviene; ah! no; restarti
Tu quì non devi; se palese in parte
740Io ti fessi l’orrore — oh! la tua mente
Strazïata saria quale dapprima
La mia si fu quando quì venni, ed io
Sarei di nuovo a vaneggiar condotta.
Basti il saper che quì regna la colpa,
745Che cuori, un giorno puri, ora macchiati,
Ammortiti, spezzati a lei son pasto,
Che noi siamo divisi, e che fatale
Scorre fra l’alme nostre una fiumana
Per cui resto da te remota tanto
750Quant’è dal ciel l’inferno, eternamente!»

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     «O Zelica, Zelica!» Azimo esclama,
Renduto quasi dal dolore insano:
«Pel ciel da cui, se forza han le preghiere,
Perdonata sarai, come tu il sei
755Quì — dentro a questo strazïato cuore —
Colpevole quantunque e travïata!
Per la memoria dell’antico affetto,
Che come face sepolcral risplende
Sulla tomba di nostre alme perdute
760E sorvivrà pur sempre alla tua colpa
E al mio profondo e disperato affanno,
Fuggi, oh! fuggi di quì, te ne scongiuro!
Se nel cor ti rimane anco un avanzo
Della prima innocenza, oh! meco fuggi
765Da questo loco.» —
                               «Fuggir teco! oh gioia!
Un secolo di pianto or mi compensa
Questa parola. Io fuggir teco? Io, lassa!
Teco fuggir, quasi innocente ancora,
770E al tuo fianco vagar come ne’ giorni
Del nostro amor quando beati entrambi
E sì puri eravam! — sogno celeste!
Ah! se pel mio dilanïato cuore
V’è quaggiuso un conforto, è questo, è questo!
775Correr teco la terra, udir la voce,

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La voce tua che d’angiolo somiglia,
Veder quegl’occhi sopra me rivolti
E nella loro luce essere astersa
Tacitamente come macchia al sole!
780E tu per me discioglierai preghiera;
Oh! sì tu pregherai; — quando solenne
Verrà l’ora di sera, allor che forte
Da’ pensieri di colpa è oppresso il core,
Tu lagrimose innalzerai le luci
785Alle sfere stellate ed il perdono
Mi pregherai dal cielo infin ch’io pure
Fissar v’ardisca il mio colpevol guardo;
E gli angioli pietosi, in rimirando
Me star sempre al tuo fianco afflitta e smorta,
790Diran che, alfin redenta ogni mia colpa
Teco tu tragga la tua schiava al cielo!»
     32Appena ella tacea, quando repente
Una voce terribile, profonda,
Possente quasi a suscitar gli estinti
795Risonò: Ti rammenta il giuramento!
Gel di morte a tal suon corse per l’ossa
Della donzella; «È desso!» ella proferse
Con fioca voce, ed il terror frattanto
Le agitava le membra, e il guardo a terra
800Spaventato cadea, quantunque il cielo

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Solo a lei s’offerisse e la campagna
Tutta, qual pria, ne’ raggi incolorata
Della tacita luna. «È desso! è desso!
E sua, per sempre sua, misera, io sono!
805È finito il mio sogno! Ah! vanne; fuggi,
O sei tu pur perduto; ei mi ricorda
Il giuramento; oh ciel! vero è pur troppo,
Siccome è ver che strazïato ho il core!
Sposa io son di Mokanna; a lui mi diedi;
810Azimo, a lui mi diedi; eran presenti,
Quando il voto profersi, ombre d’estinti,
E il lor livido labbro eco faceva
Alle nostre parole; i loro sguardi
Eran fissi su me, quando impugnai
815Quella tazza che piena era di sangue;
Ahi! quel sangue per l’alma ancor mi serpe!
E lo sposo velato! — oh ciel! che vidi,
Che vidi io mai quella terribil notte!
Un sì brutto sembiante, un sì deforme
820Ed orribile mostro! — oh! che non mai
Possa tu rimirar quanto d’orrendo
Sotto a quel vel s’asconde a tutte genti
Tranne all’inferno e a me! Ma quinci io deggio
Dipartirmi e lasciarti; io tua non sono,
825Nè del ciel, nè d’amor, nè d’altra cosa

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Se havvi divina mai, — non rattenermi —
Credi ora tu che i demoni, da cui
Sono i cori divisi, anco le mani
Non possan separar? — Stolto! — vedrai —
830Or dunque addio — perennemente addio!»
     Con quella forza, che talor ministra
Anco ai più fiacchi un disperato affanno,
Dalla destra di lui la sua disciolse,
Ed un grido mandando (il di cui suono
835Benchè ancor rimanesse Azimo in terra
Tant’anni, quanti non contò nel pianto
Uom dannato al soffrir, s’udrìa pur sempre
Profondamente risuonar d’intorno)
Precipite fuggì fra quell’immenso
840Risplendere di lampe a par di scuro
Malaugurato augel traverso il sole,
E ratta al di lui guardo ella disparve!