N’andò da quei celesti occhi lontano 360Ad aggiugnersi ai Persi in ripa all’Ebro;
Ei trasmutò le riposate sedi
De’ nativi boschetti in rozze tende,
Ed in campi di zuffa; i vaghi lumi
Di Zelica non più, ma le vaganti 365Sulle greche pianure atre fiammelle
Gli ferirono il guardo, e i cari nodi,
Onde amor l’ebbe dolcemente avvinto,
Mutârsi in peso di servil catena.
La derelitta vergine frattanto 370Si struggea di desiro e sospirava
Pel lontano garzon; la primavera
Avea due volte rallegrato il mondo,
Ma non per lei; chè dolorosi e scuri
Anco i dì più ridenti eranle al core 375Perchè d’Azìmo in compagnia goduti
Non splendeano quei dì; triste novelle
Venian talora a funestarle il core
Che il suo caro pingean vicino a morte.
Alfine un suono, un ineffabil suono 380La tramortì gridando: Azimo è spento!
Oh! quale angoscia il sofferir pareggia
D’un core allor che primamente ei resta
Solitario, angosciato, e più non trova