Il miracolo/Parte prima/I
Questo testo è incompleto. |
◄ | Parte prima | Parte prima - II | ► |
CAPITOLO I.
Tutte le campane della piccola antica città umbra suonavano a distesa per l’esultanza della festa imminente, e sopra le viuzze tacite di Orvieto, sopra gli orti fronzuti, sui fastosi palazzi disabitati ed i vasti giardini sonnolenti, le note delle campane volavano a sciami, sparpagliandosi e disperdendosi, oltre la cerchia delle mura tufacee, giù per la soleggiata pianura verde irrigata dal Paglia, sino alla frangia lucente dei colli sinuosi.
Una dopo l’altra le campane tacquero, e la campana sola del Duomo continuò ad innalzare verso il cielo diafano la sua voce. Le note del suono, affrettate dapprima, divennero rade, poi tarde, sciogliendo isolatamente il volo dall’alto delle guglie, indugiandosi al sommo delle cuspidi, roteando come stanche intorno alla fioritura marmorea della facciata per raccogliersi, quasi adagiarsi nella piazzetta Gualterio, deserta e sommersa nel sole.
L’ombra della stanza, dove la Monaldeschi dormiva resupina nel letto basso, fu per un istante percorsa da brividi sonori, poscia le cose tornarono ad assumere il loro aspetto di benigna immobilità.
Ermanno apparve con molta cautela di tra i cortinaggi serici dell’uscio socchiuso, protese il volto arguto a scrutare la massa quadrata del letto e, mal frenando gli scoppî della sua garrula ilarità, si buttò carponi sul pavimento di marmo e, coll’agile dorso inarcato, si divertì a misurare replicatamente il circuito della stanza e ad imitare, a bassa voce, l’abbaiare festoso del cane.
Il bimbo infatti pareva in quella posa un giovane levriero di razza, con le gambe sottili che prolungavano la snellezza elegante del torso, con le braccia che uscivano frementi e instabili dalle maniche del camice prolisso.
Egli tentò di spingersi fin sotto il letto, e, non riuscendovi, si rialzò di un balzo, mulinò intorno a se stesso sopra la punta dei piedi scalzi, finchè stordito dal troppo girare andò a cader bocconi sul letto della madre dormente.
Un grande terrore e una invincibile voglia di ridere lo presero a un tempo, ond’egli si risollevò pian piano, stringendo forte la bocca, mentre dagli occhi spalancati e attoniti la giocondità sprizzava in minutissime faville.
Il bimbo provocò sulla coperta di seta azzurra un leggero fruscìo e allora Vanna si mosse, tentando di aprire le palpebre; ma le palpebre ridiscesero e le curve ciglia tornarono a segnare di un’ombra lieve il delicato pallore delle gote.
Ermanno si fece serio per ammirare con maggiore intensità la mamma così bella, così bianca, intorno alla cui fronte le stille del sudore sembravano perle. Somigliava a una regina o forse anche somigliava a una santa, a una di quelle sante che calano talvolta dal paradiso, prendono per mano i bimbi devoti e con loro passeggiano sopra la terra, vestite di abiti di argento, la chioma incoronata di gemme.
Dalla torre di Maurizio il suono dell’ora giunse, sospingendo altrove con impeto i pensieri di Ermanno, che alzò subito in alto il braccio destro e, chiuso il pugno, cominciò a marcare con gesto energico i colpi dell’orologio. Egli aggrottava le ciglia e aguzzava intento le labbra, fingendo di essere Maurizio, l’uomo di bronzo, il quale dimora in cima alla torre e, ad ogni scoccar dell’ora, batte di un suo martello i fianchi della campana. Quello strano uomo di bronzo, che di notte può noverare tutte le stelle e che d’inverno, ammantato di neve, rimane impavido a sfidare l’urto del vento, provocava sempre gli scherni del bambino.
Egli lo chiamava «signor Maurizio Stupidone», lo irrideva dai balconi della sua casa, lo invitava a discendere dalla torre per passeggiare, mangiare, dormire come fanno gli altri.
Invano le persone gravi e serie, monsignore, Don Vitale, Bindo e Villa Ranieri, sgridavano Ermanno dolcemente, per queste sue strane idee, ammonendolo che gli uomini di bronzo non camminano e che, a nove anni, non è più lecito di sragionare come un bimbo di cinque.
Ermanno non mutava per questo di parere, giacchè Serena, la compagna de’ suoi giuochi, Serena la bionda, Serena la gaia, più piccola, ma più audace di lui, lanciava anch’ella i suoi frizzi a Maurizio di bronzo, e giacchè Domitilla Rosa, zia di Serena, lo ascoltava con letizia e gli diceva beata, giungendo le palme: «Il Signore ti conservi nella tua santa innocenza, cherubino mio, tu sei puro, tu sei candido come l’agnello Gesù».
L’orologio della torre del Moro suonò alla sua volta e, quasi contemporaneamente, tutti gli orologi della città suonarono, segnando le cinque del pomeriggio.
Vanna tra poco si sarebbe svegliata ed il bimbo non voleva incorrere nella sua collera per averle disobbedito e non essere rimasto tranquillo nella propria stanza. A dire il vero le collere della mamma non erano tali da suscitare uno sgomento eccessivo. Ella, negl’istanti di corruccio, si limitava a crollare il capo in atto di scontento ed a lasciarsi cadere le mani in grembo in atto di sconforto. Ma Ermanno che provava una grande amarezza quando la vedeva scontenta e sconfortata, si buttò di nuovo carponi, attraversò la stanza di galoppo, evitando i mobili con destrezza, e scomparve nella stanza attigua per rannicchiarsi fra le lenzuola e far maliziosamente le viste di avere dormito.
Era tempo. La faccia bella di Vanna s’illuminò d’un sorriso inconscio e la giovane signora allungò il braccio con moto istintivo per ricercare lo sposo fiorente, che aveva l’abitudine di allacciarla, di stringerla a sè con foga appassionata, tantochè ogni risveglio di Vanna significava nel talamo una festa d’amore. L’illusione dileguò fugacissima e Vanna, oramai desta completamente, esalò dal cuore un gemito lieve e, incrociate sul petto le mani snelle, rimase immobile, cogli occhi melanconici e i lineamenti minuti soffusi di languore, a ricercare nel passato i tesori delle sue dolcezze.
Ma le dolcezze apparivano lontanissime, impalpabili, quasi non fossero esistite mai, ed il rammarico invece stava lì, presso di lei, implacabile e vigile.
Così, com’ella giaceva in quel momento, immobile e con le mani incrociate sul petto, essa aveva veduto lo sposo per l’ultima volta, vestito di nero, coi chiari capelli giovanili spartiti sulla fronte, marmoreo il volto nel giro della barba fluente.
Erano trascorsi appena venti mesi e già i suoi otto anni di felicità ininterrotta, otto anni riboccanti, spumeggianti di gioia, simili a coppe ricolme, scendevano verso il fondo della memoria, sopraffatti dal peso dello strazio recente. Quanto si erano amati con Gentile! Come si erano amati! Il rimorso pungeva talvolta per questo amore la coscienza di Vanna. Iddio, padrone geloso ed esclusivo di ciascun’anima, s’irrita quando le creature troppo si adorano di affetto caduco; e allora Iddio, nell’ira sua, colpisce, devasta, spezza i legami dei cuori troppo mondanamente avvinti! La passione, anche santificata dal matrimonio, può apparire colpevole agli occhi scrutatori dell’Onniveggente. Egli è solo giudice e padrone, egli solo dispensa, a suo grado e per nostro vantaggio, dolcezza e pene. Questo le aveva detto spesso don Vitale, ed ora Vanna, fissando l’occhio sul talamo deserto, pensava con rimpianto che il Signore forse non l’avrebbe punita, se meno ella avesse amato, se meno si fosse lasciata amare.
Sciolse le mani; il calore di esse sopra la cute del petto, le trasfondeva una mollezza vaga, come il senso fastidioso, eppur delizioso, di un soffio impercettibile, che dalla nuca le scendesse fino alle reni; sospirò, a lungo, ripetutamente, traendo sospiri dal fondo del petto, si gettò sopra le spalle una mantiglia di mussolina bianca e si avvicinò alla grande specchiera mobile, collocata presso un angolo della stanza.
Ella aveva l’abitudine di assorbirsi nella contemplazione della propria immagine. Non già per civetteria. Vanna era semplice al pari del suo piccolo bambino; e nemmeno per vanità, giacchè ella non si curava di piacere. Per piacere bisogna affaticarsi, studiarsi, scrutare sè, scrutare gli altri, scegliere con cura gli adornamenti e mescolare con sapienza sorrisi che invitano, parole che respingono. Vanna preferiva lasciarsi adorare, e tutti l’adoravano infatti, con l’adorazione riguardosa e tenera, che si ha verso un fiore, squisito di fragilità e di bellezza. Ella s’indugiava a contemplarsi per indagare il mistero di se medesima, mistero che le sfuggiva come l’acqua sfugge di tra le dita socchiuse. Si vedeva diversa da tutte le sue amiche, senza potersi dire se migliore o peggiore di esse. Avrebbe voluto indovinare perchè al disotto della sua cute, intatta e fresca, talvolta correvano vampate, un guizzare improvviso di tante piccolissime fiamme, che non si vedevano, ma che le accendevano il sangue, trasfondendole un’arsura piena di tormenti.
Mentre si guardava negli occhi, tentando contare le pagliuzze d’oro fluttuanti nell’iride, una voce, la voce del ricordo, le giunse dal talamo:
«Sei bellissima — la voce diceva. — Non distrarti, non perderti nell’ammirazione di te. Io ti attendo! Vieni, adorata!»
Oh! con quale ansia nei tempi della sua gioia, ella accorreva frettolosa a tale richiamo!
Squilli brevi di riso le palpitavano nella gola, le guancie sembravano lembi di porpora, ed ella si lasciava cadere in ginocchio, si abbandonava col seno presso la sponda del letto e sollevava il volto, sollevava le braccia, si ergeva, si offriva con l’anima e con la bocca all’ardore dello sposo fiorente. Ma adesso la voce aveva il suono fioco della eco, quando la eco ripete con fedeltà schernitrice le parole che non sono più.
Vanna si accasciò in una poltrona di fronte allo specchio, e rimase tutta ripiegata sopra di sè con le dita immerse nell’onda viva de’ suoi capelli. Non voleva più pensare, non voleva più ricordare. Da venti mesi il dolore la sollevava, la sbatteva, come il mare in tempesta fa di una barca senza più vele, e Vanna stanca di sentirsi così in balìa di una forza avversa, non girava più il capo indietro ad invocare il lido dond’era partita; ma spingeva l’occhio in avanti alla ricerca di altri lidi remoti ancora, ancora velati, forse irraggiungibili, forse anche inesistenti.
Nell’atto, la mantiglia di mussolina era scivolata e Vanna sentì qualche cosa di vivo camminarle sopra la spalla nuda. Guardò, sorridendo, nello specchio e vide Ermanno, che le tracciava geroglifici lungo la cute con la punta delle dita.
— Hai dormito? — ella chiese, prendendo nella sua la piccola mano del bimbo per tenerselo fermo accanto e poterlo accarezzare.
Ermanno, con un occhio aperto e l’altro chiuso, rispose che aveva dormito tanto, che, per metà, dormiva ancora; ma Vanna candida e maliziosa, comprendeva le astuzie del suo bambino malizioso e candido.
Lo minacciò dunque coll’indice e gli mosse rimprovero.
— Perchè dici bugie? Il topolino mi ha raccontato che tu non hai dormito affatto e che sei stato disubbidiente.
Ermanno non si turbò; egli sapeva per esperienza che il topolino della mamma era un animaluccio assai discreto, il quale si contentava di narrare ciò che la mamma sapeva o indovinava da sè. Tuttavia valeva assai meglio non ostinarsi nella menzogna.
— Non ho dormito perchè non avevo sonno — egli confessò — e allora ho fatto il cane. Ho fatto il cane qui nella tua stanza; ma tu non ti sei svegliata.
Vanna gli baciò con fervore i lunghi capelli inanellati e rise forte in uno scatto di giocondità da molto tempo insolita.
Ermanno si era infilata una blusa alla marinaia sul camice da notte, e il camice da notte, scendendogli dai fianchi a foggia di vesticciuola, lo faceva somigliare a una vezzosa ragazzina.
— Quanto sei strano! Sembri mascherato — Vanna gli diceva e seguitava a ridere.
Anche Ermanno rideva, ed anzi si dette a correre, facendo svolazzare le pieghe del camice, acciocchè la mamma ridesse di più.
Vanna invece ridiventò seria, si avvolse nella mantiglia ed alzandosi dalla poltrona disse al bimbo:
— Andiamo a fare le nostre preghiere.
Entrarono, tenendosi per mano, nella cappella attigua alla stanza e Vanna si prostrò sull’inginocchiatoio, collocato davanti all’altare, che occupava, tra le due finestre, un lato della parete ottagonale.
Vanna aveva costume di rimanere assai tempo in orazione, forse perchè si distraeva facilmente e doveva spesso riprendere da capo le sue preghiere.
Dritto in piedi accanto a lei, Ermanno si rivolgeva al Signore Iddio, creatore del cielo e della terra, e gli domandava tante grazie, sapendo benissimo, da bimbo educato religiosamente, che, quando si prega, bisogna sempre domandare al Signore molte cose; ed egli domandava la salute per sè e per la mamma, per parenti, amici e nemici, domandava la bontà, l’ubbidienza, la castità, l’umiltà, implorava per essere adorno di virtù, di cui non conosceva il pregio, e per essere immune da vizi; di cui non conosceva la bruttura; spesso anche implorava qualche favore speciale per conto suo, rimanendo poi indignato e stupito, allorchè il favore non gli veniva concesso, come una volta in cui aveva chiesto con fede cieca di veder correre il suo bel cavallo di legno ed il cavallo si era ostinato a rimanere immobile sopra le quattro zampe.
— Iddio può tutto — gli asseriva Domitilla Rosa — Iddio può far muovere le montagne e parlare le pietre; Iddio può far risorgere i morti e dar vita agli oggetti inanimati!
Questo asseriva Domitilla Rosa, ed Ermanno non sapeva capacitarsi che Iddio, così onnipotente, avesse rifiutato proprio a lui il favore meschino di far correre il suo cavallo di legno. Dopo tale circostanza le sue preghiere continuarono ad essere altrettanto frequenti, ma velate da un dubbio inconscio; e quel giorno, diritto accanto alla mamma, chiese con spirito agitato, che l’indomani, festa del Corpus Domini e nono anniversario della sua nascita, gli giungessero da varie parti molti regali. Non sapendo poi più che cosa dire al Signore e vedendo che la mamma rimaneva tuttora in meditazione, egli per distrarsi volle coprir col piede un breve raggio di sole che, entrato per la finestra, brillava sul pavimento; ma, in quella ch’egli credeva di avere coperto il raggio, vide che il raggio era stato pronto subito a coprirgli il piede, sicchè ne prese dispetto e si trastullò ad ammirare gli arredi sacri dentro l’armadio a cristalli; ammirò le cotte di filo guernite di pizzo antico, le stole di seta ricamate in oro, il calice smaltato, la patena a rilievi.
Finalmente si avvicinò alla madre e le disse:
— Io ho pregato tutto.
— Prega ancora, bambino — Vanna rispose, senza nemmeno sollevare il capo, che teneva nascosto tra le palme.
— Ho già domandato le grazie al Signore.
— Domandagli di portare presto in Paradiso l’anima del tuo povero babbo e di toglierlo presto dalle pene del Purgatorio.
Ermanno spalancò gli occhi e rimase preoccupato. Egli era semplice di spirito, perchè semplici erano le parole ed i costumi delle persone con le quali viveva; ma era insieme profondamente riflessivo e terribilmente logico.
Se il babbo si trovava in Purgatorio, allora perchè mai, all’epoca della sua morte, monsignore gli aveva detto che il babbo era andato in Paradiso? Chi mentiva? Monsignore verso il quale tutti mostravano tanto rispetto, o la mamma alla quale egli portava tanta affezione?
Per sincerarsi interrogò ancora:
— Perchè dici che il babbo non è in Paradiso?
— Perchè deve mondarsi l’anima dei peccati commessi. Taci.
Il bimbo tacque; ma frugò più che mai nel proprio pensiero.
Quali peccati il babbo aveva potuto commettere?
Egli se lo ricordava ilare sempre, col viso illuminato di bontà, le mani pronte a soccorrere e ad accarezzare; si ricordava perfettissimamente che, quando il babbo era morto, tutti avevano esclamato con accento di desolazione: «Oh! che buon signore! Che signore benefico è sparito dalla città!» e Titta, il vecchio servo, aveva giurato, piangendo, che sopra la faccia della terra mai era apparso uomo più generoso e più nobile di Gentile Monaldeschi.
Dunque Ermanno disse convinto:
— Il babbo non deve stare in Purgatorio, perchè non commetteva nessun peccato.
Vanna lo riprese con molta severità:
— Non c’è nessuno al mondo che non commetta nessun peccato. Iddio segna tutto, misura tutto; il più piccolo pensiero, la mancanza più lieve, e poi ci castiga in questa vita e nell’altra.
Ermanno fu preso da grave sgomento al suono di tali parole e l’immagine del Signore gli si presentò alla fantasia come di uomo straordinariamente vecchio e nerboruto, con barba inverosimilmente copiosa e bianca, con gli occhi irati e le braccia stese in avanti nell’atto di piombare sul mondo per distruggerlo.
Ma, frattanto, essi erano usciti dalla cappella ed i pensieri del bimbo avevano preso un corso giocondo, mentre le pupille irrequiete e limpide scrutavano ogni gesto di Vanna, che alla sua volta si compiaceva di tormentare alquanto il piccolino, eccitando con la sua pacatezza ostentata l’evidente impazienza di lui.
— Cosa vuoi? — ella gli disse, mal riuscendo a frenare il riso. — Perchè fiuti? Cosa cerchi? Mi segui come un cagnolino e io non ho niente da regalarti.
Ermanno esultò. Se la mamma diceva ridendo: «Io non ho niente da regalarti» voleva significare che il dono stava lì, nascosto dentro il tiretto di qualche mobile.
— Dammelo — egli supplicò — dammelo.
— Ma cosa? Io non so cosa darti.
— Il regalo. — E si aggrappava a lei, si alzava sulla punta dei piedi, eccitato, fremente, tutto vibrante per l’orgasmo del desiderio.
Vanna prese una scatola dall’armadio e la porse al bambino, che l’afferrò, la scoperchiò e ne trasse una statuetta di cera, vestita da chierico, con la sottana di seta e la cotta di pizzo. La statuetta teneva un giglio nella mano ed aveva la faccia compunta, il collo piegato verso sinistra. Ermanno l’ammirò e la riconobbe subito per la immagine di un San Luigi Gonzaga, il santo giovinetto che don Vitale gli suggeriva d’imitare, esaltandone la devozione e la purezza.
Vanna, seduta, contemplava il bimbo con faccia amorosa.
— Ti piace? — gli chiese.
Certo, a Ermanno la statuetta piaceva, perchè era di cera dipinta e perchè indossava una cotta di pizzo; ma, senza osare di confessarlo, egli provava un senso di amara disillusione. Le immagini dei santi vanno conservate con molta cura, ed egli avrebbe preferito un regalo da sciupare: un fucile, un vapore, magari un pulcinella, che si movesse da sè.
Vanna ne indovinò il rammarico.
— Rifletti. Pensa che sei grandicello — gli disse, accarezzandogli le gote — Domani compirai nove anni, e adesso i giuochi non bastano più. Bisogna diventar serio e imparare.
Ermanno teneva la statuetta sopra la palma della mano e rifletteva, guardandola. A un tratto chiese:
— San Luigi Gonzaga, quando era vivo, camminava sempre con un giglio in mano?
Vanna si mise a ridere e lo sgridò:
— Come mai dici questo? Come si fa a camminare sempre con un giglio in mano? Lo rappresentano così, perchè il giglio è l’emblema della castità e San Luigi era castissimo.
Ermanno pretendeva che la mamma gli spiegasse che cosa vuol dire un fiore di castità; ma ella gli dette sulla voce, assicurandolo che i bimbi troppo indiscreti addolorano Maria Vergine, ed allora Ermanno, per una strana connessione di idee, volle conoscere se era vero che San Luigi Gonzaga odiava tutte le donne e si vergognava della propria madre.
— Sì, sì — rispose Vanna, abbracciandolo — ma egli era un santo e tu sei un piccolino senza giudizio.
Ermanno depose con molta deferenza l’immagine del santo e si rifugiò nel grembo della madre, cingendole il collo e posandole il capo sulla spalla. Ridevano entrambi, sottovoce, alquanto confusi, umiliati forse di non essere santi, ma felici di sentirsi così uniti, beati per la soavità che si trasfondevano a vicenda.
Palmina entrò e rimase estatica presso la soglia, giungendo le mani con adorazione.
— Pare proprio di vedere il quadro del duomo — ella esclamò. — La Beata Vergine col Bambinello Gesù! e si avvicinò con la sua andatura obliqua e fugace di lucertola, che guizzi al sole. Era ossequiosissima, faceva inchini e muoveva la testa piccola, da sinistra a destra, dardeggiando lampi dagli occhietti luccicanti, simili a punte di ago, sotto la pioggia dei ricciolini impomatati.
Da anni Palmina si trovava al servizio in casa Monaldeschi, eppure simulava di estasiarsi tuttavia al cospetto della sua nobile signora, come il giorno in cui, arrivata dalla campagna, aveva finto di scambiare la giovane sposa di Gentile Monaldeschi per un’apparizione della Madonna.
La signora si lasciava adorare placidamente e donava spesso, donava molto, suscitando in Palmina un tale zelo di riconoscenza ammirativa che ella si vedeva costretta a raddoppiare il dono per trovarsi al livello di una riconoscenza così sviscerata.
Palmina baciò un lembo della mantiglia di Vanna, baciò con effusione il piede scalzo di Ermanno e suggerì umilmente alla signora che era il momento di abbigliarsi per sedersi poi a respirare il fresco sul balcone, acciocchè gli orvietani, recandosi in Duomo per i vespri, potessero vederla ed ammirarla.
Frattanto, con le dita svelte, le attorcigliava i capelli, lasciando ch’essi ricadessero ondulati sopra le tempie e si rovesciassero nel mezzo della fronte a mostrarne il candore.
Vanna si alzò e disse svogliata:
— Dammi l’abito di seta nera; quello con le maniche di merletto.
Palmina si affrettò a trarre dall’armadio una fresca vestaglia di batista color acqua marina, adorna di pizzi.
— Ecco, signora, così lei oggi si deve vestire. Quell’anima benedetta è scomparsa da venti mesi e in città già si mormora che lei porta il lutto da troppo tempo.
Vanna turbata, guardava la veste vaporosa ed esitava. A lei piacevano le stoffe leggere dai colori tenui e scherzosi, le stoffe che avvolgono la persona come in una carezza ed i colori che richiamano alla fantasia lembi di cielo, lembi di mare, piccole nubi isolate e diafane, brevi margini verdeggianti e punteggiati di fiori; ma ella sentiva in modo confuso il dolore staccarsi da lei, e sentiva che per arrestarlo era necessario oramai qualche cosa di tangibile e dì visibile, con cui richiamarsi costantemente al pensiero la propria sventura. Crollò dunque il capo e ripetè:
— Dammi il vestito nero.
Palmina, più che mai ossequiosa, più che mai melliflua nelle parole e rapida nei gesti, abbigliò Vanna di chiaro, dicendo, con guizzi di malizia negli occhietti irrequieti:
— I brillanti no, signora, i brillanti no. In questo ha ragione lei; ma la catenella d’oro con le perle, sì, la catenella d’oro è lecito che lei la porti. Chissà, chissà, quanti ori, quante perle porterà il suo sposo in Paradiso — e, aperto un forzieretto, prese dall’astuccio un vezzoso monile e lo allacciò con lestezza intorno al collo di Vanna, che, guardandosi dentro lo specchio, si stupì nel vedersi a un tratto ringiovanita, come rinnovata, più delicata e ridente fra lo spumeggiare azzurrino della sua veste.
Distolse il capo, irritata contro di sè, irritata contro Palmina; ma non ebbe agio di protestare, giacché Ermanno accorse, gridando:
— Ecco monsignore! Mamma, ecco monsignore!
Vanna si avviò sollecita verso il grande salone, di cui appunto varcava la soglia mentre monsignore entrava dall’anticamera, introdotto cerimoniosamente da Titta, che scomparve subito.
Monsignore, facendo scricchiolare sul pavimento di marmo le scarpine lucentissime, attraversò l’ampia sala e, raccolto sul braccio il ferraioletto di seta, s’inchinò di fronte a Vanna con perfetta eleganza mondana, piegando la persona aitante e curvando la testa bruna, dove la tonsura segnava un cerchio appena visibile.
— Prego, prego, signora mia — egli disse cortese, tentando schermirsi dal baciamano di Vanna; ma ella, con gesto pieno di grazia umile, gli prese la destra e se la recò alle labbra, dopo di che riassunse con naturalezza il suo fare di gentildonna amabile, ed invitò monsignore ad assidersi sopra il balcone, poichè la giornata era stata assai calda e dentro la stanza l’aria mancava.
— Per la festa di domani avremo un tempo magnifico — disse monsignore con la sua nitida pronuncia senese, che faceva sembrare anche più morbida la pastosità della sua voce.
Vanna rispose:
— Stamattina pareva che il tempo volesse rabbuiarsi; ma poi si è rimesso al buono. Avremo davvero per la festa di domani una giornata magnifica — e, parlando, aspirava il grato odore d’incenso e di cera, esalante dall’abito accuratissimo del sacerdote.
Non avevano troppe idee da comunicarsi, vedendosi almeno due o tre volte alla settimana; onde tacquero a lungo, monsignore assorto forse nelle sue varie preoccupazioni di rettore del Seminario; Vanna intenta, a capo chino, a guardare le mani prone e bianche di lui, spiccanti sul nero della veste talare.
Ella ripensava ai desolati pomeriggi quando, nei tempi primissimi della vedovanza, il dolore la rendeva quasi ribelle ai decreti divini.
Monsignore le parlava allora interminabilmente, e le parole soavi di pietà, temperate di ammonimenti austeri, cadevano benefiche sul cuore di Vanna e ne stemperavano lo smalto, aprendo il varco alle lacrime. Talvolta ella non seguiva il filo del ragionamento; ma quella fresca loquela senese le gorgogliava canora dentro le orecchie a guisa di sorgente montana, e lo spasimo diventava in lei meno acerbo, una iride di speranza s’inarcava, sia pure velata, sulla tenebra de’ suoi pensieri.
Un giorno egli l’aveva redarguita con acerbità per una frase amara all’indirizzo della Provvidenza, e Vanna si era sentita all’improvviso felice e pavida, annientata di terrore per la minaccia dei castighi celesti e, in pari tempo, avvampata da l’ardore di redimersi, di salvarsi, abbandonando la sua volontà alla volontà vigile di monsignore; un altro giorno egli, servendosi del linguaggio simbolico dei libri sacri, le aveva inculcato che i frutti dell’eterna gioia si maturano spesso nel pianto, e Vanna aveva offerto a Dio l’olocausto delle sue pene, chiedendogli in compenso di chiamarla presto partecipe del celeste convito, ov’ella si sarebbe assisa ai fianchi della sposo, ammantato di forza e di bellezza, giovane per l’eternità, per l’eternità innamorato di lei.
Poi, a mano a mano che la disperazione s’era ammansata nell’animo di Vanna, monsignore era diventato meno loquace, e adesso egli si limitava a regolari visite di amico autorevole, sempre affettuosamente accolto, sempre rispettosamente ascoltato, sollecitato sempre di largire i suoi consigli, molto più che Gentile Monaldeschi si era fatto promettere da monsignore, in punto di morte, di vegliare sulla vedova e sull’orfanello.
Ermanno si presentò, ancora col camice che gli scendeva dai fianchi, per baciare la mano a monsignore, e Vanna lo rimproverò sorridendo:
— Come? Non hai vergogna di mostrarti così? Perchè non ti sei fatto vestire da Palmina.
Ermanno confessò che Palmina aveva insistito per vestirlo, ma che egli non aveva voluto.
— Quando verrà Serena — Ermanno spiegò — le farò vedere di essere diventato anch’io una bambina e rideremo insieme.
Monsignore gli posò la mano sul capo e lo consigliò di essere ubbidiente, di farsi vestire e tornare sopra il balcone a prendere il fresco.
Entrambi accompagnarono il bimbo, mentre egli si allontanava, con occhio di tenerezza.
— Quel bambino è l’emblema dell’innocenza — monsignore disse — ha l’anima tersa più del cristallo e ciò dev’essere per lei di somma consolazione.
Vanna intrecciò le mani con fervore.
— Oh! Sa Iddio quanto Ermanno mi è caro e di quanto conforto! Eppure spesso io tremo. Cosa avverrà di lui? Chi potrà guidarlo fra i pericoli della vita, quando il mio cuore non gli basterà più? Sono io stessa inesperta e debole.
— Iddio veglia, Iddio vede e provvede — il sacerdote disse con solennità mitigata da squisito garbo signorile, discendendo egli da nobile e antica famiglia senese.
— Mi basterebbe che Ermanno somigliasse al mio povero Gentile. Non vorrei di più.
— Il buon albero dà buoni frutti, signora, e noi penseremo ad avviare il giovanetto sulle vie del bene.
Vanna sorrise e poi disse crollando il capo:
— Don Vitale ieri si è lamentato. Ermanno non sapeva la sua lezione di latino.
Monsignore sorrise anche lui di un sorriso lievemente irrisorio.
— Non dia eccessivo peso ai lamenti di don Vitale. Ottimo sacerdote, zelante maestro; ma non troppo perspicace. La classe ch’egli tiene in seminario è dominata da lui con pugno ferreo; ma, finito l’anno scolastico, i migliori esami vengono in genere sostenuti dagli alunni, di cui egli più si lagna.
Vanna si dette a ridere con discrezione. Quel terribile don Vitale, con la grossa testa e le grosse scarpe, aveva una così singolare maniera di sgranarle in volto i rotondi occhi minacciosi ch’essa doveva inevitabilmente mostrargli i piccoli denti uguali e nitidi simili a grani di riso.
Il suono di un violoncello, stridente come il cigolìo di una ruota, giunse fino alle loro orecchie, lacerandole.
Vanna indicò con la mano dalla parte di via Luca Signorelli.
— Ecco, don Vitale comincia a suonare.
Monsignore disse con rassegnazione scherzosa:
— Don Vitale comincia a suonare. Preghiamo dunque Iddio che, nella sua infinita bontà, abbia misericordia di noi.
Vanna ascoltò per un istante, portò le mani alle orecchie con terrore e poscia tornò all’argomento che più la interessava:
— Non pare anche a lei, monsignore, che Ermanno apprenda con molta difficoltà?
— È un bimbo che pensa — egli rispose con la sicurezza che gli veniva dalla sua esperienza di educatore. — Ogni parola diventa feconda in quel cervello infantile; ma non bisogna affrettarne il germoglio con le nostre impazienze.
Una sfumatura di rossore ornò le gote di Vanna e il lampo di un desiderio ardente le brillò nello sguardo.
— Lei sa, monsignore, qual è la mia speranza. Offrire mio figlio a Dio, fare di lui un sacerdote sapiente, un prelato autorevole, forse, chissà, esaltarmi un giorno in lui per la sua porpora cardinalizia.
Monsignore ne mitigò con gesto affrettato l’entusiasmo.
— Non precorriamo gli eventi e, sopratutto, non offriamo a Dio quello che non ci appartiene, ossia l’altrui volontà e l’altrui vocazione. Iddio sa lui quanto gli spetta, e noi dobbiamo seguirlo, non già precederlo ne’ suoi decreti.
Vanna, confusa, lasciò cadersi le mani in grembo e disse con umiltà remissiva:
— Il mondo è così pieno d’insidie.
— La ragione ci è data per evitarle.
— Le gioie terrene ingannano, monsignore. Io credevo di essere la più felice tra le donne e son diventata invece la più misera. Lei stesso mi ha detto, in confessione, che gli attaccamenti mondani sono lacci, sono pericoli.
Monsignore corrugò le ciglia e incrociò con atto d’impazienza una gamba sull’altra. Non ammetteva che nelle conversazioni amichevoli si riandasse su quanto era stato detto in confessione.
— Il tribunale della penitenza è fatto per correggere — egli disse con autorevolezza — mentre qui io sono l’amico della sua famiglia, il tutore morale del suo bambino. Si guardi bene di sostituire il suo proprio desiderio alla vocazione libera di suo figlio. I genitori commettono qualche volta irreparabili torti per troppo zelo. — E s’interruppe inaspettatamente, riprese la sua composta posa abituale e spianò la fronte nel timore che vi si scorgesse l’ombra di un rimpianto.
Vanna, col busto abbandonato in avanti sulla ringhiera del balcone, non osava guardare in faccia monsignore, ma era turbata da un senso dolcissimo di annichilimento, dal piacere quasi fisico di sentirsi dominata da quella volontà maschile più vigorosa della sua.
Titta, portando in mano un capace vassoio, entrò dalla porta dell’anticamera in compagnia di Palmina e Domitilla Rosa che, modestamente vestita di scuro, nascosto il capo sotto un piccolo velo nero, baciò con delicatezza la mano di monsignore, strisciò per Vanna una riverenza e prese posto in silenzio, sorridendo di un sorriso vago, come di persona assente in ispirito. Nessuno le badò; solo Ermanno le chiese:
— Dov’è Serena? Perchè non è venuta con te? Io volevo giuocare.
Domitilla Rosa, nella fissità del suo sorriso, rispose con voce velata, assai dolce:
— Oh! agnellino mio, Serena è uscita da oggi, a mezzogiorno. Credevo che fosse qui. Sarà da Villa e verrà più tardi a trovarti.
Titta offriva in giro calici snelli, resi opachi dal ghiaccio della limonata, e Palmina offriva biscotti dentro un leggiadro canestro di filagrana.
Titta, allampanato e lungo nella giacca nera di lustrino, pareva uno scheletro vestito, tanto era magro e tanto le gambe gli scricchiolavano, ballonzolando, sotto i pantaloni di tela bianca; ma il viso appariva schietto per placida allegrezza e la bocca sdentata gli si apriva constantemente a un riso infantile di docilità.
Lo tormentavano con innocenti scherzi di ogni genere: lo chiamavano «Sua Eminenza», da una volta che, per giuoco, si era adattato un cordone rosso intorno al cappello di paglia; lo chiamavano «Sem fratello di Cam», perchè egli doveva di certo essere nato ai tempi del diluvio.
Monsignore, facendo girare il cucchiaino d’argento dentro il bicchiere, gli domandò scherzoso, amabilmente:
— Ebbene, Titta, quando pensate a collocarvi? Quando farete conoscere la vostra sposa?
Titta rispose con esultanza:
— Devo tirare ancora il numero della leva. Dopo, quando avrò fatto il soldato, mi sposerò.
La degnazione amichevole di monsignore verso di lui, povero vecchio servo, era il suo orgoglio e la sua gioia, ond’egli cercava di meritarla e di provocarla, rispondendogli con arguzia piena di ossequio, ridendo beatamente ad ogni nuovo scherzo, studiandogli in volto con deferenza per comprendere fin dove potesse spingersi, quando fosse il punto di arrestarsi.
Monsignore lo incoraggiò:
— Bravo, bravo, il nostro Titta. Non bisogna precipitare. Avete tempo davanti a voi e il matrimonio è un sacramento che va meditato.
— Chi disse donna disse danno — Titta sentenziò arditamente; ma si arrestò e si confuse, guardando timoroso la sua buona e bella signora.
Vanna lo rassicurò benigna, prendendo parte alla celia.
— Sappiamo, sappiamo dove mirano i sospiri di Titta. Palmina mi ha fatto le sue confidenze.
Gli occhietti furbi di Palmina brillarono di soddisfazione, perocchè a lei faceva piacere tutto quanto a Titta faceva dispetto e per Titta era un bruciore, un rancore pensare alle tenaci insidie ordite da Palmina contro la sua incolumità di vecchio scapolo. Egli dunque raccolse i bicchieri nel vassoio e si allontanò dal salone, mentre Palmina lo seguiva ridendo e agitando irrequieta la sua piccola testa di lucertola.
La piazzetta Gualterio, tacita come la piazzetta d’un villaggio, era tutta immersa nell’ombra; a sinistra, sotto l’arcata, un omettino gobbo, seduto di fronte al suo deschetto, si serviva alacre di spago e di lesina; da via Luca Signorelli, a destra, giungeva il suono rauco del violoncello, sopra cui don Vìtale doveva accanirsi rabbiosamente.
In tanta pace echeggiò un passo precipitoso e, sul limitare della piazzetta, si vide Bindo Ranieri, che arrivava dal Corso per andare verso il Duomo.
Ermanno lo chiamò a gran voce:
— Bindo, Bindo, è in casa tua Serena? Io voglio Serena!
Bindo, largo e basso, vestito di chiaro, portava in capo una berretta a visiera di seta a scacchi. Pareva un viaggiatore disceso in quel punto dalla funicolare e invece da quarant’anni, ossia dal giorno della sua nascita, era vissuto all’ombra del Duomo, tantochè gli orvietani non parlavano del Duomo senza pensare a Bindo Ranieri e non parlavano di Bindo Ranieri senza pensare ai fianchi robusti del Duomo.
Egli si sberrettò due volte, una per monsignore, la seconda per Vanna e rimase coll’acceso faccione alzato, approfittando della sosta per asciugarsi le gote in sudore.
— Dov’è Serena? — Ermanno insistè.
Bindo Ranieri dette in una risata sonora, che lo scosse tutto.
— L’ho vista poco fa; era con mia moglie. Ma pescarla, adesso; quel pezzettino di argento vivo!
— Vammela a cercare; vammela a chiamare — Ermanno disse con la petulanza che gli veniva dalla sua poca età e dalla molta condiscendenza di Bindo Ranieri, che si ripose la berretta ivi testa e agitò in alto le braccia da uomo disperato.
— Cercarla? Chiamarla? E il tempo? Per bastare io solo a queste giornate dovrei farmi in cento. Devo sviluppare tre negative, devo spedire pacchi di cartoline illustrate, devo fotografare un gruppo di gitanti, devo... — e s’interruppe di scatto, rivolgendosi dalla parte del Duomo ed esclamando:
— Son qua, vengo subito — e, sberrettatosi con cerimonia frettolosa, scappò via di corsa.
Evidentemente qualcuno lo aveva chiamato dalla soglia della sua botteguccia.
— Ieri è venuto da me a consigliarsi per l’impiego di quella tal somma — disse monsignore a Vanna. — Le proposte giunte da Cortona mi sembrano onestamente vantaggiose e io ho consigliato il Ranieri di concludere.
Vanna aderì con un cenno del capo.
— Sono anch’io di questo parere; ma di affari m’intendo così poco! Penso cosa sarebbe stato di noi, di me e di Ermanno, se quel mio povero Gentile non avesse tenute le sue cose con tanta precisione, e se Bindo Ranieri non fosse così probo e lei, monsignore, non fosse così buono.
Monsignore con gesto dignitoso e cordiale si schermì dall’elogio.
— È un dovere aiutarci a vicenda; e, d’altronde, come lei dice, il suo povero marito ha lasciato le cose in perfetto ordine. Sotto questo punto di vista, lei può vivere tranquilla e accudire con animo riposato all’avvenire del suo bambino.
Infatti, con un patrimonio liquido solidamente impiegato e la proprietà di una villa nella campagna di Orvieto, Vanna Monaldeschi poteva dirsi ricca in quella piccola città di provincia e poteva occupare un appartamento lussuoso al primo piano del palazzo Miscitelli, largheggiare coi familiari, mostrarsi benefica verso i miseri, essere ospitale coi pochi amici, tenere insomma con signorile decoro il posto a lei dovuto per la famiglia dei Montemarte da cui veniva e la casata dei Monaldeschi della quale era entrata a fare parte.
Monsignore chiese licenza d’interrogare l’orologio e poi si accomiatò. L’indomani i seminaristi dovevano assistere a tutte le cerimonie che si svolgono annualmente in Duomo per la festa del Santissimo Corporale, e monsignore doveva ancora impartire alcuni ordini. Si affrettò dunque a discendere e la sua figura aitante era già scomparsa dalla piazzetta, che Vanna udiva tuttavia lo scricchiolìo delle scarpe lucentissime marcare lo svelto passo del sacerdote.
Ella posò la fronte alla ringhiera del balcone e lasciò cadersi le mani lungo i fianchi, provando infinita dolcezza nel sentirsi fluttuar tra le dita la stoffa leggera della vestaglia color d’acqua marina. Avrebbe voluto rimanere interminabilmente in quella immobilità, in quel silenzio, come avvolta nel mistero della luce che scompariva adagio verso il cielo tutto velato di vapori sfumati, mentre le cose intorno si confondevano a poco a poco nella trasparenza dell’ombra ancora lieve. Dagli orti veniva odore denso di miele e dai rami penduli del gelsomino i piccoli fiori stellanti mandavano effluvi, celando tra il verde i petali paurosi dell’oscurità imminente.
Vanna sospirò e dischiuse le mani, protendendole appena, quasi per fare invito a un’altra mano di ricercare la sua; ma l’incanto fu rotto da un agitato stropicciar di passi e la piazzetta fu invasa per un momento da una lunga fila di seminaristi, che scomparvero subito, agitando i lembi delle sottane violacee.
Il calzolaio gobbo si tolse in ispalla il suo deschetto e dileguò sotto l’arcata, zuffolando il motivo del brindisi:
Il segreto per esser felici...
Il motivo di quel brindisi risuonava da tre giorni alle orecchie di Vanna in tutte le ore, poichè al teatro Comunale si rappresentava appunto l’opera Lucrezia Borgia in occasione delle feste.
Vanna sollevò la fronte e scosse il capo; la musica di quel brindisi la infastidiva simile al ronzìo di una mosca, ed una mosca petulante di gaiezza le pareva anche Ermanno, che le salterellava intorno, le si buttava addosso, solleticandole il viso con le anella dei capelli spioventi.
— Sta fermo — ella gli disse, traendolo a sè. — Vuoi che io ti mandi con Titta a vedere l’illuminazione in piazza del Duomo?
Il bimbo rispose di no; preferiva restare in casa ad aspettar Serena. Dov’era Serena? Perchè non si faceva vedere? Non sapeva forse che Ermanno l’attendeva per fare il giuoco del piroscafo? Questo bel giuoco era una invenzione di Serena, la quale, appena arrivata, diceva a Ermanno invariabilmente:
— Andiamo a giuocare il giuoco del piroscafo.
Allora i due bambini si precipitavano al pianterreno, dove, in una grande stanza disabitata, c’era una cassa vuota lunga e stretta. Vi entravano in festa e Serena, richiamando i ricordi confusi della traversata da lei fatta due anni prima dall’America in Italia, cominciava a barcollare, per simular il rullio del bastimento. Ermanno l’imitava e i due bambini si urtavano, si tenevano per le mani, si facevano prendere dal mal di mare, imploravano l’aiuto del dottore e dell’equipaggio, finchè arrivava la tempesta. Allora essi pestavano i piedi, si disperavano, simulavano con le voci l’urlo del mare in burrasca, mandavano grida scomposte, si pigliavano per i capelli, e Serena si precipitava fuori della cassa, annaspando con le mani e coi piedi sul pavimento per fare le viste di nuotare.
— Mi affogo, mi affogo — ripeteva con terrore la piccolina, ed Ermanno si slanciava fuori del piroscafo e ghermiva Serena per le vesti, spingendola di nuovo dentro la cassa.
— Io ti ho salvata la vita — egli doveva dirle; Serena gli rispondeva: — Grazie — e ricominciavano da capo.
— Io voglio fare il giuoco del piroscafo con Serena; fammi chiamare Serena — egli implorò, accarezzando la madre per commuoverla.
— Guarda, è già buio — ella rispose. — Tu giuocherai domani. — Poi, rivolgendosi a Domitilla Rosa, che guardava il cielo e non aveva parlato mai, le disse:
— Della vostra nipotina non vi preoccupate affatto voi, Domitilla Rosa. Una bimba di cinque anni va guardata.
Domitilla Rosa, sempre fissando il cielo, rispose piano, con la sua voce opaca, dolcissima:
— Il Signore che me l’ha miracolosamente inviata, pensa lui a difenderla. Tutto il Signore dispone per la nostra salute. Egli, nella sua smisurata bontà, ha fatto morire in America mio fratello e sua moglie, l’eretica straniera, acciocché la bambina mi arrivasse qui e fosse battezzata ed entrasse nel grembo della madre chiesa. Quella creaturina è cosa del Signore, e io prego con tutta l’anima ch’egli la protegga e la vigili.
Domitilla Rosa aveva intrecciate le mani e le ultime sue parole erano solcate come da un soffio leggero di collera, tanto le sembrava irriverente l’orgoglio di sostituire la sorveglianza di lei, meschina, all’onniveggenza del Signore.
E c’era quasi da credere che Domitilla Rosa avesse ragione. La piccola Serena, rimasta all’improvviso orfana di padre e madre in America per un disastro ferroviario, avrebbe potuto smarrirsi, impercettibile granellino di sabbia dentro un oceano, molto più che il padre di lei, fratello di Domitilla Rosa, moriva povero e i parenti della madre vivevano sconosciuti, in una parte remota dell’America. Invece no; un altro emigrato orvietano aveva preso a cuore le sorti dell’orfanella e l’aveva spedita, con una famiglia di ritorno, alla città nativa, dove la zia Domitilla Rosa viveva, ricamando in oro.
La piccolina, bionda e ardita, giunta inaspettatamente dall’America, aveva di un guardo e di un gesto legati a sè tutti i cuori. Era chiamata «la figlia della città» perchè era l’ospite d’ogni casa, la vezzosa creaturina che si aggirava sola per le vie di Orvieto ed a cui ciascuno prodigava doni e carezze.
La zia Domitilla Rosa le aveva riposto dentro un nascondiglio il poco danaro portato di lontano, l’amava con tenerezza inerte e pregava Iddio per lei con fede esaltata.
Che cosa avrebbe potuto fare di più?
Domitilla Rosa era una contemplativa; nutrita fin dalla puerizia alle fonti di una vecchia scrittura sacra miniata, voleva gareggiare in contemplazione con l’antica Rachele ed acquistare pregio al cospetto del Signore, ammirandolo ed esaltandolo dentro il suo spirito. La vita attiva di Lia e di Marta la disgustava; ella ambiva di essere la vergine saggia, che tiene la lampada costantemente accesa nell’aspettazione dello sposo; onde viveva solitaria in una sua casetta di stile arcaico e affidava il disbrigo delle poche faccende a una vicina, che si allontanava, dopo averle prestati i suoi servigi, lasciandola sola.
Domitilla Rosa meditava allora interminabilmente sulle cose di Dio e intanto dalle dita le fiorivano gigli d'oro sui velluti delle pianete ed i broccati dei piviali. I gigli intrecciavano gli steli con allacciamenti leggeri ed i pensieri della ricamatrice diventavano alati.
Serena entrava dalla via, per l'uscio sempre socchiuso, turbinava attraverso la stanza, attingeva latte da una caraffa a fiorami, poi si addormentava ai piedi della zia fra le sete ed i velluti.
Domitilla Rosa le sorrideva tacitamente, perocchè ella praticava il silenzio; ma talvolta parlava a lungo, inspirata; parlava per esalare la piena del suo cuore devoto, come l'acqua di una fonte gorgoglia e come Santa Caterina scriveva lettere per esaltare Gesù dolce, Gesù amore.
Vanna Monaldeschi non provò dunque nessuna meraviglia allorchè Domitilla Rosa cominciò quella sera un suo discorso. Dapprima parlò, movendo appena le labbra, assorta, incerta, quasichè le sue parole fossero la eco di altre parole ch'ella ascoltava, poscia la frase le divenne più sicura, l'accento più fermo, e una esultanza trionfatrice le trasfondeva ardore nella persona esile, mentre ella magnificava la gloria del Padre, il quale aveva permesso il miracolo di Bolsena, da cui la solennità del Corpus Domini ha tratto in Orvieto le sue origini e per cui Orvieto, da secoli, rinnova costante ogni anno la tradizionale festa degli avi.
Domitilla Rosa cominciò:
— La festa di domani è festa grande; prepariamoci a goderla, celebrando la bontà del Signore - e si raccolse un istante.
Ermanno, seduto in terra, appoggiò la gota sulle ginocchia della madre; Titta e Palmina interruppero le loro faccende dentro il salone, e si avvicinarono cauti per ascoltare Domitilla Rosa che, nella sua umiltà, aveva studiati i grossi libri e che, a giudizio di monsignore, conosceva a meraviglia le andate storie della sua città.
Domitilla Rosa fissò il cielo con occhio estatico e disse:
— Correva l'anno di Cristo milleduecentosessantatre e regnava sul mondo cristiano la santità di Urbano IV.
Un sacerdote tedesco dubitava del mistero della incarnazione nella particola consacrata e piangendo a calde lagrime per il suo dubbio, mormorava con ambascia fra sè:
— Come in questa azìma, che io ho visto intridere, può scendere il corpo del Figliuolo di Dio? Perchè sopra il palato io sento il sapore del grano che la madre terra produce in luogo di sentir il sapore del sangue? Compisci il miracolo, o Signore, confermami nella tua fede e fa che io gusti veracemente della tua carne e che veracemente io mi abbeveri del tuo sangue prezioso! Così implorava il sacerdote, e si recò in pellegrinaggio alla Città Santa di Roma; quivi si prosternò sopra la tomba del principe degli apostoli e poi si mosse per tornarsene al suo paese. Giunto a Bolsena, presso il bel lago, il sacerdote volle celebrare la messa all'altare di Santa Cristina.
Oh! gloria e magnificenza! Oh! misericordia senza limiti del Padre celeste! L'ostia bianca diventò vermiglia nelle dita del celebrante, che cadde tramortito sui gradini dell'altare, e il Corporale rimase bagnato del sangue che l'ostia, convertita in carne viva, lasciava grondare. Il sacerdote scomparve e il sacro lino, con pompa e giubilo, fu trasportato in Orvieto, dove il pontefice l'accolse alla presenza del popolo. San Tommaso, che allora teneva cattedra in Orvieto unitamente a San Bonaventura da Bagnorea, compose l'orazione del Corporale e, buttatosi ginocchioni davanti al Crocifisso, per ordine del Santo Padre, lo interrogò: -Dimmi, se ho bene parlato di te, Cristo figliuolo di Dio! - E il Crocifisso, piegando sul legno la testa incoronata di spine, pronunciò: -Sì, Tommaso, bene dicesti! - Il Papa allora impose a tutta la cristianità di festeggiare ogni anno il Corpo del Signore.
Domitilla Rosa, curvata la fronte sopra le mani piegate, rimase in atto di riconoscente adorazione.
Il bagliore di una luce rossa inondò i tetti delle case e un clamore di voci festanti echeggiò dalla piazza del Duomo.
— Ermanno, guarda - Vanna disse, accarezzando le anella diffuse del bimbo. - Guarda, Ermanno, il cielo sembra fuoco. Illuminano la facciata del Duomo.
Ermanno non si mosse e non rispose.
— Oh! dorme il piccolo cherubino! Si è addormentato, ascoltando il racconto di Domitilla Rosa - e Vanna gli tolse i capelli dalla faccia e piegò il busto per meglio contemplare il bimbo dormente; ma il vecchio Sem fratello di Cam raccolse il cherubino di terra con rispetto amoroso, e portandoselo via nelle braccia, disse alla signora:
— Penserò io a svestirlo senza interrompergli il sonno.