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Domitilla Rosa, moriva povero e i parenti della madre vivevano sconosciuti, in una parte remota dell’America. Invece no; un altro emigrato orvietano aveva preso a cuore le sorti dell’orfanella e l’aveva spedita, con una famiglia di ritorno, alla città nativa, dove la zia Domitilla Rosa viveva, ricamando in oro.
La piccolina, bionda e ardita, giunta inaspettatamente dall’America, aveva di un guardo e di un gesto legati a sè tutti i cuori. Era chiamata «la figlia della città» perchè era l’ospite d’ogni casa, la vezzosa creaturina che si aggirava sola per le vie di Orvieto ed a cui ciascuno prodigava doni e carezze.
La zia Domitilla Rosa le aveva riposto dentro un nascondiglio il poco danaro portato di lontano, l’amava con tenerezza inerte e pregava Iddio per lei con fede esaltata.
Che cosa avrebbe potuto fare di più?
Domitilla Rosa era una contemplativa; nutrita fin dalla puerizia alle fonti di una vecchia scrittura sacra miniata, voleva gareggiare in contemplazione con l’antica Rachele ed acquistare pregio al cospetto del Signore, ammirandolo ed esaltandolo dentro il suo spirito. La vita attiva di Lia e di Marta la disgustava; ella ambiva di essere la vergine saggia, che tiene la lampada costantemente accesa nell’aspettazione dello sposo; onde viveva solitaria in una sua casetta di stile arcaico e affidava il disbrigo delle poche faccende a una vicina, che si allontanava,