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prietà di una villa nella campagna di Orvieto, Vanna Monaldeschi poteva dirsi ricca in quella piccola città di provincia e poteva occupare un appartamento lussuoso al primo piano del palazzo Miscitelli, largheggiare coi familiari, mostrarsi benefica verso i miseri, essere ospitale coi pochi amici, tenere insomma con signorile decoro il posto a lei dovuto per la famiglia dei Montemarte da cui veniva e la casata dei Monaldeschi della quale era entrata a fare parte.
Monsignore chiese licenza d’interrogare l’orologio e poi si accomiatò. L’indomani i seminaristi dovevano assistere a tutte le cerimonie che si svolgono annualmente in Duomo per la festa del Santissimo Corporale, e monsignore doveva ancora impartire alcuni ordini. Si affrettò dunque a discendere e la sua figura aitante era già scomparsa dalla piazzetta, che Vanna udiva tuttavia lo scricchiolìo delle scarpe lucentissime marcare lo svelto passo del sacerdote.
Ella posò la fronte alla ringhiera del balcone e lasciò cadersi le mani lungo i fianchi, provando infinita dolcezza nel sentirsi fluttuar tra le dita la stoffa leggera della vestaglia color d’acqua marina. Avrebbe voluto rimanere interminabilmente in quella immobilità, in quel silenzio, come avvolta nel mistero della luce che scompariva adagio verso il cielo tutto velato di vapori sfumati, mentre le cose intorno si confondevano a poco a poco nella trasparenza dell’ombra ancora lieve. Dagli orti veniva odore denso di miele e