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stanza attigua per rannicchiarsi fra le lenzuola e far maliziosamente le viste di avere dormito.
Era tempo. La faccia bella di Vanna s’illuminò d’un sorriso inconscio e la giovane signora allungò il braccio con moto istintivo per ricercare lo sposo fiorente, che aveva l’abitudine di allacciarla, di stringerla a sè con foga appassionata, tantochè ogni risveglio di Vanna significava nel talamo una festa d’amore. L’illusione dileguò fugacissima e Vanna, oramai desta completamente, esalò dal cuore un gemito lieve e, incrociate sul petto le mani snelle, rimase immobile, cogli occhi melanconici e i lineamenti minuti soffusi di languore, a ricercare nel passato i tesori delle sue dolcezze.
Ma le dolcezze apparivano lontanissime, impalpabili, quasi non fossero esistite mai, ed il rammarico invece stava lì, presso di lei, implacabile e vigile.
Così, com’ella giaceva in quel momento, immobile e con le mani incrociate sul petto, essa aveva veduto lo sposo per l’ultima volta, vestito di nero, coi chiari capelli giovanili spartiti sulla fronte, marmoreo il volto nel giro della barba fluente.
Erano trascorsi appena venti mesi e già i suoi otto anni di felicità ininterrotta, otto anni riboccanti, spumeggianti di gioia, simili a coppe ricolme, scendevano verso il fondo della memoria, sopraffatti dal peso dello strazio recente. Quanto si erano amati con Gentile! Come si erano amati!