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biscotti dentro un leggiadro canestro di filagrana.
Titta, allampanato e lungo nella giacca nera di lustrino, pareva uno scheletro vestito, tanto era magro e tanto le gambe gli scricchiolavano, ballonzolando, sotto i pantaloni di tela bianca; ma il viso appariva schietto per placida allegrezza e la bocca sdentata gli si apriva constantemente a un riso infantile di docilità.
Lo tormentavano con innocenti scherzi di ogni genere: lo chiamavano «Sua Eminenza», da una volta che, per giuoco, si era adattato un cordone rosso intorno al cappello di paglia; lo chiamavano «Sem fratello di Cam», perchè egli doveva di certo essere nato ai tempi del diluvio.
Monsignore, facendo girare il cucchiaino d’argento dentro il bicchiere, gli domandò scherzoso, amabilmente:
— Ebbene, Titta, quando pensate a collocarvi? Quando farete conoscere la vostra sposa?
Titta rispose con esultanza:
— Devo tirare ancora il numero della leva. Dopo, quando avrò fatto il soldato, mi sposerò.
La degnazione amichevole di monsignore verso di lui, povero vecchio servo, era il suo orgoglio e la sua gioia, ond’egli cercava di meritarla e di provocarla, rispondendogli con arguzia piena di ossequio, ridendo beatamente ad ogni nuovo scherzo, studiandogli in volto con deferenza per comprendere fin dove potesse spingersi, quando fosse il punto di arrestarsi.