Il libro della bella donna/Libro terzo
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LIBRO TERZO
Dubbio, e gran dubbio, nel vero hanno avuto giá i savi del mondo intorno alla diffinizione dell’uomo, onorato monsignor mio. Peroché alcuni vòllono che l’anima sola, alcuni che ’l corpo solo fosse l’uomo, animal sovra tutti gli altri creato e di tutti gli altri di grandissima lunga il piú degno e ’l piú maraviglioso ancora. Quelli, difendendo l’opinione ed il parer suo come buono, dicevano cosí: — Si come questa voce «cavaliero», propriamente favellando, non viene a significare cavallo, ma solamente l’uomo; nè l’uomo ancora si chiama «cavaliero» s’egli non usa il cavallo, cosí l’anima sola si dice essere l’uomo, ma non però s’ella non si trova ad essere nel corpo. — Questi per lo opposto argomentano cosí: — Si come questa parola «bicchiere» solamente viene a significare il vaso, ma si però che alle volte aggia del vino dentro di sè, cosí il corpo è solamente l’uomo, pure ch’egli tenga in sè l’anima serrata e chiusa. — Chiunque considera queste due opinioni tanto diverse, e lontana L’una dall’altra, trova alla fine che nè quelli nè questi hanno il suo intento. Percioché quelli, quantunque dicano l’anima sola esser l’uomo, pure il corpo è non so che; poiché ve la rinchiudono dentro, e senza non ponno fare. Questi parimente mi pare che s’aviluppano il cervello, e si contradicono, percioché, volendo eglino che il corpo solo sia l’uomo, ma non però s’egli non ha l’anima in sè, egli è necessario pure che l’anima sia qualche cosa, anzi che no. Platone, come recita ancor, nell’Idea del teatro suo, messer Giulio Camillo, induce Socrate, nel dialogo intitolato Primo Alcibiade, ammettere la prima opinione. Percioché, dice il Camillo, sí come la vesta che portiamo non è noi, ma cosa usata da noi, cosí il corpo, ancor che sia portato da noi, non è noi, ma cosa usata da noi. Le quali parole ci danno ad intendere che Socrate, appresso Platone, si faceva un poco meglio intendere, e voleva veramente che l’anima sola, o giunta o non giunta al corpo, fosse l’uomo. Poi che ’l Camillo paragona il corpo alle vesti, delle quali benché l’uomo sia privo e senza, nondimeno egli è pur quell’uomo che è con esse ed in esse. Quinci è che il detto Platone (il quale, inducendo a parlare cosí Socrate, suo maestro, non poteva avere, per giudicio d’ognuno, altro parere) usava di dire che non era l’uomo quello che si poteva mostrare col dito. Quinci è che Seneca chiamava il corpo «casa dell’uomo». Laonde credo che uscisse perciò quel motto contra Galba, imperatore gobbo: «Galba non abita bene». Quinci è che Cicerone nel Sogno del minore Scipione (il che toccò nella sua Africa il Petrarca ed in uno de’ suoi dialoghi) volle che fosse il corpo quasi una ròcca o torre, alla cui guardia stesse l’uomo. Né ciò spiacque all’acuto Landino alla vigesimaquarta ode di Orazio. Quinci è che or «ricetto,» or «gonna», or «prigione», or «velo», ora «spoglia», nel Petrarca e nel Bembo è chiamato il corpo. Quinci è finalmente che ’l santo ed afflitto Giobbe diceva al Signore: «Di pelle e di carni tu mi hai vestito, e d’ossa e nervi mi hai composto e fabricato». Della seconda opinione parmi coloro essere stati fautori, che han detto che ’l corpo è solo nostro e che con noi nasce e muore: e l’anima poi generale si, che le piú volte trapassi in altri corpi, e però non nostra. Ma noi vegnamo (da che la vera difinizione stacci ancora ascosa) a definire veramente l’uomo come si dee. Dico adunque che nè l’anima sola, nè il corpo solo, ma l’uno e l’altro vengono a definire l’uomo; e crediamo fermamente che l’anima razionale e la carne insieme facciano un uomo, e che altramente egli non sia, e, s’egli è, egli è mezo e non intero in ogni modo. Ma dirò bene che la migliore e la maggior parte dell’uomo è l’anima, peroché è durevole e sempiterna, dove l’altra è debole e mortale. Il che cosí essendo senza dubbio niuno, gran maraviglia mi viene alle volte pensando onde ciò nasca, ché di piacere al corpo ci affatichiamo quanto per noi si può, generalmente, ciascuno; all’animo non cosí molti riguardano, e, per dir meglio, pochissimi hanno cura e pensiero. Ma chi non vede che quegli uomini, i quali nelle ardenti e sanguigne porpore, e nelle terse e lucide sete, e nell’oro istesso cotanto pregiato, curano di fasciare l’esteriore e delle piú rare gemme adornarlo, lasciando ignudo lo ’nteriore uomo delle vere e sode virtú, e non pure adombrato d’alcun velo o filo del buon costume, si ponno ragionevolmente pareggiare ai tempii d’Egitto, i quali, bellissimi di fuori e con maravigliosa arte drizzati, aveano di dentro, invece di qualche simulacro divino, o gatto o aglio o cipolla, che pazzamente vi s’adorava? o pure a qualche sepolcro, il quale, dentro essendo arido ed incolto, di fuori mostra a’ riguardanti belle imagini di marmo o d’oro lavorate, e polite con grande spesa e con non poco ingegno degli artefici?
Non furono tali, e non sono, i gentiluomini di cui abondevolmente è stato ragionato negli antedetti libri. Percioché, sí come eglino sono di virtute albergo, e pieni infino in colmo di bei costumi e di cortesia, e finalmente di tutte quelle parti che si convengono ad essi, cosí, volendo ciò nella donna loro vedere (ché altramente non la giudicherebbono, con tutte le sue e tanto perfette bellezze esteriori, bella), sursero, venuto che fu il mattino; e, secondo l’usanza, fatti, ma non indarno, volare i falconi, e tornati al veramente divino palagio, e ristorati al debito tempo per mezo della superba e ricca cena, si fecero appresso il vicino ed ardente foco. Dove poiché assisi tutti si furono, allegri quanto si potria dire il piú e nella fronte e nel cuore, si misero un poco cosí vicendevolmente a pungersi, ma non fra l’unghie e la carne, e cosí poi a ridere dolcissimamente doppo la lieve e non dolente puntura. Alla fine, veggendo eglino che quella dovea essere l’ultima notte, e che la donna, dipinta e formata bellissima quanto spetta alla parte di fuori, si dovea da loro dipingere e formare (perché cosí venisse ad essere perfettissimamente bella, sí che nulla le mancasse) ancora quanto spetta alla parte di dentro, vennero a dire che, ragionato alquanto per ischerzo in materia del belletto che usano quelle donne, che sono sute malamente avezzate di porsi in sul viso, non sarebbe se non buono di cominciare la impresa e non lasciare andarsene il tempo, che mai non torna indietro poi che una fiata se n’è fuggito e scorso. Per la qual cosa fu dato l’assunto di far il tutto al signor Ladislao, mio fedele Acate, sí perché egli meno, per l’adietro, di tutti avea ragionato, e perciò ne faceva instanza, sí perché, di spedita lingua e dolce parlare dotato, non poteva non sommamente a tutti piacere ed essere pienamente in grado, e sí ancora perché mostrava d’aver un fianco ed una lena sí fatta che, senza stancarsi mai, avrebbe potuto la notte intera intera trapassare ragionando. Il perché egli, senza usare gli increscevoli e cerimoniosi giri delle belle parole, doppo che ebbe tutti ringraziati e lodati per l’onorato incarico, che gli avevano conceduto, di dire, a cosí favellare incominciò tutto allegro: — Della stomacosa e piena di lezzo composizione del belletto, di cui s’adornano, anzi sconciano, delle donne assai, cosí nella nostra come nell’altrui terre, io, signori, non mi voglio porre al rischio del parlare; ché, lordissima cosa e sozzissima essendo (come ognuno di noi può saper chiaramente), egli potrebbe di leggieri avenire che me ne verrebbe tal fastidio e nausea, che, non che quello che nello stomaco ho di cibo preso, ma a pena gli spiriti riterrei nel petto. E poi io non vi avrei buoni ascoltatori, essendo simili e conformi a me voi, ai quali cerco che ’l mio ragionare piaccia e non porga dispiacere e talento di via fuggire e lasciarmi qui solo, come forse accaderebbe se io vi ragionassi di quello che non mi piace e non mi aggrada in modo niuno di ragionare. Parlerò io adunque piú che volentieri della spiacevolezza, della vergogna e del danno doppio di quelle cotali, che per questa via e per questo mezo procacciano di parere belle e colorite ai riguardanti, sendo tutte simili a quelle maschere che «modanese» s’addimandono, o a quei pomi (o vendetta di Dio, chi te n’oblia?) che Gomorra produce e crea. La spiacevolezza adunque è anzi grande che no; ed io dirò questo di me: che non mi viene mai veduta (ché pure me ne viene veduta alcuna) alcuna di queste cotali donne, ch’io non le fugga con maggiore prestezza e piú volentieri assai, che se, senza questo fattibello, andassero per le calli e per le contrade vie piú brutte, che non fu mai, come dice il Boccaccio, il saracino della piazza o qual si voglia de’ Baronzi. Elleno fanno come coloro, quali, volendo schifare la Cariddi, s’intoppano nella Scilla, e, come dice il proverbio, cascano dalla padella nelle brace, quella donna imitando, la quale, essendo stata da una sua vicina chiamata fuori di casa, avendo ella allora il capo raso e senza capelli, venne, e, ragionando colla vicina, s’avide che non avea pur una cuffia in testa, che le la appiattasse. Il perché la si coperse con la veste, ma in quella vece scoperse e mostrò quelle parti che non pur senza vergognasi nominano... — Ah, ah! — gridarono qui quei gentiluomini. E il signor Ladislao passò oltra senza segno niuno di ridere, dicendo: — Egli aviene ben cosí, ché (io non vo’ dire come alcuni, che dicono niuna donna esser savia) delle donne assai ha, le quali, per mancanza di buono avedimento s’attaccano al peggio, e fanno ridere la brigata con queste e simili loro operazioni, in parte niuna lodevoli o buone. Ma che diremo noi di quelle che, essendo naturalmente belle e riguardevoli, amano meglio d’andare lisciate che no? Cercano ancora di aiutare e fare maggiore con l’artificiata la naturale bellezza? Hanno queste le traveggole? Hanno queste date le cervella a rimpedulare? Non sanno elle dove elle sono? E non sono finalmente in buon senno? Oh, Dio buono, dammi pazienza! Egli è volgare proverbio che una beltá naturale si fa sozza e deforme mediante il liscio; ma sapete che dicono queste che l’adoprano? Dicono che ciò, che è bello in loro per natura, egli diviene piú bello, s’egli si adorna e si puon cura di abbellirlo ancor piú. Oh, savie sibille che sono queste tali! Egli non è sempre vero, anzi falsissimo in loro, ed in moltissime cose, ciò che esse dicono; alle quali cose, belle per sè, se vi s’aggiunge altro per piú abbellirle, accade che, dove naturalmente erano in vago ed ottimo stato, elleno si fanno e divengono men belle e men riguardevoli assai. Non si sa questo: che, se una casa magnifica, tutta di marmo, sará fatta in qualche luogo della nostra cittá di Udine, ella fie cosí bellissima e vaghissima; ma, se ’l padrone poi cercherá di dipingerla e di inalzarla, non fará egli una pazzia di Grillo? Non fará questo: che, dove ella si scorgeva da tutti riguardevole e di beltá ripiena, ella si scorgerá men vaga e men bella? Poi a cui non è chiaro quello che si legge di Alcibiade? Il quale soleva dire che delle orazioni vestite e tutte arteficiate di quel Pericle (nelle labbia del quale, come si dice, sedeva la dea Pito, che lo faceva tonare, folgorare e persuadere ogni impossibil cosa) niente vi si commoveva, ma si bene per le parole ignude e semplici di Socrate. Io vorrei che conoscessero queste donne che, si come sogliono il piú delle volte gli alti e spaziosi alberi negli orridi monti, dalla natura prodotti, piú che le coltivate piante, da dotte mani purgate negli adorni giardini, a’ riguardanti aggradare; e molto piú per li soli boschi i selvatichi uccelli, sopra i verdi rami cantando, a chi gli ascolta piacere, che per le piene cittadi dentro le vezzose ed ornate gabbie non piacciono gli ammaestrati; cosí elleno vengono a piacere piú, e sono nel vero piú belle, quando, contentandosi della bellezza loro naturale, non curano di belletto o di che che sia, che le faccia andare piú adorne e piú leggiadre, se questa si fatta viene ad essere leggiadria: il che non mi piace in modo niuno. Io vorrei che sapesser le medesime che, sí come l’edera per sè viene assai piú bella, e piú belli sono i fiori coloriti della terra senza altro lavoro che vi si ponga ed ispenda, cosí elle ci sono, ove, non vaghe nè ghiotte di liscio, vanno ornate della propria freschezza della carne del viso e del proprio bello. Io vorrei finalmente che tenessero per fermo che, sí come alle umane menti aggradevole piú è una fontana che naturalmente esca dalle vive pietre, attorniata di verdi erbette, che tutte le altre ad arte fatte di bianchissimi marmi, risplendenti per molto oro; ed i liti, de’ loro nativi sassolini dipinti, vie piú dolcemente lucono e folgorano, cosí elle, nè piú nè meno, ci sono in grado allora che, disprezzate le sozze vie di farsi vaghe, si dánno a seguire ed a calcare quelle che, piú essendo degne di loro, piú degne e piú nette e piú polite le rendono anzi che no. Spiace certo ad occhio onesto in ogni donna il belletto, e massime nelle belle e ben create vergini, delle quali il proprio è la semplicitá e puritá colombina, che tanto piace e diletta in loro. E, oimè! come mai per mezo dell’amato ed adoperato liscio ci ponno esse piacere cotanto, quando che infino le mura affumicate, non che i visi loro, ponendovisi la biacca, diventano bianche e oltre a ciò colorite, secondo che ’l dipintore di quelle piacerá di porre sopra il bianco? quando che infino, per lo rimenare, la pasta, che cosa è insensibile, non che le carni vive, gonfia e, dove mucida pareva, divien rilevata? Non cosí per mezo di sí fatta spurcizia (che potrebbe far per la stomacaggine uscir le pietre de’ muri e voglia di venir di recere l’anima a qual si voglia) accese tanti colei che ha il titolo d’esser stata cotanto bella, Elena dico. Non cosí la bella Ippodamia, non Penelope. Non piacque cosí all’iracondo, fiero e gagliardo Achille Polissena; non Ioie ed Onfale al possente e forte Ercole, e meno Deianira; non Ippolita e Fedra a Teseo crudele e perfido; non a Demofonte la sventurata Filli; non a Giasone Isifile; non a Paride la fedele Enone; non ad Oreste Ermione; non a Protesilao la infelicissima Laudomia; non a Bacco la derelitta Arianna; Dafne al biondo Apollo; Proserpina a Plutone; Venere a Marte, ad Anchise, a Mercurio ed al suo caro Adone; Danae, Europa, Leda e mille e mille a Giove. E, per passare nel campo delle istorie, non piacque cosí al sollecito Iarba la castissima (e taccia qui il volgo ignorante) e bellissima Didone; non cosí la modestissima Verginia a quel tiranno che le fece usar forza. Non cosí Ersilia a Romulo; Sofonisba al buon re Massinissa; Stratonica ad Antioco. Non cosí la bella Rachele al paziente padre Giacob; Bersabe al re David; Tamar ad Amone; e la saggia, casta, forte e vaga Iudit al misero Oloferne. Non piacquero cosí le sabine ai romani; Livia ad Augusto; e, finalmente, la famosa Lucrezia a Sesto Tarquino. Alla quale e ad antedette assai se la vera e non finta bellezza recò danno, non per altro fu, salvo perché, come disse il Petrarca, la beltá talora è nociva. La beltá, dico, di cui queste donne poco scaltre e avedute si mostrano di essere vaghe e desiose sí, che non potrebbono fare senza liscio e senza biacca, anzi, e dirò meglio, senza il suo disnore; ché, passando alla vergogna che ne risulta loro, non è disnore questo, e grande disnore? Nel vero sí. Percioché le sfacciate meretrici usano di cosí ugnersi e colorirsi il viso e far intorno a sè quelle tutte cose, che il Boccaccio danna e biasma di cuore nella vedova, che di sopra abbiamo posta nel ragionar nostro. Alle damigelle di buon nome e di buona piega bastar puote l’andar monde da tutte parti, ché certo la mondizia cosí convien loro come a noi la fatica non disconviene. Oh! come bene il Poliziano disse, in una epistola scritta alla signora Cassandra, di casa Fedele, ch’ella dipingeva la carta d’inchiostro e non il viso di liscio. Il quale anch’esse sanno ch’è loro di vergogna e di vituperio assai; e, per segno ed essempio di ciò, udite quel ch’io n’ho udito dire altrui buon tempo fa nella nostra terra. Erasi maritato un gentilissimo e nobilissimo cavaliere lombardo in una sua pari e bellissima giovene, e, volendosi celebrare ed onorare, secondo che si con veniva al grado di lui e di lei, le nozze splendidamente, furono comprate mille confezzioni, mille fagiani, starne, quaglie, capponi grossi, tordi grassi, tortorelle, colombi. Non vi mancò l’apparecchio di mille frutta. Non vi mancaron le loro zuppe, le lasagne maritate, le fritelle sambucate, i migliacci bianchi, i bramangieti e ’l formagio di Parma. Vi si trovâro poi tutti i colori di vini: il bianco, il giallo, il sanguigno, il nero, peroché vi fu del greco, del còrso, del sanseverino, del falerno, del fascignano, del roccese, dell’amabile, del briancesco, del trebiano, della vernaccia da Corniglia, e delle altre sorti assai, delle quali, per non parere un Cinciglione, mi taccio per ora. Mi taccio i vari e bellissimi drappi, le ricamate e preziose vesti, e tutte quelle cose che spettano ad un paio d’onorevolissime nozze. Ora avenne che, in un superbo e suntuosissimo desinare che vi si fece, vi si trovarono ad essere convenuti conti, cavalieri e gentiluomini assai, e donne pregiate, belle e ricche altresi, molte, infra le quali, come accade, v’ebbe di quelle che lisciate e sbellettate comparvero. Per la qual cosa gran disio nacque a qualunque di loro, che di naturale bellezza andava ornata, di fare tutte l’altre, che di artificiata vi si vedevano colorite e bianche, rimanere in mezo di tanti signori beffate e schernite, perché non avessero mai piú di cosí abbellirsi ed ornarsi voglia e talento. IL perché fecero di tante, che erano, una, la quale avesse ad incominciare qualche giuoco, e tutte poi caminassono per le sue vestigia, e quel facessero ch’essa faceva. A questo accordo stettero ancora le bellettate, per cui, noi sapendo elle, vi si tesseva ed ordiva una tal trama. Colei adunque, ch’era fatta loro presidente, surse, e fece che tutte sursero doppo il disnare allegre. Andò poi nel mezo di esse in giro starnisi, e cosí lieta, doppo l’aver fatto molte cose, nelle quali fu imitata e seguita da tutte le altre (ché ciascuna, secondo la legge del giuoco, facea sempre quello che ella primieramente incominciava a fare), finalmente, rivoltasi ad un’ancella, comandolle che le recasse un bacino d’acqua pieno; il quale venuto, ella il prese, e, fermatolo su uno scanno, mise dentro l’una e l’altra mano e lavossi il viso, che venne di bello ancora quasi piú bello. Cosí fecero le sue compagne. L’altre, veggendosi quasi topolini dalla gatta presi, vollono tirarsi indietro e rifiutare di far questo: pure, tremanti, vi si posero a farlo; e furono conosciute, con lor grande vergogna, alla fine per grinze e crostate, ed aventi il viso verde e, qual piede d’astore o botto, giallo, mal tinto, d’un colore di fumo di pantano, ed in tanto contrarie a quel che parevano dianzi, che niuno l’arebbe potuto credere, che vedute non l’avesse. Oh! come sarebbe stato il meglio a queste di comparire con quella faccia che loro aveva concessa la natura; e non con biacca, con lisci, con ogli, con pezzuole, pelandosi, strisciandosi e facendosi quel tutto intorno, che l’Ariosto nella Cassaria ed in una satira accenna a chi attentamente la legge! Non sarebbono rimase sí vergognate, no; perché, sí come la sola virtú fa l’uomo e la donna gloriosi, cosí il solo vizio li fa andare infami e pieni di vergogna, e denigra la fama loro vie piú che pece e corbo non è. Ma, perché oggidí la veritá viene a partorire in alcuni uomini ed in alcune donne piú tosto odio che amore, e disdegno che benivolenza, cosa buona sará ch’io lasci assai di quello ch’avrei e mi resterebbe da dire intorno alla vergogna che le lisciate donne hanno e sofferiscono di continuo, e valicherò, brievemente ragionando, al danno grave sí del corpo loro e della vita ch’abbelliscono, come dell’anima, che lasciano (oimè! pure sconciamente) troppo deformarsi ed irruginire a pieno. — No, no — dissero qui i compagni tutti: — seguite pure della vergogna di queste bellettate, e verrete poi al doppio danno, e poi ad altro che vi resta anco di dire al cospetto nostro; e non abbiate paura di rinovare l’essempio antichissimo d’Orfeo. — Chi m’assicura di voi — rispose loro il signor Ladislao — che non m’abbia a cader in sul capo qualche ruina? Io vi dico — soggiunse poi — che non valse nè la poesia, nè la cetera, nè l’archetto, nè Calliope, nè quanto ebbe di buono, al giá detto Orfeo contra il furore delle donne, che a brano a brano l’andâro stracciando. Non valse nulla a Tamira contra quello delle muse, che lo cecâro. E, se non fusse stato savio Stesicoro, che si mise a lodare Elena, dove l’avea dianzi, come di sopra tócco n’abbiamo, biasimata, vi so dir io che gli bisognava, quanto stendeva la vita, o il bastone di Tiresia o il fanciullo d’Asclepiade. E, per conchiudere, vi dico in somma che le donne non si tengono le mani, come si dice, a cintola, quando sono mordute e sprezzate; il perché lasciatemi dire quel tanto che mi resta del danno (ch’io ve ne prego) e mi perdonate se il procedere del gambaro non mi piace per ora. Il danno adunque, che il liscio reca alle donne di cui parliamo, è gravissimo; e, se non fusse altra giunta per appresso, elleno doverebbono (se avessero del saggio e cauto Prometeo, e non dello stolto ed incauto Epimeteo) fuggirlo, come gru falcone, e come timida pastorella il serpe velenoso e crudo. Percioché elle vengono inanzi tempo a fare il viso incavato a guisa d’incavate colonnelle, ed a segnarlo di disdicevoli (e quali veggiamo nei vecchiarelli antichi) solchi e falde assai. La bocca incomincia a corrompersi, a mandare fuori un fiato fetido, puzzolente, e quale n’esce o da quella della scaltra e maliziosa volpe o da quella del generoso e terribile leone. E questi, che furono bei denti forse, poi si fanno negri, e pur bastasse ciò! Ma non aviene cosí, perché eglino vacillano, e doppo il vacillare cascano sí, che pochi armano la bocca. E que’ pochi restano tali, che (come n’è dato a vedere la fistola del dio Pane talora, o come sguardamo le dita nostre) l’uno sendo lunghissimo, gli altri successivamente vanno abbreviandosi piú e piú. Ma di ciò ci può bastare quel che n’ha lasciato scritto nella prima sua di sopra allegata satira l’Ariosto. Ed io verrò all’altro danno maggiore, che è dello spirito immortale. Si privano della beatitudine eterna, e del trionfo celeste altresí, queste donne. Percioché, ugnendosi col belletto la faccia che Dio ha lor dato, di non si contentare di lei (come ci disse ieri il signor Pietro) chiarissimamente dimostrano, e, non si contentando, offendono colui che meno di tutti dovrebbono offendere, io dico l’artefice infinitamente buono, infinitamente giusto ed infinitamente misericordioso, Iddio ottimo massimo. E, perché io non passi cosí senza provarlo, udite queste parole verissime di san Cipriano, che grida: «L’opra e la fattura di Dio non si dee adulterare in modo niuno, nè con colore giallo, nè con negra polvere, nè con rosso, nè con altra invenzione corrompente e guastante i nativi lineamenti. Il che qualunque uomo e qualunque donna fa, e vuol pure reformare e trasfigurare con ogni sforzo o industria, il medesimo puntalmente fa, che s’egli li ponesse le mani addosso e li dicesse: — Sta’ saldo! tu non mi hai fatto secondo la volontá mia». — Cosa, pure a riferirla, spaventosa, e possente ad arricciare tutti i capelli di chi ha qualche faviluzza, almeno, di religione e di cognizione di Dio. E. per conoscere un poco meglio quanta sia questa offesa ch’elle fanno all’altissima divinitá, presupponiate che vi fosse un prenze sovra tutti i prenzi, che avesse tant’oro quanto non ebbero mai, se raccolto fosse stato, nè Crasso, nè Creso, ne Mida, nè Cuculio, nè ’l Tago, nè ’l Pattolo, nè Ermo, e meno le cave e mine di tutto il mondo, a cui venisse voglia di dare in dono centomila scudi per uno a mille mendici, sventurati e tutti pieni di loto, o volesse poi in brieve farneli, con un suo figliuoletto, eredi di tutti i suoi beni stabili e mobili, e che cosí li facesse venire dianzi a sè, ed annoverasse ad alcuni scudi in oro, ad alcuni in argento; e che questi, ricevuti gli scudi in argento, pigliassero con le mani in sul petto quel prenze, e volessero ch’egli desse ancor loro gli scudi in oro: che vi parrebbe, signori, allora? Non vi parrebb’ella la maggior ingratitudine del mondo? Non vi parrebbe che sí fatti ingrati non sarebbono degni di ritrovarsi sopra la terra? Sí certo. Similmente sono contro di Dio ingrate e sconoscenti tutte quelle donne, che, non contentandosi della naturale faccia, adoprano il liscio. Peroché il prenze c’ha tanto oro è Dio, in cui sono rinchiusi tutti i tesori; il dono di centomila scudi egli è la vita, che hanno da lui tanto cortesemente; i mille mendici, carichi di fango sono le donne nate e concette nel peccato originale, come noi e, come noi, di limo create; i coeredi sono pur ristesse, le quali da Dio sono state formate affine che con Giesú Cristo, unico di lui figliuolo, abbiano eternamente a godere delle delizie del paradiso. I mendici, c’hanno gli scudi d’oro, sono quelle donne che, oltre alla vita, impetrano ancor la bellezza dal sommo Iddio. Quelli, che gli hanno d’argento, sono quelle che con la vita riportano tanto di bruttezza, paragonate con le belle, quanto ne riporta l’argento, agguagliato all’oro. Quegli ardiscono di porre la mano al suo benefattore addosso, e dire che vogliono anch’essi gli scudi d’oro e non d’argento; cosí quelle fanno, quando col belletto mostrano di volere bellezza, appresso la vita concessa loro benignamente dal cortesissimo e prudentissimo Governatore dell’universo. Grande è adunque il danno dell’anima di queste donne si fatte, e, infino ch’esse non si rappacificano col Creatore, sbandendo e rosso e bianco e moscate acque e quel tutto che lo può offendere, che se ne dee sperare? Ma io pure spero che, veggendo esse senza queste cose e pura qual colomba la donna nostra, che meza è formata (da che la integritá nostra consiste nell’anima e nel velo, che è questo corpo), si ravederanno, e, ravedendosi, quasi chi ha smarrita la strada e torna indietro, torneranno a miglior senno, e sforzerannosi ancora, non potendo l’infinita bellezza esteriore, d’imparare la interiore, che tosto le siamo per concedere e perfettamente donare. E perché non debbo io sperar questo? Sono pur le donne tanto pronte e gagliarde al bene quanto al male: pure in loro si mostra un ardentissimo disio di salvarsi, e, se peccano, peccano piú per semplicitá ed ignoranza; nè sono, e so ben io che non erro, pigre e tarde a caminare per la via d’onore e di salute, qualunque volta vengono avisate ch’esse fanno il contrario. Pieno adunque di questa detta speranza, io condescendo, a voglia vostra, a dir della donna interiore, e delle parti che le si convengono a volerla vedere bella in perfezzione, e sí che amabile divenga infino ai duri ed insensati sassi, non che agli uomini generalmente ed alle donne. — Quivi, qual caduto nel corso veloce barbaresco, che sí ratto dopo la caduta si leva, che si può dire che non abbia interrotto l’arringo, stette, e seguí poi il signor Ladislao: — Primieramente adunque le sará in cura ed in protezione, vie piú che cosa del mondo, il suo onore e la sua castitá, altissimo e singolarissimo pregio di ciascheduna donna, della quale qualunque per mala sua sorte priva resta, nè donna è piú, nè viva, sí come ci avisa Laura nel sonetto «Cara la vita», e la nutrice di Macario presso allo Sperone nella tragedia intitolata Canace; della quale castitá qualunque riman senza, che può aver piú di buono o di bello, come rispose la sfortunata Lucrezia al marito appresso Livio, ed Angelica raffermò nel suo lamento appresso l’Ariosto? Ogni virtú, perduta la pudicizia, va per terra in una donna, la quale, mentre che salvo reca con seco il suo bel fiore verginale, è simile, con ben disse Catullo e l’Ariosto, (in ciò sua scinda) alla rosa, che, in bel giardino d’ogni intorno serrato e chiuso, su la nativa spina riposandosi, e non avicinandolesi greggia o pastore alcuno, e dall’aura dolce e soave, dall’alba rugiadosa, dall’acqua e dalla terra favorita in colmo, e gioveni assai vaghi, e donne infinite innamorate e leggiadre desiano d’averla, per ornare di lei e il seno e le tempie sue. Ma, se quel fiore della castitá è perduto, súbito quella donna perde con esso lui tutto il favore e tutto l’amore che le si voleva dal mondo; a similitudine pure della rosa, la quale, rimossa dal materno stelo e verde ceppo, viene anco a rimovere da sè quel tanto di bene, di grazia e di bellezza, che dagli uomini e dal cielo aveva con tanta benignitá, che vi si può aver inteso di sopra. Stando adunque nella salvezza di questa castitá l’onore, e nella perdita il vituperio del sesso feminile, qual maraviglia è se, di quelle che veramente donne sono, molte se ne sono ritrovate c’hanno a lei voluto posporre la propria vita? Io lascerò di dire quello che n’ha scritto di ciò il formator del Cortegiano, quel che si legge della casta Isabella appresso il Furioso, quel che si mostra appresso Livio intorno al fine del primo libro, appresso Ovidio intorno al fine del secondo de’ suoi Fasti, appresso Dionisio al quarto, appresso Servio al commentario ottavo sovra Vergilio, appresso il Petrarca nel sonetto «In tale stella» e in quell’altro «Cara la vita», e in mille altri luoghi della nomata poco dianzi ed infelice Lucrezia. Io lascerò di dire delle tedesche, di cui Valerio Massimo al capo Della pudicizia, ed il Petrarca in quello Della castitá , n’hanno parlato. Io lascerò di dire ancora d’Ippo, femina greca, di cui ai citati luoghi fanno menzione e Valerio ed il Petrarca antedetti; e finalmente lascerò di dire di mille e mille, che piú tosto morire che perdere l’onestá hanno avuto in grado, e, se non hanno potuto innanzi che fusse lor tolta (benché, contra la volontá tolta, si può dire che non sia tolta, che la mente pecca e non il corpo), sono rimase morte doppo con la propria mano, come Lucrezia: si sono precipitate in qualche fiume per l’estremo dolore, come quella, di cui l’essempio viverá in eterno nelle dotte carte dell’allegato pur mò formatore del Cortegiano. S’io non dirò adunque nulla di tante e tante, non dirò io d’alcune nostre vicine e meno antiche? Si bene: or udite. Presa d’Attila la cittá d’Aquileia, la quale si potè ben tre anni da lui gagliardissimamente difendere, vi fu dentro una donna, nomata Dugna, ricca di bellezza e possente di ricchezza, la quale, come le vennero veduti i nemici licenziosamente e crudelmente usanti la vittoria, perché non l’avenisse di perdere la pudicizia, salí sovra una torre, che giunta era alla casa sua e riguardava sopra la Natissa, fiume vicino scorrente, e, involtosi il capo in che che si fusse, vi si gettò precipitosamente. Nella medesima presa, ruina, uccisione e disfacimento d’Aquileia trovossi un’altra bella e pudica donna chiamata per nome Onoria, la quale, mentre che si menasse via rapita da fieri ed orgogliosi soldati, si venne a caso ad incontrare nel sepolcro ove giaceva il marito di lei. Quivi fermatasi e quello con lamento abbracciato, e l’amato nome del marito spesse fiate chiamando, non si potè mai d’indi staccare, infino che da uno empio e crudelissimo di quei soldati, che rapita l’avevano, non fu colla spada dall’uno all’altro lato trafitta e miseramente morta. Mi resta ancora un altro essempio di dire, il quale è che, sendo stata la perfida Rosmunda (quella che potè tradire e dare la cittá di Cividale in mano di Catanno, re degli ungari, di cui ella n’era invaghita) in su un palo affissa, poiché di lei fu fatto ogni scherno, restarono due sue figlie, il cui nome era Appa e Giala. Queste, essendo giá cresciute vergini, e cosí di rara beltá come d’onesto rossore dotate, trassero a sè gli occhi di tutti incontanente; ma, dubitando elleno del suo onore, si posero in seno fra le mamelle (oh, potenza della laude e del pregio!) crudi pulcini, perché putrefatti venissero a discacciare da loro qualunque si volesse appressare, col fetore e con lo estrano puzzo suo. Cosí diedero un memorabile, e vero, essempio di conservare intatta e sincera la pudicizia alle verginelle, e piú nostre che d’altrui. Ora, se per salvare l’onor suo non hanno avuto cura della vita queste e dell’altre infinite, qual di noi è che non abbia pianto appresso Ovidio, al sesto delle Trasformazioni , con Filomena, stuprata a forza dal crudele cognato? Qual di noi è che non abbia avuto compassione e lagrimato con la sventurata Didone appresso Virgilio, al quarto, dove nelle caldissime preghiere e chiusa per fare seco star Enea, sí che non parta da lei, dice che per lui ha perduta la castitá e quel bel nome, per cui solo n’andava a volo infino alle stelle? Ma queste sono favole. Qual di noi è ch’abbia tenuti gli occhi asciutti leggendo le amorose narrazioni di Plutarco, dove egli pone che, sendo per forza due sorelle svergognate da due, e stando esse oltra misura (come quelle che giudicavano di aver troppo perduto, avendo l’onore perduto) malinconiche ed addolorate, furono alla fine dai corrottori in un pozzo per ciò precipitate e sepolte? Qual di noi è che, leggendo appresso il Lando di quel suo molto intrinseco amico, che per opra d’un servidore, non potendo altrimenti, venne a godere delle rare bellezze d’una fanciulla padovana, che sempre gli era stata dura, non curando nè caldi prieghi nè larghe offerte, venne a godere, dico, al suo dispetto, non bestemmi a pieno lui, e della donzella non divenga tutto difensore, e non le aggia pietá e compassione? A cui poscia degna non parrá d’ogni laude la figliuola di Varrone, Marzia, la quale, essendo eccellente nella scoltura e nella pittura, mai non si mise in animo di voler dipinger l’uomo, per non dipingere ancora le parti di sotto vergognose? A cui non parrá Zenobia, della quale di sopra è stato favellato, poi che pur con l’istesso marito non si congiungea se non per cagione di generare? A cui non parrá Baldacca, abietta damigella peregrina, la quale ad Otone imperadore, promettentele (ché povera era ed anzi bisognosa che no) monti, come si dice, e mari, non vòlse mai acconsentire? Ma della castitá, della quale vogliamo che tanto la donna nostra sia di continuo guardinga, basta averne detto fin qui senza andare piú oltra, e me e voi con sopra bondanti parole tediando. Ora le daremo un’altra bella parte ed un’altra bella dote dell’animo, la quale fie l’onorata vergogna, nella giovanezza lodevolissima e tanto dicevole, che viene addimandata il colore della virtú e la tintura della lode da’ savi uomini. Il che Diogene affermò, quando vide quel fanciullo tutto, per rossore e vergogna, nel viso divenuto vermiglio e colorito. E qual donna troverete voi di buon nome per gli scrittori, a cui non abbiano essi, come ottimo segno, conceduto la vergogna? Vergilio induce Lavinia vergognosa nel decimosecondo della sua Eneide; Aconzio appresso Ovidio e Cidippe; il medesimo Ovidio, al terzo delle sue Trasformazioni, Diana; al quarto, Andromeda; al sesto, Filomena; al settimo, Procri; Tibullo...; ma lasciamolo ora. L’Ariosto induce Angelica legata all’ignudo scoglio, e lá dove l’eremita le pose arditamente le mani in seno, e poi Bradamante e Marfisa, quando videro Ullania in terra sì male in arnese. Il Bembo, appresso gli Asolani, induce e Lisa e Sabinetta e madama Berenice e quella damigella, che, concordando la voce sua al suono della viuola, cantò la vaga canzonetta «Amor, la tua virtude». Il Sannazaro induce Amaranta nell’Arcadia, dove la rossezza venutale nel volto chiamò «donnesca», come Tibullo ancora «virginea»; peroché in vero, s’ella non si trova, nelle vergini, vi dee trovare ed essere con ragione almeno e con debito. Il perché Apuleio, nel primo del suo Asino d’oro, anco chiamolla «verginale». Io lascio di provare a voi che ai gioveni altresí conviene questa vergogna, vergogna non villanesca, dico, perché mi fo a credere che la prova sarebbe quale ho sentito d’alcuni uomini, i quali vannosi volentieri mescolando ed aviluppando intorno alle cose chiarissime per sè, come in provare che ’l sole gira, ed il vento spazia, e la fiamma monta, ed il rivo corre all’ingiú. E chi non sa questo? E chi non sa parimente che i gioveni bisogna che siano vergognosi? Adunque non accade provarlo, e meno accade provare che questa vergogna e questo rossore momentaneo disdica, come piacque di dire ad Aristotile nel quarto dell’Etica, ai giovani ed agli attempati, peroché egli si sa bene che in loro non è degna di lode, ma si di biasimo e vitupèro anzi che no. Sará adunque, tornando alla donna (il che vuole pur l’antedetto Ariosto nella prima satira,) vergognosa; sará modesta, sará rispettosa, ché ’l rispetto, oltre che conviene ad ogni pellegrino ingegno e bene allevato spirito, pure nelle donne vie piú, ché cosí ne vengono ad apparire, in non so che modo (come accennò il medesimo Ariosto, parlando delle donzelle d’Alcina) piú belle, piú vaghe e piú colorite. Oltre a ciò, non m’ha da spiacere il fuso, l’ago, la conocchia, l’arcolaio in lei. E, se questo, ch’io non so altrimente, parrá di sí fatta donna indegno alle Signorie Vostre, e cosa nella quale di lei le belle e sovrane mani non vi si debbano in modo alcuno tramettere e logorarsi, io spero che una cotale falsissima opinione e credenza di ciò s’annullerá, sottentrando la verissima mia in quella vece, quando intorno a materia tale d’un poco di tempo mi avranno con diligenza (il che, la lor mercè, fanno pur troppo) prestate orecchie. — Cosí detto, si mise a ridere. — O che questo, ch’io procaccio di dare alla donna, come proprio e convenevole a lei, è cosa appartenente all’uomo, o pure è appartenente alla donna. Ch’ella sia cosa appartenente all’uomo, niuno il mi dica, ché la veritá e l’esperienza contradice. Adunque segue che sia appartenente alla donna. Ma voi mi direte: — Oh! ancora noi confermiamo questo, ma siamo discordanti in ciò: che vogliamo che l’ago, il fuso e ’l rimanente, che tu ci hai detto, sconvengono alla donna ed alle sue pari, e convengon alle minute, vili, mecaniche e plebee femminelle. Ed io rispondo che, oltre che il nome vi poteva far intendere ch’io intendeva delle magnanime e gentili, delle magnanime e gentili questo doverebbe essere, caso che non sia, ufficio; non però negando ch’egli non appartenga a tutte le altre ancora. E, perché ci concordiamo e di gareggiare prestamente cessiamo, utile cosa sará vedere e produrre nel mezo quello che gli antichi scrittori ci hanno intorno a ciò lasciato nelle lor carte. Io trovo che Cesare Augusto non usava cosí di leggieri di portare altra veste che quella, che, per mezo delle mani della mogliera, della sorella, della figlia e delle nepoti gli fusse stata fatta e compitamente ridutta al fine. Or ditemi qui: se un tanto principe, quanto fu Augusto, ebbe donne sí fatte, che gli fecero le vestimenta, pure di necessitá conviene che questo succeda, che elleno si dilettavano, quasi di suo ufficio, di cucire almeno. Qual donna adunque sdegnerassi, delle nostre gentili, di cucire con una moglie, figlia, sorella e nepoti d’uno imperadore? Vergilio al settimo, parlando della virile e bellicosa Camilla, dice che ella non era avezzata ed usa alla conocchia ed ai cesti di Minerva, dove si pongono gli strumenti femminili. Il che non è detto in favore vostro, ma bene in mio; peroché il poeta, volendo mostrare Camilla aver rivolto l’animo solo all’arme ed alle sanguinolente ed oscure battaglie, ci avisa ch’essa aveva postergato quello che delle pari di lei e del suo sesso è proprio. Il medesimo ci si scuopre, nel Furioso, di Bradamante, che fu còlta da Fiordespina con la spada e non con la conocchia al lato. E qual di voi non ha sentito o letto, poscia, quello che fece Alessandro il magno verso la madre dello sconfitto giá e vinto re de’ persi Dario? Non le offerse pur egli, secondo l’usanza macedonica, subito ch’essa li venne veduta, la conocchia? Didone la bella, appresso Vergilio, al quarto, non diede in dono al troiano Enea una vesta d’ardente porpora fregiata d’oro, la quale ella con le sue mani aveva fatta? Onfale, reina di Lidi, quando Ercole era il suo vago, noi fece sedere appresso a sè e con seco maneggiare il fuso e la lana? Ma che? Rammentiamoci un poco di lei, che si sovente viene ad onorare i nostri ragionamenti. Io dico Lucrezia, la bella romana, di cui si legge che, essendo nata una gara tra Collatino, suo caro marito, e Sesto Tarquinio ed Arunte ed altri della casa del re Tarquinio superbo, al tempo ch’egli teneva l’assedio intorno Ardea, quale di loro avesse la piú sollecita, onesta e buona moglie, e perciò saliti a cavallo e inviati verso Roma e poi verso Coilazio per chiarirsi, ella fu cólta da loro non, come dianzi le nuore reali, fra canzoni, salti, banchetti e carole, ma sì (o anima veramente degna d’impero assai e di lode eterna!) dare opera con le sue ancelle, e forse a quest’ora o poco piú tardi, alla lana ed alla conocchia. Catullo nell’Argonautica mostra essere stato usanza della nutrice e baila della madre del feroce Achille, Tetide, di recarle ogni mattina il filo ch’essa la sera aveva filato, perché seguisse e n’andasse dietro. E lasceremo Minerva noi, pur detta «la dea dell’armi» e famosa al pari d’ogni altra? Questa non vinse ogni ricamo, ogni lavoro, per bellissimo ch’egli fusse? Ma lo invillupparsi nelle favole io so che proprio è un tôrre la fede alla veritá; e però, lasciata Minerva, a cui (presupponendosí che vero non sia quanto si scrive) pure le si dá l’ago e la tela, come a lei convenevole cosa, passiamo alla conclusione di ciò, e diciamo che sconvenevolezza niuna no, ma sì bene onore e pregio, l’ago, il fuso, la conocchia e l’arcolaio potranno arrecare a questa donna in ogni tempo, in ogni etate. — Potè, con queste parole ed altre simili, assai il signor Ladislao mutare di proposito tutti, sí che pur uno non fu che non li desse largo consenso. Il perché egli poi soggiunse arditamente e tutto allegro in questa maniera: — Quando ch’io leggo appresso Virgilio di Circe tessente e di Penelope in mille luoghi per gli autori, come appresso Omero, Ovidio, Giuvenale, Properzio ed il Bembo, io non posso non essere di parere tale, che io giudichi dover apportare anzi laude il pettine della tela ancora a questa donna che no. E, sí come la goffa e quasi mendica femina, che si leva appresso Virgilio la notte a filare, e la vecchiarella appresso il Petrarca, non hanno potuto oprare in voi sí che, per esser ufficio di loro questo, voi noi lasciaste anco alla donna nostra, cosí io vi prego che, avenga che il tessere oggi sia arte delle bisognose per lo piú, non però vi cada in animo di volere negarle questa giamai. Vi muova l’essempio delle due antedette e generose donne, e vagliavi contro ogni colpo di contraria volontá, che vi assalisce, il terzo ancora di Pallade. Alle quali famosissime e nobilissime tanto gli uomini saggi hanno giudicato convenirsi la testura quanto è l’ago ed il fuso, di cui n’abbiamo parlato pur ora, e l’arcolaio e la conocchia. Queste arti, dove utilitá solo nelle poverelle apportano, solo onore (e che altro dee una gentilissima apprezzare e di che altro le dee calere?) alle ricche e nobili e belle donne usano di conferire e di arrecare. Oh! che dolce cosa è l’udire d’una qualche generosa: — Ella fa cosí, ella sa cosí, ella si diletta di sapere che ogni cosa che spetta alla perfezzione del sesso feminile e donnesco, ella non vuole niuna di quelle sentire che le potrebbe essere dannosa circa ’l pregio e l’onore. — E poco doppo: — Benedetta lei, benedetta chi tale l’ha allevata, chi ben le vuole, e chi ben le brama! — Ritiriamoci un poco ora al suonare, al cantare, al ballare, col nostro ragionamento; e, se possibile è che la nostra donna s’adorni e se le accresca beltate alla sua beltate con tai mezi altresí, altresí adorniamola ed abbelliamola a tutto nostro potere: il che quanto con piú diligenza ci sforzeremo di fare, tanto piú ci verrá fatto, come si dice, a filo e sí come desideriamo, se ’l giudicio mio, che ciò mi va dettando, non erra e non esce di via. Io adunque tengo fermissimo la musica, dove le tre cose antedette intravengono, tra l’oneste professioni potersi annoverare. E quinci è che Socrate, giá vecchio ed antico, volle impararla, e volle che i giovenetti bene allevati e di buona creanza in essa si ammaestrassero, non perché avesse ad essere loro un solfanello di liscivia, no (il che può avenire ai dissoluti), ma un freno, il quale i moti dell’anima reggesse e sotto regola e ragione li tenesse. Percioché, sí come non ogni voce, ma quella solo, che ben consona, viene alla melodia del suono a spettare, cosí non tutti i moti dell’anima, ma quelli solo, che convengono con la ragione, appartengono alla diritta armonia della vita. Volle Pericle ancora che ’l nipote Alcibiade si desse allo studio di cotale arte, onestissima tanto appresso greci ed apprezzata, che, oltre che la posero nel numero delle liberali, fecero che qualunque uomo di essa indotto e senza si trovava, era giudicato imperito ed ignorante. Il che, come scrive Marco Tullio, avenne a Temistocle ateniese, uomo chiarissimo, il quale ricusò in un pasto la lira; ed Epaminonda, tebano schifò questa infamia, cantando, anzi suonando, divinissimamente con esso lei. La musica può acquetare gli animi furiosi, le passioni tranquillare, per grandi ch’elle si siano, e levare noi, da queste tenebre e folta aria, alla lucidissima macchina, distinta di tanti folgoranti e bellissimi lumi, che ci sovrastano, e, quasi falconiero, col logoro ci chiamano, e ci sgridano di continuo, perché a loro pervegnamo, quasi alla nostra primiera origine e descendenza, quando che sia, un giorno, tolti al sonno gravissimo che ci chiude ed opprime continuamente gli occhi di dentro. Ma a che stendermi io in loda della musica? Non sarebbe questo, adendo giá mille preso l’assunto, un portare, come è in proverbio, alberi alla selva, acque al mare, foco a foco, vasi a Samo, nottole ad Atene, crocodili ad Egitto? Non sarebbe un volere ritessere la tela dell’antica Penelope? E che farebbono poi in servigio di lei centomilla mie laudi, ch’io le dicessi di buon cuore? Per giudicio mio, nulla; peroché io mi fo a credere che essa (il che Simmaco, appresso a Macrobio, di Vergilio parlando, non tacque), sí come per maldicenza chi chi si vuole non viene a scemare ed a diminuire la sua gloria, cosí parimente per loda non viene in modo alcuno a farlasi maggiore e piú ridondante di quella, ch’ella continuo vedesi avere in ogni luogo ed in ogni stagione dell’anno appo (quasi ch’io non dissi) ogni persona ed ogni condizione di stato e di grado. — Voi averete pazienza a questa fiata, signor Ladislao! — dissero, sendo egli qui giunto, i compagni. E, perché ei non lasciasse di dire alquanto in grazia ed in onore, come aveva dissegnato di fare, della tanto, ma brievemente, da lui commendata musica, incominciâro a dannarla, come maligna e rea, che si fusse, e non di buoni e casti, ma di perversi ed impudichi effetti producitrice; e sovra ciò non pochi essempi ed autoritati, per loro facenti, allegati, fecero ch’egli incominciò cosí: — Voi dite che Alcibiade usava di dire che gli strumenti posti alla bocca, perché si sonasse, diformavano il musico; percioché, gonfiando egli le guance, a pena vi si conosceva dagli amici, non che da altrui; e che esso, per ciò arrossito, un giorno ruppe lo stormento, offertoli dal maestro, e potè far sí (avenga che egli l’usse garzone) che allora, con consenso di tutto il popolo, l’uso di sí fatti stormenti vi si lasciò in Atene. Voi mi dite che, per la medesima cagione, Pallade gittò nel flessuoso ed indietro tornante Meandro la sua sonora tibia, la quale poi, tolta dal male insuperbito satiro Marsia (ma tacete questo), fu cagione ch’egli provocò, come ben disse il Sannazaro, Apollo agli suoi danni. Voi mi dite che Apollo antedetto strangolò un fistulaio, e che i persi e medi regi avevano i musici per parasiti, e che Filippo biasmò Alessandro, suo figliuolo, perché una volta fra le altre dolcemente l’aveva udito cantare, e che Antigono, suo pedagogo, trovandosi esso intento pur al cantare, gli spezzò la cetera. Voi mi dite che gli egizi, biasmando la musica come cosa inutile, dannosa e lasciva, la vietarono ai giovani; e che non per altro ella fu trovata, salvo per ingannare gli uomini; e che le cicone fmine perseguirono Orfeo, perché col suo canto dilettava i maschi, facendoneli raggioire; e che i cento lumi d’Argo furono, per mezo d’una sola fistula, chiusi in sempiterno sonno. Voi mi dite che Atanasio, vescovo di Alessandria, uomo di gran santitá e di profondo sapere (alla cui lezzione san Girolamo instantissimamente ci essorta), la scacciò dalla chiesa, perché troppo mollificava ed inteneriva gli animi nostri, disponendoli alle lascivie ed a’ vani piaceri; e che poi, oltre, ch’ella aumenta la maninconia, se per aventura aviene che da quella prima assaliti siamo. Aurelio Agostino, maestro di santa Chiesa non l’approvò mai, e meno Aristotile, quando disse che Giove non cantava nè sonava di cetera. Voi mi dite finalmente che alcuno si è trovato, il quale, cantando vie piú dolcemente del solito, tra i sospiri del suono se n’è passato all’altra vita; e conchiudete, per queste tutte autoritati, ragioni ed essempi (aggiungendo che Antistene filosofo, avendo udito dire che Ismenia era un ottimo ed eccellente citaredo o pure suonatore di tibia, mandò fuori quelle parole: — Egli è un uomo goffo, rubaldo e da poco Ismenia, ché, s’egli fosse uomo da bene non si sarebbe dato a tale arte ed a tale mistiere —), conchiudete, dico, che la musica è di sua natura tutta rea, tutta malvagia, e che si dee da tutti, non che dalla donna, a cui io procaccio di farla imprendere, fuggire ed odiare a morte. Ma ditemi qui: volete voi ch’io ribatta quanto avete detto or ora per burla (quanto ch’io mi creda) contra la musica, o pure evvi in grado ed in piacere ch’io, senz’altro fare, in prode dica? — Che in prode diciate — risposero eglino, e’ quali ciò, che avevano detto, avevano detto per udire della musicale lode favellar lui. Il quale quasí che subitamente disse: — La musica è arte di tanto eccellente grado, signori, che infino le fiere, gli augelli ed i pesci è possente di raddolcire, infino i sassi può intenerire, infino lo ’nferno può far gioire. Il perché Orfeo ben si dipinge (poich’egli potè per mezo della sonante cetera oprare ciò) in mezo degli uccelli, degli orsi, tigri, lupi e leoni; e non sarebbe fuori di proposito a dipingerlo ancora in mezo dello ’nferno, vinto col suo dolcissimo canto e giocondissimo suono. D’Anfione mi taccio per ora, ché infino i calzolai ed i barbieri sanno quanto egli potè col soavissimo concento della cetera nell’edificazione della ròcca tebana. Stupiscono i paurosi cervi col canto della tibia, e, piú che cervi, tutti gli animali, come è su stato detto. E, perché pure di pesci pare maravigliosa cosa vie piú, non v’incresca d’udire una tale istoria, appresso gli autori volgatissima e cantatissima. Fu Adone eccellentissimo citaredo, il quale, repatriando con alcuni e veggendosi da loro, congiurati contro lui, apparecchiarsi le insidie, mentre che fosse in mare e navigasse, per le ricchezze che seco ne recava a casa, presa la cetera sua, ed in prima sonato un poco, si gittò in mezo il mare, per lo cui canto vi si mosse un delfino, il quale, toltolo in su la schiena, lo portò salvo al lito, dove egli a cavallo del pesce natante fu in imagine di bronzo intagliato per memoria di cotale avenimento. L’acque sentono la forza della musica; laonde egli si legge che in una certa regione ha una fonte, la quale al suono delle tibie non può fare che non salti e guazzi di subito. E, per dire di lei paratamente alquanto, che maraviglia è (poiché le fiere de’ boschi, gli uccelli dell’aria, i pesci del mare, i sassi delle vie, l’anime dannate dell’abisso, e l’acque le stanno soggette) se l’anima nostra tanto viene a dilettare che nulla piú? L’anima nostra, dico, la quale, dalle celestiali armonie discesa ne’ nostri corpi, e di loro sempre disiderevole, di quest’altre a sapere, di quelle s’invaga piú, gioia sentendone che quasi non pare possibile, a chi ben mira, di cosa terrena doversi sentire. Benché non sia terrena l’armonia, anzi pure in maniera con l’anima confacevole, che alcuni dissero giá essa anima altro non essere che armonia. Per questa ella ad un santo e devoto piacere ed alle volte a pietose lagrimette si muove e vanne. Laonde certissimo sono che perciò il buono e divinissimo Ambrogio non volle la musica dalla chiesa isbandire. E Agostino non tanto vi s’attaccò ad Atanasio, di cui voi n’avete sopra fatto menzione, quanto ad Ambrogio; percioché nelle sue Confessioni dice l’una e l’altra averli piaciuto di queste due opinioni, ed averli partorito gran dubbio nella mente sovra ciò. Cne maraviglia è se i poeti ne’ convivi e ne’ pasti vollero che la musica intravenisse, la quale venisse mirabilmente ad ingombrare i seni di tutti di allegrezza infinita? Omero (il perché vero si può giudicare quel che disse Timagene: la musica essere antichissima) nel primo della Iliade induce nel convivio degli dèi a cantare le muse con soavissima voce, concorde al suono, come dice l’Ariosto, della cornuta cetra d’Apollo. Vergilio nel primo altresi della Eneida sua induce nel convivio reale di Didone il crinito lopa sonante. E cosí gli altri poeti di minor grido, e doppo nati, ad essempio e similitudine fanno ne’ finti loro conviti e banchetti onorati. Cosí fa Apuleio nel sesto del suo Asino d’oro nelle nozze di Cupidine e Psiche, dove delle muse due cantano, Apollo colle delicate e musiche sue mani tocca la cetera, e Venere bella va danzando e carolando intorno. Ed Aristotele, che è tenuto il maestro di coloro che sanno, nell’ottavo della Politica non biasma questa costuma, anzi, poi che ci ha avisato la musica doversi usare nelle cose allegre, soggiunge, allegando Omero, essere ben fatto che ’l citaredo suoni fra le delizie convivali, il quale uggia tutti a rallegrare quelli che presenti sono al banchetto ed al convivio. Che maraviglia è se commune opinione è in piedi sorta, che Platone (il quale nel secondo delle Leggi dice che i dèi, avendo compassione a noi di questa faticosa vita, instituiro le ricreazioni delle fatiche, e ci dièro ancora le muse ed Apollo, loro duce, e Bacco, i quali con piacere ci inducono a ballare e saltare bene spesso) che Platone, dico, a cui non spiacquero i salti e balli, senza la musica, e massime nel Timeo, non si può intendere? O musica, sovra ogni altra cosa dolcissima e vaga, io credo che senza te noi non potremmo vivere al mondo, sí come senza gli elementi non si può in vero in modo niuno: senza te non vivono l’anime beate e gli angeli celesti, i quali con perpetue e dolcissime voci lodano quella prima ed eterna causa, ch’è Iddio ottimo massimo; senza te (se vera è quella dolce armonia, la quale ne’ cieli pose ed affermò con dotta persuasione il divino Pitagora) non si ruotano e girano le spere mai. Tu inanimivi ed accendevi gli eserciti spartani. Tu non fosti sprezzata, ma commendata da Licurgo, purissimo legislatore. Te Platone (il quale, insieme con Aristotele, comandò che primieramente fosti imparata, e ti giudicò, non senza giudicio, buona mezana di comporre i costumi della reppublica) credette necessaria all’uomo civile e politico dover essere in ogni modo. Te, senza dubbio, gravi filosofi e prudenti uomini, te le muse amano, per lo cui mezo venisti in cognizione al mondo. Marica Iperbolo nulla per tuo mezo diceva di aver apparato, salvo che le lettere. Oh, guadagno inestimabile! Aristofane mostra che gli antiqui volevano che i suoi fanciulli apparassero te. Il perché si legge in Menandro di quel vecchio, il quale, dimandando che ciò, che in allevazione del figliuolo aveva ispeso, renduto gli fosse, dice che molti denari aveva dato a’ musici ed a’ suoi seguaci. Orando Gracco, un suo amico gli stava dietro con la fistola sonante. Pitagora, veggendo certi gioveni accesi e disposti ad isforzare e combattere una pudica casa, con accennare e comandare ad un musico che sonasse il canto spondeo, gli venne a pacificare e chetare: pur per te! Crisippo volle che le nutrici e balie avessino parte di te, perché i bambini traessero al suo canto, e si racchettasero qualora piangevano. Sarebbe una fatica da spaventare un Ercole a dir tutte le lodi tue; sarebbe un voler proprio ad una ad una annoverar le stelle e in picciol vetro chiuder tutte l’acque, come dice il Petrarca. Per la qual cosa, tornando io alla donna, raffermo che le ha da essere di non poco onore, se di imparare a toccare o viuola o liuto (ché questi due strumenti piú mi piacciono) leggiadramente non si disdegnerá. Tenete certo che quelle vaghe damigelle, appresso il Bembo, sonanti l’una di liuto con maravigliosa maestria, e l’altra di viuola, grandissima laude appo la reina di Cipri ed altre gentildonne ed onorati signori, convenuti in Asolo per onorare le nozze che si celebrarono cosí gaiamente, vennero anzi a riportare che no. Il medesimo Bembo nel secondo degli Asolani viene nelle giovani a commendare, quando, sotto persona di Gismondo, dice cosí: «Oh, con quanta soavitá ci suole gli spiriti ricreare un vago canto delle nostre donne, e quello massimamente che è col suono d’alcuno concordevole stormento accompagnato, tócco dalle loro delicate e musiche mani!». Suonerá adunque la donna nostra alle volte a tempo ed a luogo, ma sempre modestamente, ma sempre riverentemente, e non pur suonerá, ma canterá e danzerá ancora, come le si conviene, e non piú, cioè con rispetto grande e vergogna nel volto. Il che sempre le ha da essere dicevole e convenevole assai fra gli uomini. E, se non fosse ch’io m’apparecchio a dire delle altre cose appartenenti alla donna, io mi occuperei a provare per gli autori (e non pur per l’uso buono che vi è) piú diffusamente che le conviene il sonare, che le conviene il cantare, come ci ha mostro il Petrarca, per mezzo di Laura, nel sonetto «Dodici donne», «Onde tolse Amor Toro», «Grazie, ch’a pochi il ciel», «Amor m’ha posto», «Quand’Amor i begli occhi», e che le conviene il danzare. Il che si cava dal sonetto «Real natura», e forse da quello «Avventuroso piú d’altro terreno», per passarmene via delle Grazie e delle ninfe, le quali i poeti, come Orazio al quarto de’ Carmi suoi all’ode settima, inducono carolanti e danzanti al tempo che ringiovenisce l’anno e gli alberi si vestono. Ma ora io non posso, senza mio e vostro gran disagio, in ciò trattenermi; percioché, qui dimorando e restandomi a favellare assai circa la donna, quando arei io compito? E quando avremmo tempo di andarci a riposare? Meglio è adunque che quel poco di tempo, c’ho di poter qui ragionare con esso voi intorno alle cose appartenenti pure alla donna, io venga a partire in guisa ed in maniera, che non in una solo, ma in tutte tutto io lo spenda, e, come si chiede, io lo sparta ed il consumi. Il perché dell’ostinazione (la quale suole essere alle volte difetto nelle belle donne, non altrimenti che soglia essere ne’ be’ cavalli il restio) dirò cosí alla distesa quattro parole, in prima ch’io mi volga ad altro. L’ostinazione, vizio pure abominevole, non voglio che vi si trovi in questa donna nostra per modo niuno. Percioché, sí come in un bellissimo e finissimo panno disdicevole è vie piú, che in uno non cosí bello nè cosí fino, una macchia che suso vi segga e vi stia talora, cosí un vizio in un bel corpo ed in uno non men bello animo stranamente viene piú a bruttare ed a deformare od uomo o donna che si sia, che s’egli in sozza persona e non dissimile animo si trovasse allogato, ed ivi tenesse il suo nido e dimorasse come in propria stanza. IL medesimo ci è dato a vedere della virtú, qualora accade di potere vederlo. Ma, tornando all’ostinazione, dico che essa spetta alle mule spagnole e non alle belle donne, delle quali, scarse del pregio e del suo onore, non sarebbe se non loda il dimostrarsi a chiunque si fusse essorabili ed arrendevoli, quantunque volte loro vi si scoprisse l’agio e l’occasione di poterlo fare. E, perché mi soviene una dilettevole facezia ora d’una femina ostinata, anzi ostinatissima, anzi l’istessa (per quel ch’io mi creda) ostinazione, io voglio che noi ridiamo un poco; ma uditemi prima, s’egli non vi è discaro ed in dispiacere l’udire. Era adunque una femina, la quale, maritatasi in non so chi (ché ’l volgo e bassa gente, come amendui erano, giace senza nome e senza fama), aveva detto a suo marito, qual che si fusse la cagione, ch’egli era pidocchioso. Questi, salito in còlera, volle allora allora ch’ella si disdicesse, ed incominciolle a dare di buone pugna e di buoni calci; ma ciò era nulla con lei, e, come dice il proverbio, un pestare acqua in un mortaio, un parlare a sordi ed un volere imbianchire un etiopo e lavare un mattone. Alla fine, veggendo egli che non solo non si voleva ritrattare essa in averlo chiamato pidocchioso, ma perseverava in tale villania, prese una fune e, legata con essa la moglie al traverso, come vi si legano le some, a suo malgrado giú per un pozzo calolla; e, non venendosi ella perciò a pentire, ma pure, all’usanza, stando ostinata e salda nel suo proposito, fece che ’l marito la mise giú infino alla bocca, e cosí pian piano, non giovandole ciò un punto, infino sovra la testa. Il perché, non potendo essa parlare e chiamarlo pidocchioso ancora, come n’aveva voglia e sommamente desiderava, incominciò (oh ostinazione singolare ed a niuna altra seconda!) a urtare l’unghie una contra l’altra, in quella guisa che ci è dato a vedere i forfanti fare, qualora (il che sia con vostra riverenza detto) i lividi o negri, che vogliamo dire, soldati pugliesi, o fiaminghi, s’hanno il filo della schiena nero, o levantini, se sono del tutto bianchi, o quali portarono giá i primi fondatori dell’ordine minore, se sono d’uno schietto e vero bigio, vengono loro in mano ed in pugno, frettolosi di farneli andare alla morte. — Non poteron tenere qui le risa i gentiluomini, sí per la novelletta, in sè pur bella, sí anco perché nel fine vi si mostrò un poco anzi sfacciato che no il signor Ladislao. Il quale, poscia che anch’egli con loro ebbe riso alquanto, si rimise a dire: — Non superba, non malèdica, non chiacchieriera, non accusatrice sará la donna nostra. Superba non sará, percioché cosa niuna è di questa vie piú odiosa e nemica e spiacente al magno Iddio, il quale l’angelo, da lui creato piú bello, volle che fusse per ciò relegato in parte oscura e cava, senza mai potere piú su ritornare, onde co’ suoi maligni e perversi seguaci con perpetuo scorno venne a cadere giú. La superbia è un principio, è un fonte onde i ruscelli di ogni peccato spicciano, ed un ceppo onde i rami, cioè i delitti di ciascheduna sorte, germogliano. E per lei Nabuccodonosor, qual bue, sette anni andò pascendosi d’erba e di fieno, e quinci e quindi errando come selvatica bestia ed animale irrazionale. Oimè! ch’io non so quale che sia quella cosa, per lo cui mezo noi ci insuperbiamo. Io non la trovo, s’io bene la cerco; se forse non fusse questa (ah, infelici e stolti noi!) che siamo terra e cenere, oppressi dal fascio di mille peccati, soggetti a morire, esposti a mille sventure, miseri, come disse Omero, piú di qualunque cosa che la terra nutrichi, ciechi fra le vane speranze e perpetue paure involti, del passato pieni di oblivione, del futuro e del presente pieni d’ignoranza, insidiati da’ nemici, abbandonati per morte dalli amici, accompagnati da continua aversitá, lasciati da fuggitiva prosperitá. Il che se madonna Cianghella (di cui dice ’l Landino, sovra Dante, essere stata tanta la superbia, che un giorno, venuta ad udire la predica, e non le sendo dalle donne quel onore fatto ch’essa avrebbe voluto, molte ne prese per li capelli e per l’orecchie) avesse considerato un poco per minuto, io voglio ben credere che facenda ad ogni bocca sopra gli fatti suoi ella non avrebbe dato giamai, e meno se l’avrebbe pensato di dare. Malèdica non sará, ché (avenga dica ’l proverbio essere ciò il quinto elemento) il dir mal d’altrui è vizio gravissimo, e chiunque dice che li pare e piace quel che non li pare bene e li dispiace, viene ad udire bene spesso poi, e non fusse!, peggio. Ma vi è peggio: ché la vita si perde alle volte. E bene il seppe Dafita, il grammatico, il quale, preso per avere infamati e morduti, co’ velenosi suoi denti, regi, fu senza pietá e compassione niuna crocifisso in sul monte Torace. Il perché fece che n’uscì fuori e ne nacque il proverbio con le male lingue, il quale è: «Guardatevi dal monte Torace». Vedete Plutarco nel libbricciuolo ch’egli fa Dell’allevazione de’ figliuoli, e troverete ch’un Sotade, ed un Teocrito filosofo vennero partecipi della mala sorte, che hanno alla fine questi latranti cani. Considerate ch’è vero proverbio, che si ha in bocca tuttodí: «la lingua», cioè, «non aver osso, ma ben farsi ella dare giú per lo dosso». Considerate che, se Cicerone e Demostene avessero posto un freno alla strabocchevole e scapestrata lingua loro, eglino avrebbono vissuto forse piú alla lunga, e meno crudelmente sarebbono morti che non morirono. Niuna parte del corpo nostro, come ben disse il Petrarca, ch’ebbe fior d’intelletto, è piú pronta a nocere e piú difficile a frenarsí che la lingua nostra: della quale soleva dire Esopo di Frigia, favoleggiatore eccellentissimo, niuna cosa ritrovarsi piú buona nè piú cattiva. Il perché io non mi maraviglio di Zenocrate se, dimandato e chiesto da un di quei compagni maldicenti. co’ quali esso si trovava ad essere, perché anch’egli non pungesse e non dicesse male d’alcuno, rispose cosí : — Io sono perciò tacito, che ’l maledire altrui m’ha fatto alcuna volta pentire, ma non giá mai il tacere. — Il che poi è da Probo, ne’ Carmi, attribuiti a Catone, e dall’Ariosto, lá dove dei giochi d’Alcina e de’ segreti parla, leggiadramente stato imitato, con dire:
Che raro fu, a tener le labbra chete,
biasmo ad alcun, ma ben spesso virtute.
La maldicenza è tanto odiata dagli uomini che la fuggono, ch’io non lo vi potrei unqua agguagliare a parole. E, se non fosse che ’l proverbio usato dal Petrarca ne’ suoi Dialoghi, cioè «oggi essere meglio ferire Ercole che pur un villano», mi tiene a freno e mi dissuade, io mi andrei aggirando intorno gli essempi, non solo antichi, ma moderni, in provare quanti odii e morti ella suscitati e levati ha ne’ nostri tempi. Ma mi taccio. Chiacchiariera non sará, perché l’avere del parabolano o cicalone chi è che dubiti che piú non disconvenga alla donna che all’uomo? E tanto viene questa sconvenevolezza ad essere magiore, quanto piú sono pregiati ed orrevoli quella e questi. Bisogna sapere, per potersi rattemperare nel parlar nostro, che l’alma e migliore natura, ch’è Iddio, ci ha voluto dare due orecchie ed una bocca; e questo per scoprirci ella che piú le piacerebbe, e le sarebbe piú in grado assai, vederci poco favellare, ed udire piú in servigio ed utilitá nostra. Ma noi non avertiamo a questi secreti, che sono in noi dal cielo infusi, e cosí di berlingare, cinguettare e ciarlare non facciamo mai fine, mai non molliamo, mai non finiamo, dálle, dálle, dálle, dalla matina infino alla sera. Il perché (se vero è ciò che dicono questi fisici: che quel membro, il quale fra gli altri l’animale bruto, l’uccello ed il pesce viene piú ad essercitare, viene anco piú a piacere al palato, come piú saporito, e ad essere piú sano allo stomaco), niuno boccone dee nel vero essere piú piacevole e ghiotto, nè migliore che la lingua nostra... — Anzi, che la lingua delle donne — disse qui l’eccellente dottore, e tacque poi, non avendo quasi interrotto un punto al signor Ladislao. Il quale seguendo: — Io so bene — rispose — come i partegiani degli uomini ed i nemici delle donne hanno favellato; ma io avrei avuto a caro che eglino avessero postergato la passione e l’odio, che immeritevolmente hanno portato a questo sesso ed a questa schiera donnesca, che adorna ed abbella pure, a lor mal grado, il mondo, e forse altro giudicio e diverso molto oggidí vi si leggerebbe nelle carte loro, che non si legge. Io dico che le donne non sono tanto ciarlatrici quanto per iscrittura vi si mostra, e sí come qui hanno gli scrittori errato, di leggieri ponno nell’altre cose aver fatto il simigliante anzi che no. Deh, guardianci un poco noi, e diciam poi di loro! Ma io torno al luogo onde io mi partii, perché alcuno non dica che, avendo io gittato in occhio altrui ch’essi hanno fatto male per astio, odio ed invidia, a me starebbe bene e converrebbe che mi si fusse gittato l’aver fatto bene per l’opposito, cioè amore e benevolenza, ingannatrice, come usava di dire Platone, di veri giudici. Il che se bene mi he opposto, non mi curerò mai delle opposizioni, ch’io amo piú tosto di lasciarmi ingannare, il che non concedo, da amore che da odio, come questi malvagi e maldicenti si lasciano il piú delle volte. Ma, tornando pure, come di sopra ho detto, onde mi venni a partire, noi siamo, dico, troppo linguuti; il che non voglio che sia nella donna nostra, la quale ancora schiferá di tutto potere di non amare il vizio delle accuse, ché queste tali sono fuggite dal mondo come sono le croci dal diavolo, e piú sono odiate ch’egli non è da lui. Chi ha un cotal vizio è stranamente macchiato, ed io non credo mai che sia caro al cielo, dove accioché salga, isforzare si dee ognuno per mezo delle virtuti. Soleva dire Domiziano imperadore che chi non castigava gli accusatori gli veniva ad infiammare, a farneli piú e piú accusatori. Ma vegniamo ad altro oggimai. Della religione sarebbe da dire, ma non mi piace, ché, se mi avesse piacciuto, lá dal principio, ch’io incominciai a descrivere interiormente qual essere dee questa donna, n’avrei ragionato alquanto. E, se mi dimandassero Vostre Signorie perché qui me ne passo col piede, come si dice, asciutto, io risponderei loro quel, che giá mille e mille anni a coloro, che ’l dimandarono perché egli non avesse posto nelle sue leggi la pena ed il supplicio che n’avesse a patire un occiditore del padre, rispose Solone: cioè non mi poter persuadere che v’abbia donna alcuna empia ed irreligiosa, com’egli non potè credere che v’avesse di quelli che osassero con estrema malvagitá di tôrre quello al padre o alla madre che essi avessino da loro avuto con grandissima cortesia, la vita, dico. Come adunque ella si debba intorno al bere ed al mangiare con regola e misura a lei convenevole instruire, io ne dirò diece parole or ora. Egli si sa da ognuno che Noè, sendo fuori dell’arca uscito, come ci insegnano le Sacre Letture, si mise diligentemente ad arare la terra, e con le proprie mani a piantare le viti, dalle quali s’avesse a produrre e generare l’almo liquore, che addimandiamo «vino», il quale poi, generato, è stato per tutto il mondo, come veggiamo, diffuso. Ma non è picciola briga appo alcuni questa: s’egli meglio sarebbe stato che non vi fusse mai nasciuto. Considerati gli effetti suoi buoni, io, e, con la volontá divina, la cattiva ed irregolata nostra umana, risolutamente dico ed assertivamente affermo che meglio è stato che senza lui non vivesse la generazione razionale, ché l’uso, dove l’abuso è cattivo, è buono. E niente è da credere che s’avesse posto a fare Noè, se l’altissimo Iddio non gliel’avesse rivelato. E, se la nostra ingordigia, per lo suo mezo, viene a cagionare molti e molti mali, non bisogna perciò dire e conchiudere che non sia cosa buona il vino, e che beati noi se non l’avessimo. La colpa è nostra di quanti quinci scandali si levano e mai si leveranno! Il vino (pure che non ci partiamo dalla giusta misura) maravigliosamente ci accresce le forze del corpo, ci accresce e ci aguzza lo ingegno; il che non spiace al divino Platone, prencipe de’ filosofi. Egli vale a potere allegrare i cuori nostri, afflitti e sbattuti da longhissimi travagli e da longhissime cure. Chi non ne bee non è ben atto al generare, è privo e casso d’ardimento e di robustezza corporea, ha debole ed inferma la virtú concottrice, e finalmente tosto viene a morire. Il vino raffrena il vomito, fa digerire, aita lo stomaco e giova a’ nervi. E, s’io volessi annoverare tutto il bene che ne viene all’uomo per mezo di lui, moderatamente bevuto, non è dubbio che infino al dì non mi stendessi ragionando. Ma, perché studio d’essere brieve e di non vi attediare, lascerò questo, e narrerò gli sconci, che, non per sua colpa, ma per la nostra, può di leggieri cagionare, accioché poi la donna nostra, veduti gli effetti che dalla sobrietá risultano e dal contrario di lei, con tutte le forze sue procacci di schifare l’ebbriachezza ed ogni superfluitá del bere, amando piú tosto d’essere detta sobria che ebbriaca dal mondo. Dal vino adunque, in sè buono, ove immoderatamente si bee, si cangia la mente, sorge il furore, si scuoprono i secreti dell’animo. Egli non lascia guatare il sole nascente, fa prestamente morire; quinci ’l pallore si genera, la imbecillitá, la guerra, la sfacciataggine e l’ardire di commettere ogni delitto; quinci si fanno le gote pendenti, gli occhi infermi, le mani tremanti, i sogni furiosi ed il dormire inqueto; quinci sorge la lascivia, e, pieni di fetori, mattutini rutti, l’oblivione quasi di tutte le cose e la morte della memoria. Avrá adunque riguardo la donna di non essere tanto vaga del vino, che incorresse in sì fatti errori, ne’ quali (oh vergogna degli uomini!) alcuni ben sovente si veggono incorrere tuttodí. Ella berrá con quella modestia che le si conviene e le si dice, e mai non si allontanerá della non picciola e poco lodevole virtú della mediocritá. La quale altresi ingegnerassi nel mangiare di tenere, percioché ’l troppo e superfluo mangiare ci fa smemorati, e non ci lascia pervenire a quella grandezza di corpo, alla quale perverremmo attenendoci alla mediocritá. Quanto viene a spettare alla favella, di cui non abbiamo ancora favellato, e pure ne bisogna favellare, io voglio ch’ella sia onesta sempre, e sempre piena di onore; ché, se fosse inonesta e carca di disnore, tanto si converrebbe a lei, quanto ad un bellissimo fodero una spada fatta di cattivissima tempra o piú tosto ponderoso e debole piombo. Qui mi pare non disconvenirsi quel che del piovano Arlotto mi ricorda giá d’aver letto e notato. Egli aveva veduto un giovane benissimo in arnese, il quale tanto sozzo nel parlar suo si mostrava che nulla piú. Il perché a lui rivolto: — O tu — disseti — usa parole conformi alle vesti c’hai nel dosso, o vesti conformi alle parole c’hai usato e tuttavia usi. — Oltre a ciò, ella sará (il che fu in Laura, come abbiamo nel sonetto «Quand’Amor i begli occhi» chiara, soave, angelica, divina; e del potere, che si vede nel sonetto «Oimè il bel viso» aver avuto pure quella dell’antedetta Laura. — A queste parole molte, n’aggiunse dell’altre, e quasi infinite, continenti ed insegnanti la perfezzione della donna interiore, il signor Ladislao, tutto in ciò solo intento, e con la lingua e con l’animo poco, o piú tosto niente, segno di stanchezza o di pausa dimostrante di volere ancora dare. Alla fine, scorgendo passata essere l’ora, nella quale egli e gli altri nelle due precedenti notti solevano finire i ragionari e doppo andarsene al letto, per ultima dote, che diede alla interiore donna, le diede le lettere, delle quali ci mostrò e con essempi antichi e moderni, e con autoritati assai e con ragioni piú, s’io non erro, di mille, non altrimenti essere capaci le donne che gli uomini, anzi, s’io bene mi ricordo, ci fece vedere che ancora piú. A pena aveva tòcco la mèta il signor Ladislao, che, lui lasciato di sguardare, si rivolsero tutti a far vedere con ragioni vive, uno doppo l’altro, la sua diva avicinarsi piú alla donna; e poi drizzarono a me gli occhi, desiosi di conoscere quale delle amorose loro venisse da me per la piú bella e per la piú leggiadra, doppo tanto aspettare e doppo tanta incresciosa dimora, risolutamente giudicata. Io qui pregai loro caldamente che due parole (e ciò larghissimamente mi concessero) mi lasciassero, inanzi ch’io scendessi al giudicio ch’aveva da fare, dire sole; ed incominciai, rivoltomi al signor Giacomo, cosí: — Tale donna, quale in questo vostro realissimo, e solo degno di voi, altiero palagio è stata da voi e dai compagni formata, ha da venire, col crescer degli anni suoi, fanciulleschi ancora, signor mio caro, la vostra figliuoletta, la quale è di voi e della vostra cara ed orrevole mogliera solo bene, singolare piacere, unico conforto, speziale contentezza. Il perché voi vi avete da rallegrare, e, ringraziando il cielo di sì fatto dono, di perpetuamente gioire e di perpetuamente godervi in seno.
Tacqui a tanto. E poi, volendo incominciare a fornire il rimanente, ecco appresso a questo lasciarmi e via partirsi il sonno, nel quale, con mia non poca dolcezza e contento, aveva tutte le sovradette cose ampiamente vedute ed occhiate. M'increbbe, monsignore, ciò stranamente, percioché, s’io avessi potuto anch’io un poco ragionare (come a me pare che vi si chiedea), io so bene che. quantunque la signora Ortensia, perfettissima opra di natura, ov’ella sparse tutto il seme della vera bellezza e del vero valore, a cui non si dee agguagliare in niuna dote dell’animo o del corpo, niuna donna presente od antica (se non vi s’agguagliasse nella favella dolce vie piú, che non è nè miele, nè zucchero, nè manna quella antica e faconda tanto, di cui ella n’ha il nome) avesse avuto da me la sentenza ed il giudicio in favore, nondimeno l’altre le sarebbono sí state vicine nel pregio d’amendue le bellezze, che la differenza sarebbe stata anzi poca che no fra loro. E, per dire della mia tanto bella quanto onesta Toronda (delle tre restanti, divine piú nel vero, che mortali donne, in apparenza non mi ponendo ora a favellare), quale altra in tutte quelle parti, che la donna perfettissima hanno stampata, le si potrebbe con ragione, non dirò porre innanzi, ma pur appressare, non che anco pareggiare?
Ora restami a dire, monsignore mio onorato, che, se vi parrá in queste mie tre notti, in questo mio sogno, e, per dire quel che piú mi piace, in questa mia bella donna, quale ella si è, ch’io non aggia osservato il decoro in tutto, e ch’io aggia ben sovente replicato quella voce «signore», massime ne’ primi dui libri, avendo potuto porre la prima lettera de’ nomi de’ gentiluomini, in quella vece loro significante, e finalmente ch’io aggia qualche cosa per inavertenza lasciato e dormito un poco, non vogliate perciò meco isdegnarvi, e cessare di difendere l’onor mio contra qualunque li si venisse (il che non posso non temere) ad opporre e farlisi allo ’ncontro; ché quale mi è venuto di potere vederlo, tale mi ha piaciuto, nulla aggiugnendo, nulla diminuendo, e nulla cangiando, di mandare e di spiegare in carte, e poi a voi consacrare e dedicare questo mio giocondo e dilettevole sogno. Adio.