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280 iii - il libro della bella donna


come dell’anima, che lasciano (oimè! pure sconciamente) troppo deformarsi ed irruginire a pieno. — No, no — dissero qui i compagni tutti: — seguite pure della vergogna di queste bellettate, e verrete poi al doppio danno, e poi ad altro che vi resta anco di dire al cospetto nostro; e non abbiate paura di rinovare l’essempio antichissimo d’Orfeo. — Chi m’assicura di voi — rispose loro il signor Ladislao — che non m’abbia a cader in sul capo qualche ruina? Io vi dico — soggiunse poi — che non valse nè la poesia, nè la cetera, nè l’archetto, nè Calliope, nè quanto ebbe di buono, al giá detto Orfeo contra il furore delle donne, che a brano a brano l’andâro stracciando. Non valse nulla a Tamira contra quello delle muse, che lo cecâro. E, se non fusse stato savio Stesicoro, che si mise a lodare Elena, dove l’avea dianzi, come di sopra tócco n’abbiamo, biasimata, vi so dir io che gli bisognava, quanto stendeva la vita, o il bastone di Tiresia o il fanciullo d’Asclepiade. E, per conchiudere, vi dico in somma che le donne non si tengono le mani, come si dice, a cintola, quando sono mordute e sprezzate; il perché lasciatemi dire quel tanto che mi resta del danno (ch’io ve ne prego) e mi perdonate se il procedere del gambaro non mi piace per ora. Il danno adunque, che il liscio reca alle donne di cui parliamo, è gravissimo; e, se non fusse altra giunta per appresso, elleno doverebbono (se avessero del saggio e cauto Prometeo, e non dello stolto ed incauto Epimeteo) fuggirlo, come gru falcone, e come timida pastorella il serpe velenoso e crudo. Percioché elle vengono inanzi tempo a fare il viso incavato a guisa d’incavate colonnelle, ed a segnarlo di disdicevoli (e quali veggiamo nei vecchiarelli antichi) solchi e falde assai. La bocca incomincia a corrompersi, a mandare fuori un fiato fetido, puzzolente, e quale n’esce o da quella della scaltra e maliziosa volpe o da quella del generoso e terribile leone. E questi, che furono bei denti forse, poi si fanno negri, e pur bastasse ciò! Ma non aviene cosí, perché eglino vacillano, e doppo il vacillare cascano sí, che pochi armano la bocca. E que’ pochi restano tali, che (come n’è dato a vedere la fistola del dio Pane talora, o come sguardamo le dita nostre) l’uno sendo lunghissimo,