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libro terzo 299


Omero, piú di qualunque cosa che la terra nutrichi, ciechi fra le vane speranze e perpetue paure involti, del passato pieni di oblivione, del futuro e del presente pieni d’ignoranza, insidiati da’ nemici, abbandonati per morte dalli amici, accompagnati da continua aversitá, lasciati da fuggitiva prosperitá. Il che se madonna Cianghella (di cui dice ’l Landino, sovra Dante, essere stata tanta la superbia, che un giorno, venuta ad udire la predica, e non le sendo dalle donne quel onore fatto ch’essa avrebbe voluto, molte ne prese per li capelli e per l’orecchie) avesse considerato un poco per minuto, io voglio ben credere che facenda ad ogni bocca sopra gli fatti suoi ella non avrebbe dato giamai, e meno se l’avrebbe pensato di dare. Malèdica non sará, ché (avenga dica ’l proverbio essere ciò il quinto elemento) il dir mal d’altrui è vizio gravissimo, e chiunque dice che li pare e piace quel che non li pare bene e li dispiace, viene ad udire bene spesso poi, e non fusse!, peggio. Ma vi è peggio: ché la vita si perde alle volte. E bene il seppe Dafita, il grammatico, il quale, preso per avere infamati e morduti, co’ velenosi suoi denti, regi, fu senza pietá e compassione niuna crocifisso in sul monte Torace. Il perché fece che n’uscì fuori e ne nacque il proverbio con le male lingue, il quale è: «Guardatevi dal monte Torace». Vedete Plutarco nel libbricciuolo ch’egli fa Dell’allevazione de’ figliuoli, e troverete ch’un Sotade, ed un Teocrito filosofo vennero partecipi della mala sorte, che hanno alla fine questi latranti cani. Considerate ch’è vero proverbio, che si ha in bocca tuttodí: «la lingua», cioè, «non aver osso, ma ben farsi ella dare giú per lo dosso». Considerate che, se Cicerone e Demostene avessero posto un freno alla strabocchevole e scapestrata lingua loro, eglino avrebbono vissuto forse piú alla lunga, e meno crudelmente sarebbono morti che non morirono. Niuna parte del corpo nostro, come ben disse il Petrarca, ch’ebbe fior d’intelletto, è piú pronta a nocere e piú difficile a frenarsí che la lingua nostra: della quale soleva dire Esopo di Frigia, favoleggiatore eccellentissimo, niuna cosa ritrovarsi piú buona nè piú cattiva. Il perché io non mi maraviglio di Zenocrate se, dimandato e chiesto da un di quei compagni maldicenti.