Il libro della bella donna/Libro secondo

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LIBRO SECONDO

Noi veggiamo oggidì con gli occhi, monsignore messer Giovanni, e toccamo, come si usa di dire, con la mano che delle cose principiate tanto è grato non pure all’uomo, ma ancora agli altri animali, privi di ragione e di intelletto, di vedere il mezo e poi la fine. Ché quello e questi non si veggono cessare mai dall’operare infin che non hanno le cose l’ultima e debita perfezzion loro. E ciò n’accade vedere piú sovente assai e con maggior veritá, allora quando il principio felicemente da tutte le parti vi si mostra di essere riuscito. L’uomo ricco incomincia un ampio e magnifico palagio ottimamente, e, veggendo bello e vago il fondamento, non può, tirato dal desio di vederlo fornito, non fare che non s’affatichi, per vederlo, quanto piú tosto è possibile, perfetto. Un pittore, s’egli da qualche bellissimo essempio ha rapportato giá in carta o in asse vagamente la testa di qualche figura, antica o moderna che si voglia, come può non ridurre a fine la sua pittura e ’l suo leggiadro lavoro? Degli animali bruti chi è che dubiti non avenire il simile? Per la qual cosa, trovandoci noi ancora d’avere poco piú che principiata nel precedente libro la donna nostra, e d’averla lasciata (come giá piú di mille e mill’anni lasciò per morte la seconda Venere, che dipingeva a’ suoi coi il tanto famoso e celebrato Apelle) imperfetta e non compiuta, strano desio avevamo tutti ne’ cuori nostri di vedernela fornita e di non lasciamela cosí andar male, poiché succeduto gloriosamente n’era il bel principio, e sofferto per lei avevamo alquanto di fatica, se fatica, o non piú tosto sommo piacere, si dee nomare quello che intorno a lei avevamo speso di [p. 246 modifica] tempo. Laonde, partorito il giorno dal sole e illuminato il monte ed il piano, levammo veloci; e, giratici intorno co’ nostri falconi, pigliammo, mercè del buono del signor Giacomo e di quello del signor Pietro, anitre ed aironi assai. Venuti poi, per tempo alquanto, al palagio, simile a quello di Alcina, di Logistilla, di Atlante, d’Adamo e della fata Manto, descritti dall’Ariosto; simile a quello del Sole, appo Ovidio, e della Fama; e simile a quello di Psiche appo l’Asino d’oro di Apuleio; ci ristorammo con delicatissime vivande, ed il rimanente del giorno (ché tornammo a casa, essendo, per giudicio mio, di luce ancora tre ore) passammo a certi giuochi dilettosi e dolci. Ma, venuta l’ora della cena, e cenatosi poi, indi a poco, realissimamente, furono gli scanni tosto appresso al fuoco portati da’ servidori, e, invitatici noi a vicenda ad appressarglisi, vi ci appressammo, quasi ch’io non dissi a prova l’uno dell’altro. Ove cosí raunati, per commune consentimento piacque a ciascuno di fissare gli occhi di dentro alla testa intralasciata della donna; e, guatando tutti lei molto per minuto e per sottile, ecco udirsi una voce del signor dottore, tale: — Leggesi, onorati signori e compagni, che costumava Apelle (dal quale solo volle Alessandro il magno esser dipinto) di esporre agli occhi del popolo l’opere sue, accioché, udendo poi da questo e quello gli errori e le pecche di loro, in questa guisa le potesse far del tutto perfette e naturalissime. Il che usando cosí di fare, venne in tanta eccellenza poi, che, a voler lui lodare secondo il merito e secondo che si conviene, bisognerebbe accôrre tutte le lodi di quei che oggidì sono dipintori famosi e furono mai per l’adietro, e donarle a lui; e, cosí donate, confessar poi ancora di non potere agguagliar con parole e giugnere in modo niuno all’altissimo segno della perfettissima virtú sua. Il perché faremmo gran senno ancora noi se, prima che trapassassimo alle parti restanti di questa donna, considerassimo un poco diligentissimamente se, cosí sguardando, in lei vi potessimo ritrovare pecca o menda alcuna noi stessi; da che non abbiamo altrui che di ciò ci avisi e ci faccia chiari. — E cosí, guardinghi, venuti in questo accordo noi e stando in questo aviso, trovammo averle dato somma perfezzione, ma pure essere suti poco scaltri [p. 247 modifica] nelle tempie e nella collottola, le quali due cose le venivano a mancare. Laonde, concedutele e datele tosto, convenimmo che si devesse seguire l’impresa senza piú dimora. Al che fare, in piedi alzato il signor Ladislao: — Io non so — disse — quando ch’io mi abbia mai veduto cortesia in alcun gentiluomo tanta, quanta io veggio nel signor Giacomo, il quale, pregato dalle Signorie Vostre ieri a parlare doppo l’eccellente dottore, quando egli n’era degno per ogni ragione al pari d’ognuno di voi, non volle mai accettar la maggioranza; ma, rifiutatala, fece che il signor Pietro ancora rifiutolla: e, se non eravamo tutti addosso al signor Vinciguerra, io non so come passavano le cose nostre allora. Dipoi combattè tanto col cognato, che gli fu forza per sodisfazione e sua e nostra di prendere il terzo luogo. Ora egli ed io soli (fuor solamente messer lo giudice, poiché egli altrimenti non ha da favellare) siamo rimasi a parlare ordinatamente di questa donna. E volendo io, come giusta cosa mi pare, udir lui in prima e dargli luogo, vedete come si mostra schifo di tale offerta. Ma egli n’ha d’avere uno scongiuro ed uno sforzo or ora tale, che contra non potrá, ch’io mi creda, in guisa niuna prevalersi. — Tacquesi a queste parole il signor Ladislao, e poi soggiunse cosí: — Signor Giacomo, per l’ardentissimo amore che mostrate tuttodí di portare a quella bianchissima Rosa, la quale non hanno tutti i giardini del mondo, io vi prego che vogliate esser contento stasera innanzi a me di cominciare a dire sovra la materia della donna, quanto a voi fie in piacere ed in grado, e nulla piú. — A ciò la risposta del signor Giacomo fu questa, essendosi col viso verso lui, che gli aveva parlato, dolcemente rivolto: — Voi avete ben trovato un bel mezo di vincermi, e vi so dire ch’un altro simile non trovereste in centomil’anni. Per quella candidissima ed odoratissima Rosa adunque, per la quale voi mi avete pregato, anzi sforzato a qui far le vostre voglie, e per la quale io non posso negare nulla a chi per lei mi prega, io sono piú che contento di ragionare della incominciata materia con esso voi e con questi altri gentiluomini, amici e signori miei. — Così risposto con un viso mezo ridente, egli incominciò: — La gola vi si dee, per mio giudicio, in prima supporre a questa testa. [p. 248 modifica] da ogni parte compiuta. Il perché la vorrei di colore di marmo, tale quale mi ricorda d’avere non so se letto o udito dire ritrovarsi nell’isola di Paro, cioè candida sì, che candidezza maggiore non apparisse nè in cigno, nè in giglio, nè in armellino, nè in neve... — Pur mò scesa dal cielo? — disse qui il signor Vinciguerra. Ha egli nevicato forse? — No — gli rispose il signor Giacomo; — ma voi non mi intendete. Io dico ch’io vorrei che la gola di questa donna fusse vie piú bianca che non è la fresca ed ancora intatta neve, fioccata nuovamente dal cielo. — Ah! — rispose l’altro — ora v’intendo. — E fece che qui noi altri ridemmo alquanto, infin che’l signor Giacomo riprese a dire: — Simile gola commenda in Amaranta il Sannazaro, ed altri assai; de’ quali ora non mi sovenendo il nome, io verrò al collo, che bianco, piú che latte, dice essersi ritrovato in Laura il Petrarca nella canzone, che comincia «In quella parte». D’avorio fu quello di Narciso, come giá lessi in Ovidio... — Oh! come è vero — gridò trapostosi qui pure il signor Vinciguerra — che egli l’avesse d’avorio? Questa è simile alla favola di Pelope, di cui Vergilio nel terzo della Georgica, Tibullo al primo delle sue colte Elegie ed il medesimo vostro Ovidio al sesto delle Trasformazioni ne fanno menzione. Nella quale dicono che, avendoli Cerere mangiato l’omero sinistro in quel convito, che l’empio e crudel Tantalo fece agli dèi, gliene restituí uno d’avorio; cose del tutto vane e di niun segno di veritá colorite... — O che voi non siete in buon senno, o che mi avete stasera tolto a darmi le beffe, signor Vinciguerra! — gli disse il signor Giacomo. Seguendo poi: — Quando ch’io dico che Narciso ebbe il collo d’avorio, io non intendo, come voi, ch’egli l’avesse veramente d’avorio, ma bianco come avorio. E cosí vuol essere inteso Ovidio e ’l Bembo altresi, quando nel sonetto «Crin d’oro crespo» dice, in lode della bianca mano della donna sua, cosí :

Man d’avorio, che i cor distringe e fura.

D’avorio fu quello della diva dello Strozza il figlio, come egli testifica nel secondo de’ suoi Amori. Quel che ne dice l’Ariosto, nelle tanto allegate da voi bellezze d’Alcina, egli ci è chiaro. E però [p. 249 modifica] io vo’ che proprio sia tale il collo di questa donna quale fu quella. Ora scendiamo piú giú un poco, e veggiamo di darle un seno che le si convenga. Questo sará candido, come fu quello di Laura, per testimonio del Petrarca in quel sonetto «Amor ed io sí pien di meraviglia», e come fu quello della amorosa di messer Ercole Strozza, che ne lo loda egli nel sú allegato suo luogo. Sará bello, e tale che si possa degnamente dire «angelico», il che piacque al Petrarca nelle canzoni «Quando il soave mio fido conforto», «Chiare, fresche e dolci acque». Ma che si dee dire delle poppe o mamelle, che le vogliamo chiamare? Elle fieno, come a me pare di dirittamente giudicare, picciole, tonde, sode e crudette, e tutte simili a due rotondi e dolci pomi. E tali l’ebbero Amaranta appo ’l Sannazaro e la garzonissima Sabinetta appo ’l Bembo. Dell’Ariosto mi taccio, ch’io so bene ch’ei non s’allontana o diparte dal parere di costoro. E meno il Boccaccio nel suo Laberinto d’Amore, dove, parlando di quei «due bozzacchioni» (ché cosí appella le poppe di quella vedova, tanto da lui maladetta e punta), dice che «giá forse acerbi pomi furono a toccar dilettevoli ed a vedere similmente». — Qui giunto, il signor Giacomo tacevasi, quando il signor dottore, risguardandolo, disseli: — Egli mi pare che mi s’è scoperta bella occasione, signor mio, di potervi rendere pane per ischiacciata. Peroché, s’io non m’inganno, il fine del parlar vostro tanto è lontano dal principio, e il principio dal fine, quanto sono i piedi o pure gli occhi nostri l’uno dall’altro. Ma so ben io quel ch’è. Nei falli nostri noi siamo l’uccel di Minerva, e negli altrui veramente quel di Giove. Laonde con gran giudicio Prometeo, avendo formato l’uomo, gli attaccò in spalle due bisacce, delle quali quella di dietro, figurata per la nostra, era piena di delitti, e quella d’innanzi, figurata per l’altrui, era scema e vota di loro. — A tai parole il signor Giacomo levando: — Eccellente dottore — disse, — poiché la mia semplicitá impetrarmi grazia e perdono appo voi non ha potuto, e che mi avete pure voluto mordere e traffigere, io (cosa che non avete fatto voi e che è pure di magnanimo, come potevate imparare dal gran Giulio Cesare, il quale di nulla scordar si [p. 250 modifica] solea, salvo che delle ingiurie fatteli) qui lo vi perdono, e non voglio gareggiare con esso voi, di cui la disgrazia mi sarebbe tanto discara quanto non saprei dire il piú. Ma sono ben certo che, se Vostra Eccellenza avesse saputo l’amore ch’io le porto, Ella m’avrebbe iscusato e si saria temperata in ogni modo nel parlare ch’essa mi ha usato. Ma, ritornando alla donna nostra, dico ch’io era poco fa, se di memoria non pecco, occupato nella qualitá delle poppe, e, avendovi io divisato quali elleno debbon essere in lei, convenevole cosa sará, per mio parere, ch’io mi volga ora alle spalle ed alla schiena. Quelle all’uomo, ove larghe e spaziose egli le viene ad avere, essere dicevoli ce lo scuopre al secondo della Eneide, sotto la persona di Enea, il gran Vergilio; e, benché io non abbia autore per la donna, nondimeno, se in ella fussero tali, io non le direi nè appellerei brutte, e massimamente se io le vedessi ancora terse e belle e dritte appresso, come voglio ch’elle sieno e ch’elle vi si trovino. Questa poi sará anzi vaga che no, quando a’ riguardanti si mostrerá da ogni parte leggiadra, e dolce, e morbida sí, che di pianamente percuoterla, e come Amore insegna, a punto loro ne verrá voglia e talento. Delle braccia poi, per venire a loro, non picciola bellezza scorgerassi se delicate, grossette e dolci al tutto fieno e gentili, come quelle di Laura alla canzone che incomincia «Si è debile ’l filo»; e se saranno, il che voglio che sia in loro, di quel potere delle medesime, il quale ci è noto per quel sonetto, il cui principio è «Da piú begli occhi», non potranno non essere bellissime e di somma e perfetta beltá adornate. Ma questo non averrá cosí agevolmente, se prima elleno non averanno in sè la purissima candidezza di quelle della bella Amaranta nel Sannazaro e delle non indegne compagne ed amiche tutte di lei. A queste sono congiunte le mani, delle quali, volendone io parlare, dico ch’egli mi piacerebbe stranamente di vedernele bianche. Laonde il Petrarca nella su allegata canzone tali le pone in Laura, e nel sonetto «Orso, e’ non furon mai». Le vorrei, dico, tanto bianche che di bianchezza si appressassero all’avorio, come il Bembo, nel cosí spesso addutto sonetto «Crin d’oro crespo», mostra averle [p. 251 modifica] avute la sua bella innamorata; cosí vengono ad essere belle e meritare un cotal titolo, il quale ebbero quelle di Laura, gridando il Petrarca «O bella man». Le vorrei sottili, ciò togliendo pure all’antedetto poeta nella due volte citata canzone, e lunghe, in ciò seguendo Properzio nel secondo, che si fatte scrive essersi ritrovate in Cinzia, e messer Ercole Strozza pure nel secondo de’ suoi Amori, il quale aggiunge un maraviglioso candore essersi potuto vedere in quelle della sua diva ancora. Vorreile tenerelle e tutte polite, sí che le dita loro potessero contendere con quelle di Bacco, alle quali rassomigliò quelle di Narciso Ovidio; ed esse poi belle mani far di invidia molta ir piene Giunone, Venere e la casta sorella di Febo, come scrive messer Tito Strozza, il padre, avere potuto fare quelle della sua pura e vaga Anzia. Vorreile grassette e senza vene apparenti, vorreile finalmente colorite e rosate alquanto, e l'unghie delle belle dita somiglianti a perle orientali; il che appare in quel sonetto, poco fa citato, essere suto in Laura. Ora tempo mi pare di trapassare ai fianchi, i quali senza alcun dubbio, a voler essere riguardevoli, bisogna che sieno anzi rilevati che no. E l’Ariosto, nel bello d’Olimpia occupato, disse: «i rilevati fianchi», e nella Cassaria, commedia di lui cosí intitolata, dove parla del grandissimo studio, che hanno le donne, di abbellirsi, «in rilevarsi nei fianchi» disse. «I castigati fianchi» disse lo Strozza messer Ercole, parlando della sua donna nel citato luogo di sopra. Quanto spetta alle anche, io mi spedirò con una parola tale, ch’io vo’che sieno belle e quali furono quelle d’Olimpia, di cui ragionando pure l’Ariosto, doppo l’aver detto de’ fianchi, «e le bell’anche» disse poi. Del ventre, ché al ventre posso oggimai valicare, dirò questo, ch’egli dee essere netto, anzi nettissimo, e tutto piano, onde l’Ariosto, pure d’Olimpia vaga parlando, «E netto, piú che specchio, il ventre piano» disse egli. Sará ancora gonfio, ché cosí amo meglio di vederlo, che quale si scorge nel Moreto di Vergilio aver avuto Cibale, ancella del vigilante e faticoso Similo, cioè compresso ed attratto; il che nelle donne non è dicevole, ma sí bene piú tosto biasmevole viene egli ad essere appo qualunque buono conoscitore [p. 252 modifica] delle donnesche e bruttezze e bellezze. — Quivi cosí ragionando pervenuto il signor Giacomo, e raccogliendo nella memoria prestamente quello che dire, doppo questo, dovea, prima ch’egli parlasse, incominciò a sorridere seco stesso. Il che veggendo noi, che tuttavia attendevamo ch’egli pur dicesse, ce n’accorgemmo perché; e, volendo ch’egli oltra passasse con dire quali devevano nella donna essere l’altre parti restanti, il signor Ladislao levossi: — Onorati signori — dicendo — gli uffici, non le discrezioni dar si dicono. Egli mi par tempo ch’io incominci oggimai l’ultimo corso, e ch’io, non il signor Giacomo, ch’assai finora ha favellato, e vi si può contentare, abbia a finire questa donna esteriormente. Che se li piacerá poi, e a Vostre Signorie insieme, di correre ancora e di parlare della medesima materia, restaci campo assai di ciò poter fare, vi so dire io, e l’argomento vi si mostra ampissimo. — Ah! — rispose qui il signor Giacomo a lui — non rinovellate, caro signor mio Ladislao, quell’iniquo e poco lodevole costume degli antichi, il quale a coloro che pigliavano a difendere le cause prescriveva il tempo della difesa, come ancora agli accusatori il tempo dell’accusa dato loro, e concessi gli oriuoli d’acqua: la quale consumata ed a goccia a goccia furata, vietava ad essi il dire; onde le cause poi cosí vi si venivano a precipitare il piú delle volte per lo picciolo spazio, che si dava loro. Non lo rinnovellate, dico, per cortesia, e non permettete ch’io mi truovi ora a que’ termini, ora ch’io son in sul mostrarvi quali, una per una, deono essere della donna nostra le parti, con le parole e con l’animo riscaldato. Senza che io non sono aratore, per cosí dir piú acconciamente che «oratore». — Non potè a queste parole non rendersi il signor Ladislao e contentarsi di quanto piacque al signor Giacomo; il quale, doppo il vinto impedimento ed ostacolo del suo ragionare, in questa guisa si pose da nuovo a seguire: — Al luogo onde tutti venimmo al mondo giá mi truovo esser arrivato, cosí passo passo ragionando, e, prima ch’io vi scuopra come egli vi ha da piacere in questa donna, io dirò, con licenza di voi, ch’io non posso non meravigliarmi assai onde ciò sia che, sendo egli il nido del piacere, e bello quantunque [p. 253 modifica] si voglia, tutte le donne femine usino di nasconderlo e celarlo a noi a tutto suo potere. Noi veggiamo ciò appo l’Ariosto in Ullania e nelle compagne. Noi il veggiamo in Fotide appo l'Asino d’oro d’Apuleio. Egli ci è chiaro per Diana, da Atteone còlta con tutta la sua schiera ignuda nelle chiare acque, appo le Trasformazioni di Ovidio. Egli ci è chiaro per Olimpia appo l’antedetto Ariosto. L’abbiamo appo il Petrarca nella gran canzone. E, leggendo io, benché altra cagione ci mostra Ovidio, che Tiresia fu cecato da Pallade, da lui veduta ignuda (come piace a Properzio al quarto libro, a Seneca nella tragedia intitolata Edipo, al Poliziano nell’Ambra, nella Nutricia e nelle sue Miscellanee, e finalmente all’Ariosto in un capitolo, che incomincia «De la mia negra penna» ecc.), mi penso che ciò n’avvenisse non per altra cagione se non per averla cosí ignuda, contra la sua volontá, sguardata e scoperta: cosa che spiace stranamente alle donne, per non volere che degli uomini alcuno miri l’antedetto luogo, cui di coprire tanta cura mostrano d’avere, che insino sul morire non la lasciano le generose e veramente donne. Per la qual cosa leggo appo Ovidio che Polissena (di cui si ricordò il Petrarca al sonetto «In tale stella»), giunta al punto della morte, non la lasciò. Leggo appo Giustino che Olimpiade, madre del grande Alessandro, con la vesta e co’ capelli isforzossi di velare questo luogo morendo. Veramente la natura ha qui operato in modo, ch’io le vederei, s’io potessi, volentieri nel seno, per poterne cavare ragione di ciò che mi sodisfacesse e mi acchettasse un poco. Ma, quando ho bene il mio pensiero in questo stanco, io trovo che per ciò ella tale instinto nelle donne ha posto, perché fra i loro membri ha voluto questo disonesto e quell’onesto chiamarsi, e però questo scoprirsi e quello coprirsi. E di qui è che la testa, quasi membro onestissimo, il piú delle volte si mostra ignuda, come le mani ancora ed altre parti; ma quelle, che sotto il ventre si celano, quasi disoneste, si vengono da noi a celare e velare il piú altresí: «da noi» dico, perché noi ancora abbiamo questo naturale, e non le donne pure. Onde il divino Agostino, al quartodecimo della Cittá di Dio, dice che [p. 254 modifica] tutte le genti talmente hanno in uso ed in costume di celare le parti vergognose, che alcuni barbari le vengono a coprire insino nei bagni, o con brache o con che sia. Appresso i romani i giovani, che in Campo marzo ignudi si essercitavano, queste parti secrete coprivano. Ma, se di questa cosa la ragione antedetta è buona, e vi pare non indegna di essere accettata per buona, come non si potrá dire che o queste cotali parti sieno piú sozze nelle donne che negli uomini, o che nel sesso loro vi si richiegga piú onestá e vergogna che nel nostro, quando la medesima natura ha fatto sí che, per caso e mala sorte, annegato un uomo ed insieme una donna, quegli giace resupino in mare e questa rivolta col ventre in giuso? Ma lasciamo di dire piú in tal materia, e torniamo onde pur ora ci partimmo. — Io aspettava, — disse qui, al signor Giacomo rivolto, il signor Pietro — che voi ne faceste menzione di quel proverbio, che si usa contro coloro, i quali a tanta isfacciatagine sono venuti, che non fanno pure niente differenza fra l’onestá e la disonestá. Il proverbio è che questi cotali non sanno quanta sia la differenza fra il capo e la natura, cosí de l’uomo come della donna. — Ed io — disse poi l’eccellente dottore — aspettava ch’egli ci recasse in mezo quello che de’ nostri primi parenti avenne; i quali, avendo disubbedito l’Altissimo, subito s’accorsero di essere ignudi e mostrar le vergogne, le quali poi con foglie vennero a coprire cosí al meglio che poterono. — Noi veramente — soggiunsero gli altri due — aspettavamo che Sua Signoria, per essempio, ci adducesse Omero, il quale nell’Odissea induce Ulisse, appena campato dall’ira del furibondo mare, riducersi sotto un albero ignudo, nel paese di Alcinoo (oggi nomato Corfú) e quivi, nascondendo le secrete parti, essere vagheggiato dalla figliuola del prenze, chiamata Nausicaa. Oh! — rispose il signor Giacomo — poteva a me ed a voi insieme bastare quanto io n’avea detto, e ch’egli era pure cosí. Ora, mostrata anco di ciò la ragione, veniamo finalmente a vedere l’antedetto luogo, ed a considerare un poco quale egli dee essere in questa bellissima donna. Sará adunque picciolo e poco fesso, ma sí lascivo, giocondo ed amoroso, che oltre misura venga a [p. 255 modifica] piacere a’ riguardanti, se a’ riguardanti sia concessa tal grazia, il che non mi piace, poiché natura il viene, e sia quanto vuol bello, a nascondere. Gli porremo adunque che l’abbia a coprire o pure ad ombrare un velo di sottilissimi fili tessuto, e d’ogn’intorno d’oro e di seta fregiato, perché altrimenti simile e convenevole a lui non mi parrebbe. Vo’ che stampi proprio, con la vaghezza sua e sua somma beltá, un giardinetto, quale agli occhi nostri, ove la dolce, candida e vermiglia primavera a noi ritorna, e si sente per le campagne l’usignolo dell’antico infortunio lamentarsi, è dato talora di potere remirare, e, cosí rimirando, godere, intanto che i nostri spiriti grandissima recreazione ne prendono. Questo non dispiacque di dire all’Ariosto in lode di quello della bella Angelica, ch’egli si assomigliava pure ad un giardino vago e fiorito, ove ciò che vi è dentro noi veggiamo partorire in noi non so che, che ci tira ed alletta a vagheggiare solamente lui, e solamente lui avere in bocca, e di lui solamente parlare. Vo’ che si giudichi e creda da ognuno ivi la grazia essere nata, ivi cresciuta ed allevata, e ivi felicissimamente starsi e godersi. All’altre parti deretane è tempo da ritirarsi, le quali nè ampie nè picciole n’han da piacere, ma partecipanti tanto dell’uno, quanto dell’altro. Chè in vero egualmente reca ad una donna disgrazia e le disdice, quando ella si mostra o troppo gonfia e naticuta, o troppo scema e quasi senza natiche. Orazio può aver l’uno e l’altro, nella seconda satira, accennato in una parola; ma oggi il volgo solo il vuole ben naticuto: e quinci è, come dice il Boccaccio nel suo Laberinto d’amore, che quella vedova, di cui abbiamo di sopra fatta menzione, delle due cose che studiava di fare che in lei pienamente fussero vedute, questa era l’una che voleva che si vedesse in sè, cioè le natiche ben sospinte in fuori, cosí giudicando non poca parte di bellezza ad una donna aggiungersi. Ma stia ella ed il volgo nel suo parere, ch’io starò nel mio volentieri. Alle colonne d’alabastro, su le quali tutto quello di che ho parlato, quasi un bellissimo edificio, si siede e stassi, io dico le belle cosce, ora è da volgere il parlar mio. Delle quali che devrò dir io alla presenza delle Signorie Vostre? Veramente e’ mi pare meglio (come [p. 256 modifica] di Cartagine disse l’istorico) tacere di loro che dirne poco: pure non mi rimarrò per ciò, che io non dica che elle debbono essere morbidette, lascive, tremanti e piene di tutto quel bello che in somma e perfetta bellezza le ponno ridurre, e tali alla fine che vi si possa pensare, non dalle mani di Fidia o di Lisippo, famosissimi scoltori, ma da quelle della natura solo, in ciò vie piú dotta di alcun di loro quando ella vuole, essere sute fatte ed uscite. — Fermossi qui alquanto il signor Giacomo; poscia disciolse di nuovo la lingua in queste parole: — Giá s’incomincia a vedere la méta, dove io ho d’arrivare correndo, alla quale poiché io pur sono vicino, egli non mi bisogna cessare dal corso, ma piú tosto affrettarmi piú. Il perché dico che le gambe, alle quali cosí partitamente ragionando mi trovo d’essere giunto, denno trovarsi in quella guisa formate in questa donna, nella quale vi si vede una marmorea colonna, cioè rotonde in lungo e non altramente; cosí Orazio vuole in una donna nel secondo de’ suoi Carmi, il quale non pare che in un bel fanciullo le rifiuti lá nell’Epodo ancora. Se cosí vi si vedranno, appariranno anzi molli, delicate, succose che no, e conseguentemente fieno belle e riguardevoli. Biasima, nel suo Moreto, Vergilio le gambe in Cibale, di cui è stato di sopra detto, sottili ed ossute, e poi la pianta ancora larga e spaziosa de’ piedi. Ai quali scendendo, voglio che nella donna nostra bianchi, come quelli di Tetide, si veggano, alla quale d’ariento gli dá Omero, e di neve Stazio per la eccessiva loro candidezza. Voglio, per ispedirmene in una parola, ch’ella tali gli abbia quali in Alcina commenda l’Ariosto, cioè brievi, asciutti e rotondetti. — Qui si rattenne e tacque il signor Giacomo, fine a un tratto e al suo ragionare ed alla donna esteriore imponendo. Ma, dubitando noi di qualche imperfezzione ed opposizione che le si potesse fare, incominciammo tutti a minutissimamente e diligentissimamente adocchiarla. E, mentre in ciò fummo occupati e spendemmo tempo assai, non potè far il signor Pietro che non usasse queste parole e, levato in piedi, non parlasse cosí: — Leggesí che Zeusi pittore, avendo dipinto Elena, come di sopra v’è stato detto, non stette ad aspettare il giudicio altrui, ma subito disse: — Non è cosa disconvenevole e vergognosa ai troiani, e manco ai greci, per [p. 257 modifica] simil donna soffrire mille e lunghissimi travagli, peroché chi con occhio discernevole guarderá lei, giudicheralla pur troppo degna d’essere paragonata con le eterne dèe. — Noi, s’io diritto giudico, possiamo con ragione usare qui l’ultime sue parole, e dire che questa donna nostra, tanto bella di fuori, si può agguagliare giustissimamente con le dèe. E con quali dèe poi? Veramente con quelle che, bellissime ed ignude, nel colle ideo Paride, felice pastore, ebbe a mirare; e, se di queste ancora a qual piú ella si rassomigli vorremo considerare, agevolmente troveremo ch’a lei, che lieta n’andò del pregio per cui arse e cadde Troia: io parlo di Venere bella. Se ben ora que’ due cotanto famosi ritratti di lei che fece Prassitele, nobilissimo scoltore, si trovasser al mondo, e quello massimamente ch’egli vendè agli abitatori di Gnido (il quale, per la sua somma e non mai abastanza lodata perfezzione, potè a sè trarre molti e molti peregrini vaghi di vederlo, e di sè accendere ed invaghire uno sì fattamente, che la notte si giacque seco), nondimeno chi di noi è che, amendui questi ritratti, pareggiati col nostro, non giudicasse di grandissima lunga restarnegli inferiori, ed essere veramente men belli e men vaghi? Chi di noi è, signori, che, s’egli si potesse vedere quel divinissimo di Venere, sorgente dal mare, il quale lo ingegnoso e grazioso Apelle con tanta arte fece, e che poi il divo Augusto dedicò nel tempio di Giulio Cesare, non tenesse per fermo lui rimaner vinto, e vincitore il nostro? Io son piú che sicuro che, se il medesimo Apelle avesse data perfezzione a quello che voleva a’ suoi compatriotti fare piú bello dell’antedetto, e di cui solo potè fornire politissimamente il capo e ’l petto (posto terrore a tutti i dipintori di quel tempo, sí che non fu pur uno ch’avesse avuto ardire di succedere a lui e fornirlo), non sarebbe riuscito in guisa tale, che potuto avesse degnamente porsi a fronte ed agguagliarsi col nostro? Ma vogliamolo, prima che ad altro si venga, vestire o no? — soggiunse poi. A cui l’eccellente dottore rispose: — Negare non si può che, come dice l’Ariosto, una beltá talora non accresca un bel manto; ma il piú delle volte se ne vede il contrario. E di qui è che il medesimo, parlando [p. 258 modifica] della bellissima e vaghissima Olimpia, disse e cantò questi leggiadrissimi versi:

          Ma nè si bella seta o sí fin oro
          mai fiorentini industri tesser fenno,
          nè chi ricama fece mai lavoro,
          postovi tempo, diligenza e senno,
          che potesse a costei parer decoro,
          se lo fèsse Minerva o ’l dio di Lenno.

Poi non abbiamo noi chiaro il parere anco di Plutarco, il qual dice: «Una donna ignuda bella è piú bella che di porpora vestita»? Senza che ci avisa, del suo Asino d’oro al secondo, Apuleio molte ritrovarsí che, per dimostrare il suo bello e per piacere piú ignude che coperte d’oro, si spoglian tutte le veste e la camicia ancora. Laonde mi ricorda d’aver letto che Frine meritrice, chiamata una fiata in giudizio e temendo di rea ventura, alzò le vestimenta suso e mostrò ignudo il corpo; per la bellezza del quale commossi, i giudici le diedero libera andata, e cosí rimase sciolta d’ogni intrico. Vedete che ciò che oprare non valsero le bellezze delle vesti, di che si può credere ch’ella, che era ricchissima, andasse superbamente adorna, oprarono quelle delle scoperte ed ignude mostrate carni. Né tacerò qui l’essempio di Candaulo altresi, il quale, come narra Giustino, avendo ad un suo amico, nomato Gige, ignuda mostrata la bellissima sua moglie, fu cagione che Gige, di lei innamorato ed agramente acceso, uccise lui, e lei tenne per sè insieme col regno: il che non avenne giamai finché egli la vide vestita. Il perché, a conchiudere, io direi che, se le Signorie Vostre facessero per mio consiglio, Elleno non deverebbono in modo niuno cercare di vestire questo ritratto di leggiadra donna, avendo io cosí chiaramente fatto lor vedere ch’una donna bella, quale è questa, ch’è piú che bella, è piú bella assai ignuda che di vestimenti ornata d’ogni intorno. — Oh! — disse, motteggiando, il signor Vinciguerra — se non si veste, non morrá ella di freddo per questo tempo cosí fiero? — Mai no, ché giá ancor non è nata — rispose l’eccellente dottore. — Adunque — soggiunse l’altro [p. 259 modifica] s’ella non è ancor nata, vestiremola ancor noi di vestiti ancor non fatti. — Deh! lasciate questi sillogismi per ora, che vi tirerebbono di palo (come dice il proverbio) in pertica — disse loro il signor Giacomo; e segui poi oltre col parlare: — Appigliandoci al parere del signor dottore, e non vestendo delle sue ricche veste noi questa donna altramente, non le vogliamo (cose che pure le gran gentildonne usano di fare tuttodí, e delle picciole ancora) concedere le sue acque rose, le sue acque nanfe, il suo muschio, il zibetto, l’ambracane, il moscato e simiglianti cose a donne appartenenti? — Concediate queste delicate misture, si! — gli rispose il cognato, cosí mezo salito in isdegno ed ira; e poco appresso, pacificato nel viso, soggiunse: — O che voi dite questo dadovero, signor Giacomo, o che scherzate per tentarci. Se dite dadovero, vi si risponderá che risolutamente simili cose non sono dicevoli alla vostra augustissima e bellissima, in perfezzione, madonna. Perché, s’ella è sommamente bella, a che queste acque? E questo muschio ed ambracane, che le volete dare, perché gliele volete dar voi? Esce forse da lei qualche lezzo caprino? Pute ella forse ed ammorba la contrada d’attorno? Maledetto colui che di tali e simili cose fu inventore! Egli n’è stato principale e sola cagione de’ nostri danni. Ma come, andate a vedere il Petrarca nel Dialogo, ch’egli fa, del buono odore, e ne rimarrete chiaro, e troverete ancora di quello che nuovo vi parrá forse per entro. Signor Giacomo, egli non mi piace insomma che questa donna abbia e rechi seco si fatte bazzicature, e massime non facendo di bisogno in lei, tutta pura e tutta bella. Ora, se ’l vostro parlare è stato per motteggiare, io lo lodo e commendo assai, perché cosí cercate di farci un poco ridere e passar tempo anzi che no. Ma, se pure volevate vedere questo in noi, perché non dicevate piú tosto che buono sarebbe suto di darle un poco di fattibello, che noi diciamo, o di liscio o belletto, come dicono per altri luoghi d’Italia, e di quel rosso e bianco della signora, come dice l’Ariosto, del signor Chinaccia? — Io mi meraviglio piú che mezanamente — rispose il signor Ladislao — a queste parole: e perché voi, signor Pietro, non acconsentite di [p. 260 modifica] dare le sue acque a questa donna, e perché ci avete addutto in mezo certe vostre ragioni, poco lodevoli nel vero. Deh! ditemi per cortesia: credete voi di trovarne pur una, e parlo pure delle belle, che non abbia almeno qualche sorte di odorifere acque, con le quali si bagni il delicato ed amoroso suo viso? Io, per me, non giudico che ve ne sia una. Adunque, se non ve n’è una, l’usanza è contra la vostra prima ragione ch’avete usato perché non sia concessa acqua niuna delicata a questa donna: e volete voi disfare questa usanza? Poi ci avete detto che le interdite l’antedette misture perciò ch’ella non è puzzolente e non si mostra d’essere tale che n’abbia bisogno. Oh! signor Pietro, egli mi pare ch’avete un gran torto, peroché gioveni vaghi e donne innamorate, che si dilettano di portare addosso i suoi zibetti ed ambracani, non gli portano perché essi sieno quel mezo per lo quale a loro sia tolto il puzzo, di che elle non vanno punto ingombrale, ma gli portano sí per vaghezza e perché eglino sono una buona cosa. Laonde io vi consiglierei a non tôrre queste cose alla donna nostra, la quale, se vi vedrá cosí duro ed ostinato in volerle negare ciò che sommamente le piace, tenete certo ch’essa vi avrá quell’odio, che veggiamo che si suole avere alle serpi e alla veritá nelle corti. Oh, come — soggiunse poi — è vero che al compagno sovente quello si niega che non aremmo in piacere ch’egli a noi negasse giamai! — A ciò fattosi bello, quasi animoso sparviere che levar vegga o anitra o colomba, il signor Pietro rispose: — S’io non persuado alle Signorie Vostre che a questa donna ed odorate acque e zibetti non si convengono in modo niuno, veramente io non so qual cosa, ch’io mai potrò a quelle persuadere alla mia vita. E poi, rivolto al signor Ladislao, disse: — Se le mie ragioni infin ora usate non vi paiono pesate e degne di essere ammesse, non giudicate altramente delle vostre in contrario mandate fuori pur ora. Chè, dove dite ch’io non debbo disfare l’usanza, commune di tutte le belle, di bagnarsi il volto con odorate acque, e tacete perché, voi mi avete fatto ridere un poco; perché nel vero il parlar senza ragione non piace a persona di mente sana. E, se vorrá l’eccellente dottore dir il vero, egli ci dirá che i [p. 261 modifica] suoi giureconsulti e dottori ancora usano di dire ch’eglino si vergognano quando, senza la legge in mano, si ritrovano a parlare in qualche luogo. Ma voi mi direte che l’usanza è buona; ed io dirò a voi ch’ella è cattiva. Ditemi un poco: queste donne, che costumano di cosí usar queste acque, a che fine costumano di usarle? Pur per divenire piú belle e riguardevoli. Adunque, se per ciò l’usano, non andrá la conseguenza e la conclusione ch’esse non si contentano della faccia che Dio ha dato loro? Il che quanto sia a lui discaro ed iniquamente fatto, ogni sano intelletto agevolmente ne può trar giudicio chiaro. Ma di ciò parleremo diman da sera a sofficienza, quando del belletto si ragionerá, ché ne vogliamo pur alquanto ragionar tra noi. Ora io vengo alla seconda vostra ragione. Voi mi dite che questi giovani galanti e queste donne leggiadre, non per discacciare il puzzo, che non è in loro, ma per piacere altrui e perché sono buoni, usano di andare profumati e profumate deliziosamente. Io rispondo che voglio concedere che ve n’aggia di quelli e di quelle, che, non per piacere altrui, usano di portare i zibetti ed i muschi addosso, con patto che voi concediate a me ancora non esser poca quella parte che si sforzano con questa via di coprire molti difetti loro. Il che Marziale ed il Petrarca vollono che fosse cosí. Ma presupponiamo che non sia cosí. Sará però ben fatto che per altrui piacere gli usino? Veramente no, perché destano in molti il concupiscibile appetito; e, se non me lo credete, credetelo al Petrarca nell’allegato poco dianzi Dialogo. E di qua è che messer Ortensio Lando nel Sermone funebre, ch’egli fa fare a monna Tessa da Prato, nella morte di un suo gallo, disse cosí: «Io credo fermamente che se ’l Gran turco sapesse questo segreto, non usarebbe il muschio sciloppato, sí come usa, quando va alla giostra nel serraglio». Egli parla della giostra amorosa in quel luogo. Quanto a quello che mi dite, che questi zibetti sono cosa buona, io credo di aver giá risposto: ma pure io non mi rimarrò di dire che son cosa mala piú tosto. E udite, se non vi spiace, quello che, per a voi provarlo, sono per dire alla presenza vostra e di questi altri gentiluomini, che, la loro mercè, volentieri m’ascoltano. Io trovo che un Planzio, gentiluomo [p. 262 modifica] romano, veggendosi in gran periglio della morte, per paura di lei s’ascose assai bene in non so che luogo. Ma che avenne? A venne che, essendo diligentemente cercato di lui, e non si trovando al mondo, il muschio lo venne a scoprire, del quale egli era tutto pieno, e d’intorno si sentiva l’odore, che, sentito e venuto al naso di quei che lo cercavano, fu cagione ch’egli fu miseramente morto. Io trovo altresí che, stando alla presenza di Vespasiano imperatore un giovane tutto profumato, per ringraziarlo d’una preminenza che gli avea conceduta, subito che Vespasiano senti l’odore, sdegnoso, con terribile ciglio ed aspra voce gli disse: — Io avrei voluto piú tosto che al naso tu mi avessi mandato un puzzo d’aglio. — E cosí, avendolo molto bene ripreso senza onore (ché le lettere della giá conceduta grazia volle che fossero lacerate), licenziollo col suo moscato e col suo ambracane. Ora giudicate voi se a questi effetti, procedenti dagli antedetti zibetti, essi denno essere nomati buoni, o pure (il che ha piú vero) cattivi. Giudicolli cattivi la valorosa ed inclita cittá di Roma, quando l’anno della sua edificazione cinquecento e sessantacinque fece un editto: che in lei niuno recasse peregrini odori. Cosí fusse egli durato infin ora! Ma le sceleraggini e vizi de’ posteri non lo permisero, peroché, com’è uso de’ moderni di rompere i decreti degli antiqui, il ruppero e l’annullaron del tutto. E cosí ella, che gli arabi, gli assiri ed i sabei aveva con le sue arme domati e vinti, fu dai loro zibetti ed odori domata e vinta, ed in tanto, che infino nei conviti usava questi, e infino nel bere e negli spettacoli. Giudicolli tristi la cittá di Sparta, quasi un’altra Roma de’ greci, quando a questa peste, dall’Asia vegnente, come ad armata schiera di nemici, con fieri e severi costumi ed editti si fece incontro. Ma poco le valse, percioché in ultimo la molle e delicata squadra e degli odori e delle sceleratezze ingannò e corruppe le guardie, e, passando nell’Europa, soggiogolla e vinsela. Che dirò poi d’Annibale? Questo cosí fiero nemico del popolo romano, capitano tant’aspro, faticoso e duro, rimase vinto col suo prode e valentissimo essercito in sul mezo delle guerre. Tal ch’io mi credo che ben mille volte maladisse e bestemmiò gli odori, onde molle e delicato egli e suoi soldati a un tratto [p. 263 modifica] divennero. Ma che mi voglio piú andare aggirando negli essempi? Per li quali può apparir piú chiaro che ’l sole di meriggiana, che questi odori, zibetti e moscati sono cattivi anzi che buoni, se dagli effetti una cosa si dee giudicare e conoscere quale ella sia, o buona o mala. — Quivi tacque il signor Pietro, aspettando d’udire ciò che, all’incontro, gli dicesse l’aversario. Il quale, come se dal sonno si fosse desto ed isvegliato allora allora, levossi e riparlò in tal maniera: — Voi, signor Pietro, quel tanto, che per voi faceva e che a proposito vostro essere conoscevate, ci avete leggiadramente qui in mezo recato: ma certo non l’avete ancora vinta. Peroché so ben io che di queste misture e di questi zibetti gli effetti non sono sempre tristi, ma buoni alle volte, e forse il piú. E, perché non mi possiate tassare qui, come piú su, nella ragione ch’io tacqui, io voglio essere contento di addurre un essempio, e forse un paio, secondo che usate voi bene spesso di fare ragionando. Leggesi ch’un certo barcaruolo, chiamato Faone, era nell’arte sua tanto giusto, che mai non averebbe egli giuntato niuno; e si mostrava sí fatto che da persona che non potesse pagarlo non pigliava mai pagamento. Ora a venne che in Lesbo, ove essercitava sua arte, nacque de’ suoi costumi non poca ammirazione e, lodandolo tutti, anco Venere, loro iddio (che cosí la chiamano), lodollo e commendollo sommamente. Indi a poco se gli appresentò in forma di vecchia, chiedendo che la volesse in su l’altra riviera traghittarla. Faone, senza altro, la fece in sua barca salire, e poi, usando suo officio, al destinato luogo la condusse, ove non volle mercè nè paga veruna. Ma che operò per lui poscia Venere? Operò questo: che, dandogli in dono un vasetto di soavissimo moscato, lo fece, di vecchiarello ch’egli era, divenire subito il piú bel giovine che mai si trovasse in Lesbo o forse in tutto il mondo. Che dite qui — soggiunse poi — signor Pietro, non fu meraviglioso questo effetto di questo moscato? Non fu egli buono a fare che un uomo, che putiva di cimiterio, tornasse nella piú fiorita etá, e poi sí bello quale mai a’ suoi giorni non fu? — Oh! — rispose il signor Pietro — voi sareste bene di grossa pasta formato ed avreste anzi del grossolano che no, se voi ciò credeste. E, se pure volete credere [p. 264 modifica] questo miracolo, attribuite una si maravigliosa possanza a Venere, e non al moscato; il che ha piú del verisimile assai e piú sta al martello. Ma seguite, se avete altro che dire, ch’io mi credo che no. — Guardate pure che non sia che sí, — disse qui l’altro. E seguitò: — Non abbiamo noi nel Vangelo che chi per noi volle in su la croce star pendente e morire, acconsentí che di odorate e preziosissime moscate, acque ed unzioni li fossero i santissimi piedi lavati ed unti? Il che non averebbe mai sofferto il gran Figliuolo di Dio, se buono effetto da loro non avesse aspettato, overo non avesse avuto caro e sommamente lodato come buone quell’acque e quell’unguento. — Deh, tacete in cortesia! — rispose il signor Pietro. E poi n’andò dietro dicendo: — Io vi dico che altro effetto non venne da loro, e che buone non furono; e patí Giesú questo, non perché n’aspettasse alcun bene, no, e meno perché ei fosse (come tutti si può credere essere che l’usano) molle, delicato ed amico delle delizie, ma si bene perché gli piacque la pietá e le lagrime di lei, che gliele offerse. Ma, da che pur la volete con meco, signor Ladislao, e non volete perdendo cedere, togliete questo per ultimo essempio, che vi potrá forse ridurre al voler mio, dove gli altri, non oprando nulla, ch’io vegga, in voi, sono stati vanamente per voi recitati da me. Si scrive che Domenico Silvio, doge XXXI, secondo il Sabellico, o pur XXX, secondo altrui, della cittá miracolosa di Vinegia, ebbe per moglie una costantinopolitana, la quale, disprezzando l’acqua commune, costumava di lavarsi colla rugiada, e, non volendo i cibi toccar con mano, gli toccava coi dorati pironi. La camera poi, dove usava di posare, oliva tanto eccessivamente d’odori soavi, che di qualunque v’entrava i sensi rimanevano vinti e perduti. Ma che fece la intera giustizia di Colui che regge l’universo e ’l tutto scopre? Fece che alla fine questa sí fatta amica degli odorati zibetti e moscate acque, le quali pur voi volete concedere alla donna nostra, contro il debito e la ragione, infermò di sozzissima e lordissima infermitá, della quale si morí finalmente in grandissima miseria. Non vi piaccia adunque, signor Ladislao, piú la vostra opinione infin ora tenuta, e sappiate stasera che questi odori e queste acque, non [p. 265 modifica] solamente disconvengono a noi, ma disconvengono ancora alle donne che dell’onestá propria hanno qualche cura, come voglio io che la nostra abbia continuamente e da lei mai non si parta E perché mi potreste pur dire, che sono alcuni sí fatti odori, che conferiscono alla salute assai, e però si deono porre addosso, io vi rispondo, che se per riavere la salute questo si fa e non per vanagloria e per piacere, ognuno è iscusato, pure ch’egli non trapassi la linea della mediocritá, condimento di tutte le cose. — Fermatosi poi alquanto il signor Pietro, seguí poi con questa esclamazione: — Oh! chi potrebbe a bastanza, e quanto si dovria, mai biasimare quello ch’io ora biasmo, e biasmerò quanto si stenderá la mia vita? Chi di sano intelletto (e questo sia una aggiunta alle cose antedette) loderebbe uno o una che sia vaga di tai cose, le quali sendo in esso lei, altri ne venisse ad avere qualche piacere, ed essa ne rimanesse digiuna e senza? Veramente qualunque donna o uomo ha seco gli odori e l’acque ch’io sprezzo, egli è a simile condizione, perché, ritrovandosi quelli e questi in lui, esso, che non sente nulla di quella soave ôra, non gode nulla, ma solamente gli altri di fuori, e a pieno poi, s’aviene ch’ella sia perfetta in boniade; la quale si conosce, qualora essa ha potere di volgere ed invitare a sè le persone, ancora che ad altro sieno intente e rivolte con l’animo. Ma io mi voglio spedire oggimai; e da che hanno inteso le Signorie Vostre come disdirebbono gli odori e l’acque odorate alla singolarissima donna nostra, e chente sarebbe questo errore, ora non mi piace di tacere che, essendo sí fatte cose per natura dilettevoli e dolci, non si dee cosí l’odorare quelle, come recarle addosso, interdire e vietare a niuno. Vi si seguirá adunque il parere del buono Agostino, il quale, degli attrattivi odori parlando, dice: «Di questi io non mi curo: quando mi sono lontani, io non li vo a cercare, e, quando mi sono vicini, io non gli rifiuto, essendo mai sempre apparecchiato di mancar di loro e vivere senza essi la vita mia». — Cosí conchiuso dal signor Pietro, e buona pezza quasi trapassata di tempo senza altro dire, l’eccellente dottore ruppe il silenzio. E, come veggiamo talora far la peregrina gru, che camina un [p. 266 modifica] poco prima, e poi si leva a volo, cosí in voce sommessa, aumentandola pian piano, si mise a favellare. — Hacci il signor Pietro con la sua dolcissima favella (simile tutta a quella di lei, che sí cara mi è, che piú lungi non veggo, nè veder bramo) persuaso, come ci disse al principio del suo ragionare, che nella donna nostra non si deono trovare nè zibetti nè acque muschiate: ora ci persuaderá egli forse anco questo, che in lei non convengano le rose, i fiori, le viole e qualche bello ed amoroso pomo? — Non ’l voglia il cielo, nol voglia la fortuna, nol voglia il mondo! Gli odori di questi non sono da essere in modo alcuno ripresí come gli antedetti, e nel vero non mi soviene d’aver letto mai che nelle donne morbide e garzone, e meno nei giovani leggiadri ed amorosi, ad uomo alcuno dispiacessero in veruna stagione. Vergilio, in una sua bella elegia, comanda alle verginelle che colgano delle rose, come quelle che bene si convengono con loro. Induce Ovidio Proserpina, nel quinto delle sue Trasformazioni, insieme con le sue eguali compagne, intendere a rose circa il fresco, verde e tutto fiorito lago, nomato Pergusa. Induce Salmace altresi a côrre fioretti, nel quarto, e darsi quel piacere. Induce il Sannazaro Amaranta, e delle altre assai, spogliare l’onore de’ prati, e cosí empirsi il seno di fiori e violette. E, parlando poi egli, quasi disperato, alla sua diva, che l’avea solo abbandonato, ed erasi via fuggita, sdegnosa e con turbato viso, dice cosí: «Seiti dimenticata de’ primi gigli e delle prime rose, le quali io sempre dalle cercate campagne ti portava?». Il Petrarca scrive in quel sonetto «Due rose fresche» che a Laura ed a lui, giovane ancora, furono certe rose donate da un uomo antico d’anni e consapevole de’ loro amori. Scrive in quella canzone «Chiare, fresche e dolci acque» il medesimo: che l’antedetta Laura fu un giorno (e forse venerdí santo) tutta coperta da una pioggia di fiori, scendenti da certi bei rami, al tronco de’ quali, come a colonna stavasi appoggiata ella, forse stanchetta alquanto per lo camino che aveva fatto. Vedete il sonetto «Amor ed io sí pien di meraviglia». Per li quali tutti luoghi vedendosi apertissimaniente che alla giovanezza, e massime a quella delle belle donne, [p. 267 modifica] si conviene l’andar adorna il capo di fiori, e cosí dipingerlo come talvolta d’occhi veggiamo la coda del pavone dipinta, io non mi meraviglio se la dea delle bellezze, Venere, ed il suo fanciullino, andando un giorno per diportarsi in certe campagne fiorite, come si legge, isfidaronsi l’un l’altro a côrre fioretti e rose a gara. Io non mi meraviglio se la medesima Venere (come Libanio, sofista greco, presso il Poliziano, è buon testimonio) volle, avendo a contendere della bellezza con Pallade e con Giunone sotto il giudicio di Paride, ornarsi di rose bene olenti, e colorirne le tempie e l’auricome capo suo intorno intorno. Io non mi meraviglio se Catullo e l’Ariosto dissero che le innamorate giovani e vaghi garzoni le amano, e massime tolte di su la spina allora allora. Queste rose e fiori e viole, oltra che fanno coloro, che l’hanno, piú riguardevoli (come appare per l’essempio di sopra addutto di Venere, che se ne volse adornare l’aurea sua testa), ricreano gli spiriti ancora, e gli vengono a confortare non poco, come si vede tuttodí. E, se il signor Pietro — volgendosi a noi l’eccellente dottore — poi non vorrá — disse — che per ornamento questa donna, come lei che poco n’abbia bisogno, rechi in testa o nel candido seno queste rose, fate voi ch’egli si contenti almeno ch’ella perciò le abbia seco e ne le porti, ché esse sono buone, e non cattive come gli odori, che ’l signor Ladislao contra lui tenne che fossero buoni, a gran torto, s’egli mi perdoni, e mi tenga nella sua grazia. Fate voi, signor Giacomo, che se ne contenti per quella bella e fresca alba, che vi dá luce ognora, e vi reca cosí dolci e cosí soavi giorni, dipinta il viso del rosseggiante sangue di Venere. — Come «del rosseggiante sangue di Venere»?— disse a lui qui il signor Giacomo. — Oh! — rispose l’eccellente dottore — s’io avessi congiunta «rosa» con «alba», voi mi avereste forse inteso; ma udite perché qui vi ho detto che la vostra signora Albarosa. dove tutti i pensieri vostri terminano, ha le guance colorite e sanguigne. Leggesí che Venere, di cui abbiamo ragionato di sopra, amava il bello Adone, e Marte lei. Ora avenne che Marte, ingelosito, deliberò d’uccidere Adone, cosí pensando che l’amore, il quale Venere grande li portava contra il suo volere, avesse a cessare. Trovata adunque [p. 268 modifica] bella occasione e scopertosi un bell’agio, egli ferí Adone ed ucciselo. E, correndo Venere per dargli aita, cosí frettolosa, venne a cadere in un cespuglio di spini fioriti, e, foratosi l’un de’ piedi, col sangue che d’indi usciva fece che la rosa divenne colorita; e cosí, dove in prima era candida, cangiossi in purpurea e vermiglia. Concedendo adunque (come ben si conviene) queste rose, fiori e viole, delle quali i giardini di Pesto vanno cosí spesso ornati, alla donna nostra, non le concederemo ancora una delle tre palle d’oro d’Atalanta? Un pomo, dico, quale fu quello, onde beffata rimase Cidippe? E quali erano quelli degli orti delle Esperidi? E quelli del fortunato e felice re Alcinoo? E quello finalmente, che pose gara tra le dive, delle quali abbiamo piú suso ragionato a sofficienza? Sí, le concederemo in ogni modo: e perché sono di odore convenevole, e perché non sono rea cosa i pomi, de’ quali alcuna gente vive, e alcuna del solo odore. Il che è pur miracoloso ad udire; ma noi n’abbiamo il Petrarca nel sonetto «Sí come eterna vita è veder Dio», e nella canzone «Ben mi credea passar», e nel Dialogo, di sopra allegato, del buono e soave odore; noi abbiamo Plinio al secondo capitolo del settimo libro della sua Naturale istoria; n’abbiamo Solino, e gli altri, che ciò si confermano per vero. L’istoria è tale: che lá sul Gange, in India, sono certi popoli, nomati «astomi», senza bocca, pelosi per tutto il corpo e vestiti di non so che, che in su le frondi degli alberi truovano in quelle parti. Questi, senza altro mangiare (il che non potrebbono, s’eglino ben volessero) si nutriscono del solo odore, che spirano certi pomi che seco portano. Quando sono per ire in peregrinaggio, nulla recano con seco salvo che gli antedetti pomi vitali; e sono cosí impazienti del fetore e del puzzo, che, sí come il puro odore gli nutrisce, cosí il tristo gli ammazza. Questo mi è piaciuto di dire alla presenza vostra — soggiunse poi — e per dimostrare che buoni sono i pomi (il che io averei potuto a mille altre fogge mostrarvi) e perché io qui scoprissi l’errore d’alcuni, e massime del Bonfadio, lá in quella epistola che nel secondo delle Volgari di vari autori accolti scrive a messer Plinio Tomasello. Egli dice insomma, che, se alcuni hanno detto che in certa parte del mondo sono [p. 269 modifica] animali che vivono d’odore, hanno detto ciò intendendo che ivi gli uomini per tal cagione, oltra che vivono piú tempo, vivono ancora piú lieti e sani, ché questa tale è veramente vita. Questo è falsissimo, perché è cosa certa, come gli autori piú su citati mi mostrano, che questi popoli non hanno bocca, e, non avendo bocca, bisogna credere che vivano díodore veramente, e non piú tempo e piú lieti e sani. — Aveva avuto fine il ragionare dell’eccellente dottore, quando il signor Pietro, voltosi a lui umanissimamente, gli disse: — E’ mi pare che Vostra Eccellenza abbia avuto dubbio, in tutto il parlar suo, ch’io non scendessi ad esserle conforme in concedere queste rose, fiori, viole e gigli, insieme con qualche vago ed aurato pomo, alla donna; e però n’è ricorsa ad aita a questi gentiluomini, come s’è veduto. Io, per discoprirvi il secreto dell’animo mio, signor dottore, quell’istesso sento che n’avete sentito voi, e, se in qualche particella discordo, che meraviglia n’è? Quanti sono gli uomini, tanti sono i pareri. — Oh! io lo veggo che voi volete con queste vostre moine trovare una certa via e modo, che io non vi abbia a ribattere quanto siete per dire contra me; ma incominciate, ch’io non ve la perdono, no, — rispose l’eccellente dottore. — A cui il signor Pietro: — La picciola discordanza, ch’io tengo con voi, è ch’io ho per fermo che questi odori ancora, che voi ci avete detto essere ricreativi e nutritivi e buoni affatto e convenire alla donna, ponno cagionare poco bene alle volte. — E come? — dissegli il signor dottore. — Perché — rispose il signor Pietro — io truovo che i giardini ameni sono come zolfanelli, e mezani di farci divenire incontinenti e lascivi. Né senza cagione è che ’l grande oratore Cicerone, mentre che gittava in occhio l’adulterio al reo suo nemico, volle descrivere gli ameni luoghi, dove fosse suto commesso ciò, come stimoli e sproni al peccare. Quel, che fece Tiberio imperatore e cesare, luogo tanto delizioso ed ameno, dove egli per diporto usava di gire, io mi credo che pur uno non vi sia che noi sappia. E, per venire al punto, come ciò si potrebbono indurre ad operare queste sí vaghe chiostre, se non vi intervenissero gli odori delle rose, de’ fioretti, de’ gigli, e violette, che commendate in questa donna? — Veramente [p. 270 modifica] voi mi tentate con tai parole — rispose qui l’eccellente, e disse poi: — Io vi rispondo che, se l’animo nostro fie ben disposto, egli non si lascerá mai vincere da luoghi sí fatti, anzi in noi si vedranno effetti contrari alla lascivia in tutto. E di qui è che alcuni, per avere un animo che tali luoghi ha saputo usare, sono levati alla contemplazione delle cose celesti, e si sono dati alla penitenza, come al sonetto «Gloriosa colonna» e al Dialogo de’ giardini ci manifesta il Petrarca. Ma ditemi: non volete voi che alla donna, giá perfetta esteriormente, concediamo un animo, una volontá pura ed una creanza divinissima? — Sí bene — rispose il signor Pietro. — Adunque non dubitate — soggiunse l’eccellente — che le rose ed i fioretti abbiano a destare in lei men che buoni pensieri giamai. Non dubitate di veruno avenimento sconcio e strano. — Voglia Iddio che cosí sia! Ma pure non so che non mi lascia ben risoluto e sicuro ancora — disse il signor Pietro. — Io ho detto il vero e ne potete bene star sicuro — replicògli l’eccellente. In ultimo il signor Giacomo, veggendo questi da un lato garrire e dall’altro gli altri due, de’ quali uno voleva udire del belletto, e l’altro, ma troppo prestamente, del giudicio delle donne, delle quali si deveva quella giudicar piú bella, che piú s’appressasse alle bellezze sovrane, di che avevamo formata e perfetta la donna esteriore, cosí disse: — E’ mi pare, signori, che l’ora oggimai sia giunta di lasciare i litigi, le dispute ed i ragionamenti nostri. Il perché voi sarete contenti di porre fine per amor mio. Diman da sera, avendoci a formare la donna interiore, piú vi dimoreremo; e non si mancherá di parlare del belletto, e meno del giudicio, che si ha a fare delle donne nostre, in su la fine. — Qui tacque; e tutti allora, doppo l’averci gli stanchi spiriti con un poco di finissimo e dolcissimo vino (di che erano piene le vòlte del signor Giacomo) ricreati a bastanza, come la sera dianzi fatto avevamo, nelle nostre camere per dormire ci rinchiudemmo.