Il bel paese (1876)/Serata XVI. - Le Salse
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SERATA XVI
Le Salse.
Una giornata di pioggia, 1. — L’ambasciata di Giovannino, 2. — I poveri brumisti, 3. — Nei dintorni di Modena, 4. — Le salse di Nirano, 5. — L’anfiteatro, 6. — I coni, 7. — Il laghetto bollente, 8. — Il gas infiammabile, 9. — Il gigante de’ pigmei, 10. — Gasometro improvvisato, 11. — Diverse origini del gas infiammabile, 12. — Suo sviluppo nelle miniere di carbon fossile, 13. — L’uomo del fuoco, 14. Visita alle carboniere di Dudley, 15. — Una lezioncina sul metamorfismo, 16. — L’accensione del gas, 17. — Il gas delle salse non è d’origine organica, 18. — Lento lavoro, e grande effetto, 19. — Le salse come barometro, 20.
1. Piove che Dio la manda.... Che brutto giovedì! Proprio di quell’acqua che vien giù senza misericordia, senza respiro, come non avesse piovuto mai, nè dovesse mai spiovere. È un’acqua di quelle che giungono portate dai scirocchi umidi, caldi, pesanti, i quali cominciano a farsi sentire sulla fine del febbrajo, e spirano, se occorre, i quindici, i venti giorni, tenendo sospesa sulle nostre pianure, e appiccicata tenacemente alle Alpi, una massa di nubi, o piuttosto una sola nube, uniforme, senza confini, inzuppata come una spugna levata dal secchio, uggiosa come un cataplasma applicato agli occhi. È pur l’orribile cosa una giornata di pioggia a Milano! Quando l’afa estiva, che gravita sulla città, sembra volerla rosolare sotto il testo, allora è un gran ristoro la pioggia; e se la cade a scroscio, in mezzo ai lampi e ai tuoni, tanto più volentieri uno ci diguazza. Ma d’inverno!... Come è brutta la pioggia d’inverno, sempre e dappertutto, al monte e al piano, sui gioghi e nelle valli! Le sponde fiorite dei laghi, i giardini incantati, il sorriso dei colli, gli argentei errori dei ruscelli, le molli ale degli zefiri, le rose della primavera, le bionde spighe dell’estate, i giocondi pampini dell’autunno, tutto, a pensarci pare un delirio d’infermo, che dia le volte sopra un letto di spine. In città poi!... oh in città!... si vede.... Ma che si vede, se appunto non si vede niente? Chi stà rinchiuso nella propria casa, non si affaccia nemmeno alla finestra per guardare. Le vie sono deserte, nè si sente che lo scroscio della pioggia, monotono e increscioso come il ronzio di una postema nell’orecchio, e interrotto a volte a volte soltanto dal rumore dei cocchi. I più loquaci diventano taciturni senza saperlo; i più allegri, melanconici, i più miti intrattabili senza volerlo. In ogni animo, mortale la noja; su ogni bocca perenne lo sbadiglio. Solo, per distrarsi, gli abitatori delle soffitte e degli abbaini, fortunati sempre ad un modo, hanno le gocce che filtrando dai tegoli mal commessi, chete, furtive, scendono a continuare un disegno senza nome, quale lento lento si avanza sulla tela che nasconde i magri travicelli.
Nelle stanze a terreno, sulle pareti, è una vera fantasmagoria di figuracce, che nei tempi secchi si contornano di certe auréole saline, e ora sembrano animarsi, vestono colori più intensi, forme più spiccate, e, fatte vive, sudano e gemono che la è una vera tristezza.
Chi esce, cacciato fuor di casa dalla pura necessità, tiene gli occhi bassi, solo inteso a schivare le pozze. Che se li alza, si trova davanti o la lurida vista di enormi panziere che si incollano a femminili talloni, o il dorso d’un uomo frettoloso, i cui tacchi con moto alterno sollevano una tempesta di zacchere, che dal lembo dell’abito gli salgono sempre più rade ma più petulanti fin sulle spalle, fino alla nuca.
Se si vuol vedere qualche cosa di bello non c’è che tenere il capo basso e guardare il selciato. Il selciato!... Sì, il selciato di Milano.... così bello, così vario, così bizzarro, che, a cercarlo, non se ne troverebbe un altro simile in tutto il mondo. E pensare che egli è tutto un musaico di pietre pellegrine, le quali, misurando prima lentamente per secoli e secoli la lunga via, portate sul dorso degli antichi ghiacciai1, quindi ruzzolate dagli antichi torrenti, giunsero quaggiù dalle vette delle Alpi, chi sa quanti se coli prima che sorgessero le favolose mura della nostra città
Sulle populee rive e sul bel piano |
E questo musaico, che il bel tempo ricopre di una tinta uniforme, sudicia e polverosa, ogni acqua che piova dal cielo, lo ripulisce, lo mette a nuovo che è una bellezza. Ecco i graniti3, talora bigi, talora rosei, rossigni o verdicci, misti alle dioriti4 a chiazze di anfibolo verdecupo5, che si staccano dal fondo bianco di feldspato6. Oh! come quelle rocce imitano per bene i vaghi mantelli del tigre, del leopardo, dello zebro, e la marmorea vernice delle cipree!7. Rare, ma più attraenti, spiccano le ofiti8, ove i cristalli di bianco feldspato si disegnano tagliuzzati a mo’ di pistacchi in una pasta nera di pan pepato. Sparsi dimenticati, calpestati tu ci vedi i quarzi9 più variopinti, le agate più sfumate. I serpentini10, di colore o verdebruno o verdeporro, morbidamente marezzati, si trovano accanto alle arenarie11 rosse, e ai calcari, schegge arrotondate di marmi schietti o variegati. E a sì grandioso musaico fanno ricca cornice i robusti lastroni di Montorfano12 di cui la pioggia mette a nudo il fondo bianco di feldspato e di quarzo, picchiettato di mica13 nera luccicante, la cui uniformità è quà e là rotta da pezzi di rocce bigie o nere che vi ha incastonati natura. Ma chi bada a codeste inezie? Il geologo.... Gli è un pazzo da legare, se con quest’acqua che gli diluvia sul dorso, ha tempo e voglia di badare al selciato. Piove che Dio la manda! Ecco quello che dicono tutti, e tacendo e parlando.
2. Imaginatevi s’io voleva muovermi senza una vera necessità! D’altra parte potevo pensare che le mamme avessero così poco giudizio da sfidare il malanno per una chiacchierata? Nè stavolta m’ingannai. Il tempo era così brutto che a nessuno resse l’animo di moversi. Il peggio si è che il cielo non volle rasserenarsi per tutta la settimana, e salvo qualche occhiata al tramonto, a mo’ di chi guarda dalla finestra prima di cacciarsi a letto e spegnere il lume, il sole non mise mai fuori il faccione.
Venne il secondo giovedì, e lungi dal cessare sembrava che la pioggia facesse le prove per un’altra buona settimana, imponendo un’altra tregua alle nostre serate. Io m’era già dunque incantucciato e incappucciato, e stavo leggicchiando non so che cosa al lume della lucerna, sepolta sotto un gran cappellone di cartone. Quand’ecco uno squillo all’uscio, e dopo breve intervallo, una leggera andatura.... È Giovannino.
«Come? tu quì?».
«Siamo là tutti che ti aspettiamo».
«Con questo diascolo di pioggia!... Ma non sei bagnato? Dov’hai lasciato l’ombrello?».
«La zia ha mandato a prendere un brum14 e mi ha detto che ti venissi a pregare....».
«Ah! capisco, capisco.... birboni!... Lascia ch’io mi vesta.... Eccomi!... Il cappello?... Eccolo quà. I guanti credo che ci saranno.... va bene! Ah! dimenticavo gli occhiali.... e ci vuol anche la tabacchiera, n’è vero? Andiamo.... Abbi pazienza; vo a pigliar la pezzuola. Eccomi, finalmente.... Aspetta che io dica alla Teresa, se viene un certo tale....». E Giovannino impaziente e paziente ad un tempo, mi pedinava, descrivendo tutti i miei mille zig zag. Scendiamo le scale, si monta in carrozza, e via.
3. Ecco, dicevo fra me; — che importano il freddo, la neve, il vento, la pioggia? A Milano, c’è tutti i comodi. Basta che uno se li voglia pigliare. Quando non si ha carrozza di suo, si manda a prendere un brum.... Ma, adagio.... si manda a predere un brum.... Per novantanove centesimi della popolazione il brum è un lusso tale, da non se lo permettere che nelle grandi occasioni. Il vento, la pioggia, sono certamente incomodi; eppure tanti zoppi, o sciancati, tanti che hanno i piè ciocchi15 o soffrono d’asma, di reumi, di gotta, tanti vecchi cadenti, tante vecchierelle tremolanti, preferiscono sfidarli, anzichè cavare una lira dal borsellino per procurarsi un conforto che è una vera necessità. Tanti una lira non l’hanno; e tanti ne hanno, ma così contate, che una lira con cui pagasi un brum, se la troverebbero mancare più tardi. Una corserella in brum, è, su per giù, un quinto della giornata di un giudice, un quarto di quella di un maestro di scuola, un terzo di quella di uno scrivano, una metà, e fors’anco i tre quarti della giornata di un operajo. Tutta gente che oltre la propria, oltre quella della rispettiva metà, hanno le cinque, le sei bocche fresche da contentare, salvo appendici maggiori o minori; e bisognerebbe che, per porsi in bilico, in quella giornata del brum la famiglia digiunasse per un quinto, per un quarto, per un terzo, per una metà, per tre quarti, e se fa d’uopo, nemmeno si sdigiunasse. Quanti (specialmente donne vedove, e madri di famiglia) si sdruscirebbero volentieri la pelle da mane a sera per guadagnare il prezzo di una corsa!... Oh! ha veramente ragione quella brava contessa che mi diceva l’altro dì: «A volte si ha veramente vergogna di essere ricchi....». Ma che pensieri strani!... E i poveri brumisti?... Strumenti non ultimi di quel movimento febbrile, per cui sempre più si condensa, per dir così, la vita dell’uomo e della umanità, sicchè in un giorno si vive ora, bene o male, quanto si viveva una volta in un mese, in un anno, forse in un secolo; i Il brumista. poveri brumisti sono forse i soli esclusi da quel movimento; i soli non partecipi del bene, che alla umanità ne ridonda. Eccoli là, allineati, immobili, come un filare di piante, come una fila di paracarri lungo le vie. Piove? fa freddo? Anche il più poveretto sa trovare una gronda ove porsi al riparo, e un po’ di brage semi-spenta con cui sgranchirsi le mani. Sferza la canicola? Anche il più tapino si arresta a tergere il sudore all’ombra di una casa, al rezzo di una pianta. Ma il brumista è là, sempre là, grondante, intirizzito, arso, secondo che piace alla stagione di rimutargli la pena. È un giorno di festa: si attende il re; si prepara una grande rivista militare; è il giorno dello Statuto; langue o tace lo stridore delle fucine; cento quartieri della città si spopolano, e la gente attratta verso un punto, si condensa, si pigia, si urta senza offendersi, ondeggia senza scomporsi, lieta, serena. Ma il brumista e là.... Starà o si moverà al cenno del primo che capiti, servo umilissimo di tutti, eppure a tutti ignoto, non conoscente di nessuno. Almeno la domenica!... La domenica è un dovere, ma è anche un diritto per tutti. Immobile dal suo cocchio, il brumista ode il festivo concerto delle campane; vede affollarsi i ricchi e i poveri alla chiesa, poi uscirne, disperdersi a brigate, riunirsi in lunghe file, avviarsi ai passeggi, ai pubblici giardini, ai ritrovi ove echeggiano pel popolo, proprio pel popolo, i concerti delle musiche militari. Oh come è lieta quella gente! Vedi anche quella vecchierella il cui mondo sono la rocca, il fuso, la granata e i polli.... anche quel poveretto, che veste la domenica come vestono i più poveri nei giorni di lavoro.... come ride! come assapora la sua domenica!... Infelice! ha sudato tutta la settimana; ha fors’anche sofferto la fame.... Ma via, stamani seduto in fraterno consorzio, ha udito narrarsi la buona novella.... Beati i poveri!... Guardate gli uccelli del cielo, che non seminano, non mietono, non hanno granai.... e il padre vostro li pasce...16. E a queste parole l’amaro del presente si stemprava per lui nella dolcezza delle speranze avvenire. Ma il brumista non c’era; il brumista è là; nessuno gli ha rivolto una buona parola. — Mah!... è una necessità! — Una necessità?... È poi veramente una necessità?... Una domenica, a Glascow, avevo proprio bisogno di un brum, e non trovarne un solo a pagarlo un occhio!... E dover mettermi in corpo tutta quella camminata, e arrivare al l’albergo stanco, affamato, e volevano ch’io morissi di fame, perchè era passata l’ora, e i servi dovevano andare alla chiesa..... Che matti d’Inglesi!... Non sono matti?... In un paese dove la suprema norma di tutto e di tutti stà nel motto, il gran motto, — il tempo è denaro; — tutti vogliono fare la domenica.... fino i brumisti.... Poveri brumisti!... Diacine, è un’idea fissa codesta!... Ma si; pazienza di giorno, ma di notte!... Non v ’ ha rifiuto d’uomo che non abbia abituro, una tana ove cacciarsi la notte, a meno che non preferisca passarla al sereno. Ma il brumista è là. Ei deve tenersi pronto al servizio di quegli animali notturni che, vi fanno balzare tant’alto dal letto collo scoppio di urli ferini, che in loro favella sono gridi di gioja, quando non vi facciano rizzare i capelli sulla testa collo scroscio della bestemmia, o col turpe metro dell’oscena canzone..., e il brumista è là.... ministro involontario delle crapule, delle orgie, degli intrighi.... Poveri brumisti!... Non sia detto uomo di cuore chi non trova in fondo al borsellino qualche soldo oltre la tariffa, o almeno in fondo al cuore una buona parola, un saluto detto con dolcezza a quella povera gente, che ricordi loro che sono anch’essi fratelli; membri di quella grande famiglia, di cui Cristo è il primogenito.... Ma insomma.... che pensieri!... E’ si vede che la pioggia mi ha messo il malumore in corpo.... To’ che il brum si ferma!... Finalmente ci siamo!...
4. Giovannino ne balza d’un salto, e via di volo sulle scale, tutto trionfante, per annunciarmi, sicchè non ero ancora arrivato all’ingresso della solita sala, che già era scoppiato un concerto di ah! in tutti i toni, che voleva dire: Bravo! te l’abbiamo fatta! — Era già un po ’ tardi; il malumore non si poteva sostenere fra quell’allegra nidiata; quindi cominciai tosto.... «Stasera, giacchè tutta Milano è in pozzanghera, voglio parlarvi di pozzanghere anch’io».
«Di pozzanghere.... che dici?» fece Giannina.
«Lo dico e lo mantengo. Si potrebbe oggi parlar d’altro? Del resto noi siamo già fin dall’ultima serata in argomento. Dopo avervi parlato dei pozzi a petrolio del Parmigiano e del Modenese, è impossibile ch’io non vi dica degli altri fenomeni interessantissimi che si associano colà, e quasi invariabilmente dovunque, al petrolio. Primi tra questi sono appunto le pozzanghere, che si chiamano col nome di salse.
» I libri che trattano di questo argomento hanno per preludio obbligato le salse o vulcanetti di fango di Turbaco, nell’America meridionale (precisamente presso Cartagena nella Colombia), che furono visitati e descritti da Humboldt17.
» Quei libri per solito cominciano col preludio e terminano con esso, obbligandoti ad ascoltarlo a bocca aperta, come si tasse di fenomeni al tutto peregrini. Adesso si potrebbe andar più in là del preludio e riuscire almeno all’atto primo colle magnifiche descrizioni che, in un recentissimo lavoro, fece l’Abich18, dei vulcani di fango, straordinarî di numero e di grandezza, che ingombrano le bassure del Caspio, dando forse a quella regione l’impronta più caratteristica. Ma quando io vi avrò descritto le salse e i vulcani di fango, quali si possono osservare in Italia, in luoghi a noi vicini, e in cento altri della penisola, leggendo poi a suo tempo gli autori suddetti, troverete che nessuno forse dei fenomeni da loro descritti ci obbliga ad uscire dalle nostre terre per contemplarlo e studiarlo.
» Io mi fermerò per ora ai dintorni di Modena, dove si presenta forse il gruppo più completo e più caratteristico di quei fenomeni, di cui vi devo parlare. Mi accompagnerete dapprima in un giro, che si fa partendo da Modena al mattino e ritornandovi prima di notte, dopo aver attraversato una delle regioni più brutte, per chi cerchi alla natura i soliti vezzi cantati dai poeti, delle più belle invece per chi alla natura brama strappare i più gelosi segreti. Due volte ho già compiuto il giro di cui vi parlo: l’una in un verso, l’altra nel verso opposto. È indifferente pigliarlo dall’uno piuttosto che dall’altro; ma io preferirò di condurvi per quella strada che feci la seconda volta e fu nell’estate del 1865. Trattandosi però di fenomeni assai variabili potrò rendervi ragione delle differenze che vi notai, tra la prima volta che fu, credo, verso l’ottobre del 1864, e la seconda che avvenne, come ho detto, nel cuore dell’estate successiva.
5. » Era, se ben mi ricordo, una giornata di luglio. Io, coll’amico Pensa, di cui vi ho già parlato, e due signori venuti da Nuova-York per mire industriali sui petrolî italiani, ci levammo di buon mattino, e con una buona vettura pigliammo la via maestra, che si diparte da Modena verso sud-ovest, e attraversato l’Apennino, discende in Toscana. Noi non la seguimmo però che fino a Maranello, deviando quindi a destra verso Spezzano, un paesello sulla sponda destra del torrente dello stesso nome. Qui ordinato al vetturale che girasse la base delle colline da tramontana, e andasse ad aspettarci a Sassuolo, pigliammo una guida che sapesse la via più breve per condurvici a piedi, visitando successivamente i siti più importanti pel nostro scopo. Attraversato il torrente Spezzano, e giunti sulla sinistra, al piede di un’alta catena di colline che fiancheggiano il torrente, la guida ci cacciò entro un borro, una specie di solco angusto e profondo, o di canalaccio, riempito di fango raggrumato, secco, puzzolente, salato. Io mi apposi subito che quel condotto fosse il tronco inferiore di un vero torrente di fango, che nella mia visita precedente a quei dintorni avevo visto uscire dalle salse di Nirano».
«Hai già ripetuto due o tre volte codesto nome di salse», interruppe Giannina; «si potrebbe sapere di che intendi parlare?».
«Le salse e i vulcani di fango, sono sinonimi....19 cioè sinonimi propriamente no; ma indicano lo stesso fenomeno in due fasi diverse. La intenderete meglio dal racconto del fatto, perchè stiamo per affacciarci forse alle più belle fra le salse d’Italia, e quelle di Nirano. Rimontando quel canale fangoso, che si screpolava ad occhio veggente, sotto un sole che andava crescendo, con un’arsura, un’arsura che ci metteva sopra pensieri per il resto della giornata; ci trovammo ben presto condotti ove quel canalaccio si perdeva in un vasto spazio, d’aspetto tutt’altro che confortevole. Era la gran salsa di Nirano. Imaginatevi una specie di gran circo o d’anfiteatro, come sarebbe l’Arena di Milano ma assai più vasto, costituito da una landa deserta, chiusa da un ampio recinto, che la cinge quasi d’una muraglia di cenere. Ho citato per paragone l’Arena di Milano; ma se aveste veduto il Vesuvio, nei periodi di calma, o meglio la solfatara di Pozzuoli20, vi avrei detto che la salsa di Nirano è lo stesso quanto alla forma. Anch’essa, come la solfatara di Pozzuoli (cratere vulcanico appena spento, se pure è spento), anch’essa, dico, è aperta da un lato, appunto dove quel canale di fango esce dalla salsa per discendere la collina e gettarsi nello Spezzano. La landa, o diremo l’arena di quel circo, è sparsa di magri cespugli e di rade erbacce: il recinto poi è tutto sterile, nudo, quasi fosse un circo scavato in una montagna di cenere. Anche questa salsa si schiude in quella zona di colli sabapennini, che vi descrissi l’ultima volta come quella che offre talora l’aspetto di veri deserti. La roccia che vi domina, sono certe argille turchiniccie, che disseccandosi, pigliano il colore della cenere. Sterili di loro natura, in continuo sfacimento, somiglianti più spesso a frane che a campi o colline, potrebbero prendersi per insegna della rovina o della sterilità. Ecco il primo motivo per cui quel recinto è così brullo e adusto, salvo dove il pendio si fa lento quanto basti, perchè qualche trista pianticella vi si abbarbichi, piuttosto per intisichirvi che per vivere.
» Ma alla natura del suolo si aggiunge un’altra ragione di sterilità, che vale principalmente per lo spazzo della salsa, il quale non avrebbe altra ragione di essere così deserto e triste se la natura non vi avesse sparso l’emblema della maledizione, il sale. Voi cominciate già a capire la ragione del nome salsa dato a quel luogo, e a tutti quelli ove si riscontra lo stesso ordine di fenomeni.
6. » Ma facciamoci più dappresso ad esaminare quell’anfiteatro, al certo preromano anzi probabilmente preistorico21, dove vi ho condotti per esaminare dei fenomeni che meritano di essere conosciuti, più che comunemente nol siano. Eccoci nel bel mezzo del circo. A prima giunta non vi presenta che l’aspetto d’un piano uniforme, fangoso, un greticcio22, sparso di tisica vegetazione. Guardando però più dappresso, cominciate a scoprire un canale, o piuttosto un solco angusto e profondo, il quale divide la landa in due parti presso che uguali. Osservando ancor meglio (e in sulle prime non ve ne accorgereste davvero) voi scoprite dei piccoli coni, disseminati per lo spazzo, quasi bitorzoli sul viso. Son essi quei piccoli coni che chiamansi propriamente le salse, mentre il nome collettivo di salsa, abbraccia tutt’insieme e il recinto e lo spazzo e i rigagnoli e i coni, e ne fa un tutto La salsa di Nirano. complessivo, di cui il naturalista studia poi e l’insieme e le parti.
» Le salse si accostano in guisa da formare due gruppi, il primo sulla metà del piano che trovasi a nord, il secondo sull’altra metà.
7. » Che cosa sono quei conetti?... Visti un po’ da lontano si scambierebbero per talpaje, cioè per quei monticelli che le talpe vanno formando col sommuovere il terreno nello scavarsi che fanno le loro gallerie sotterranee con tanto danno dei prati. Ma fatevi più dappresso e osservate.... un cono d’argilla umidiccia, tronco alla sommità; il piano della troncatura è un laghetto di melma azzurrognola.... Attenti! quel laghetto si move, e di tratto in tratto ribolle, sicchè il fango o trabocca, o slanciato lontano viene a ricadere in grumi e pillacchere. In fine ciascuna di quelle salse è un vulcano, un vulcano pigmeo, un vulcano in miniatura. Pigliate il Vesuvio, e umiliatelo alle dimensioni di monticello da talpa; quella vasta voragine, che si chiama cratere, non sia più che un meschino imbuto; quei laghi di lava bollente, che seppe talvolta riversare il Vesuvio, o, meglio ancora, quelli che si vedono da secoli ribollire nelle gole di certi celebri vulcani delle isole Sandwich, non siano più che pochi cucchiai di belletta salata; le enormi colonne di vapore che oscurano il cielo nelle più formidabili eruzioni dei vulcani, non siano che quattro gallozzole di gas infiammabile; le grandini di pietre, i turbini di lapilli, di sabbie, di ceneri, che coprono talvolta mi gliaja e migliaja di chilometri quadrati, sfondando i tetti, seppellendo le città, non saranno che zacchere di fango, come quelle che ogni batter di tacco vi sprazza sulle vesti in un giorno di pioggia: ed eccovi una salsa, un vulcano da gabinetto, ma.... chi ti conosce non ti compera, diceva quel tale....».
«Perchè?» voleva tosto saper Giovannino.
«Perchè lo saprai fra poco. Intanto prega il cielo che a quelle salse innocentine non saltino certi grilli, quando vi stai sopra col muso. Per ora stiamo a vedere.
8. » Quei coni non sono tutti fabbricati sullo stesso modello. Tra le salse, che in numero di dieci o dodici formano il gruppo a mezzodi, tu ne vedi alcune, le quali, piuttosto che coni, sono espansioni fangose, quasi ampie lenti piano-convesse23, dal cui foco ribolle il fango: alcune invece sono veri coni, che espandendosi alla base, sino a perdersi nel piano, si isolano nel mezzo, e si rizzano arditi, tronchi in vetta da un cratere ribollente. Una si distingueva dall’altre, perchè aveva forma di cono assai de presso, il cui centro era occupato da un laghetto di fango di circa un metro di diametro: come si dipinge il vulcano di Stromboli. Ma più degno di osservazione era il gruppo a tramontana. Primeggiava tra le molte salse una vasta convessità, un cono molto depresso, tronco quasi rasente alla base; e la vasta troncatura era occupata da un lago circolare di finissima belletta, la quale a intervalli quasi inapprezzabili, si sollevava e si rigonfiava nel mezzo dove compariva una grossa bolla, o meglio un gruppo di grosse gallozzole, che rivestite di un velo di fango, rese palpabili un istante, scoppiavano d’un tratto, con un rumore simile a un primo conato di vomito. A ognuno di quei bollori la belletta rigurgitava, riversandosi all’ingiro, e giù colando come quella pegola spessa, descritta da Dante nella bolgia dei barattieri,
Che inviscava la ripa d’ogni parte.
(Inf., XXI).
Guai alla mucca, che ingorda di quella broda salata, avesse accostato
di troppo la sua mole pesante al baratro traditore!».
«Vi affogherebbe forse?» domandò la Marietta.
«Irremissibilmente! Figuratevi.... Vi sono bene delle vaccherelle che si conducono a pascere le male erbe di quel greto; ma chi le custodisce le tiene ben d’occhio, perchè non si accostino a quella salsa. Una buona donna mi assicurò che parecchie n’erano già perite a quel modo».
«Quelle salse», domandò la Chiara, «bollono davvero?».
Non hai inteso? non è che bollano, poichè l’acqua è fredda affatto. È il gas infiammabile, che nello sprigionarsi, sollevando quel liquido viscido e denso, formando delle bolle che scoppiano, imita il bollore».
9. «Dunque scoppierà il fuoco da quelle bolle? disse Giovannino.
«Perchè s’infiammi, non basta che il gas sia infiammabile: tu sai che ci vuole qualcuno che lo accenda. Ma codesto spasso, se visiterai quelle salse, potrai pigliartelo a buon patto, come me lo pigliai io. Acceso uno zolfino, lo accostavo al punto dove più frequenti vedevo bulicar le gallozzole, e lo tenevo sospeso a fior d’acqua. Pareva veramente che il fuoco svampasse dalle bolle, che ardevano con repentino scoppio. Quando fui presso al laghetto di fango, che vi ho descritto, non mi ci potevo avvicinare quanto bastasse per giungere colla mia miccia al centro, dove il gas si sprigionava in maggior copia. Rinunciare al divertimento, quando doveva farsi più bello? Ohibò! Presi un bel foglio di carta, ne feci un batuffolo, e datogli fuoco, lo gettai così acceso in mezzo allo stagno ribollente. Il suo arrivo fu salutato da ripetute salve di spari e di vampe scoppianti dalle viscere stesse dell’immondo stagno.
10. » Ma non ho finito; non abbiamo ancora fatto di cappello al gigante di quei pigmei, che superbo di sua statura, appartato nell’angolo più settentrionale, stassene ritto e torreggiante, quasi capitano intento a dirigere le mosse di quella doppia squadra di vulcanelli. Le talpe non hanno mai levate così alto le loro pretensioni. Difatti quel cono, che noi chiameremo cono maestro, è quanto di più ardito mi hanno finora offerto le salse d’Italia. Non raggiunge per verità l’altezza di 7 metri, assegnata da Humboldt alle classiche salse di Turbaco; ma non ne dista poi di troppo. Partendo dalla base, cioè dalla periferia della larga espansione, per cui il cono si confonde col piano, credo che bisognerà salire 5 metri, o giù di lì, per raggiungere il vertice. Pei primi due metri però il cono sale insensibilmente, e mal si distingue dalle irregolarità del piano: più in su tuttavia si raccoglie in sè stesso, si spicca isolato, e restringendosi rapidamente, si slancia ardito, come una punta. Ma la punta è tronca, e ci vaneggia un piccolo cratere o laghetto, da cui le bolle gasose si svolgono con foga incessante, e con tal impeto talora, che la fragile mole del cono è scossa da tremiti convulsi. Ogni scoppiar di bolla è uno sgorgo di fango, che diviso in cento ruscelli, giù giù discende, ingruma i fianchi del cono, e ne inonda la base. Così trovai la salsa di Nirano nel 1864, quando la visitai nell’autunno, che fu molto piovoso. La melma, che riboccava da tanti crateri bollenti, formava dei rigagni ben nudriti, quasi altrettanti affluenti, che andavano a gettarsi entro una doccia. Questa passando dietro il cono maestro e lambendo il circo all’ingiro, veniva a congiungersi al rivo di mezzo, il quale, come vi ho detto, attraversa tutto il piano della salsa. Quella doccia, larga circa un metro, e considerevolmente profonda, era occupata da un vero fiume di fango, viscido, spesso, che scorreva con lentezza inapprezzabile, ribollendo lentamente e scoppiettando, come una massa di pasta in fermentazione, per lo sprigionarsi del gas rimasto impigliato nel fango al momento della eruzione. Quel fango naturalmente guadagnava l’apertura del circo, e giù giù colava per la china del monte, finchè non avesse trovato, a qualche centinajo di metri più basso la via di gettarsi nello Spezzano. Quando vi tornai nell’estate del 1865, con quel caldo ostinato, implacabile, la scena era di molto cambiata. Già vi dissi che noi eravamo saliti su per un canalaccio di fango disseccato; e ora capite senz’altro come quel borro adusto e crostoso non fosse che l’emuntorio della salsa, cioè il canale del fango, asciutto per difetto di alimento. Difatti l’attività dei vulcanetti era molto meno appariscente; i fianchi dei coni non erano percorsi da ruscelli di fango, ma cospersi quasi di bianca cenere, secchi e screpolati; la melma non si riversava più dai piccoli crateri, ma gorgogliava serrata loro nella strozza; quel lago di fango ribolliva ancora, ma non traboccava; la doccia non era più un fiume di belletta, ma un solco cotto e scoriato dal sole.
11. » Lo stesso cono maestro non dava più sgorghi di fango, ed era là bianco, asciutto come uno stinco. Asceso fino al suo vertice, per vedere che ci fosse di nuovo, trovai che il cratere era vuoto: era umido però, e giù in fondo si sentiva l’acqua gorgogliare, col borbottio d’una bottiglia quando si mescono i primi bicchieri. Il gas infiammabile non era adunque diminuito, e volli godermi uno spasso. Mi feci a plasmare colle dita la duttile argilla, in modo che il labbro del cratere, assottigliandosi e allungandosi, venisse a formare una volta sul pantanetto; e del cratere non rimanesse che un piccolo orifizio, di qualche centimetro di luce, nel centro della volta. Voi capite come riuscissi così a costruire quasi una campana sul piccolo vulcano, e come la campana potesse farvi l’ufficio come di un gasometro. Il gas infatti vi si doveva raccogliere in tanta copia, e acquistarvi sufficiente tensione per produrre un getto continuo di gas attraverso l’angusto orifizio, che serviva di becco a quel lampione improvvisato. Allora gli diedi fuoco, ed ecco una fiamma, di circa mezzo metro d’altezza, levarsi perenne, guizzando luminosa sulla punta del cono, benchè splendesse il sole presso al meriggio. Aveste veduto come rimase quella brigata di villici, che ci si era nel frattempo fatta d’attorno! Ridevano, si fregavano le mani e susurrandosi a vicenda all’orecchio, e’ si vedeva che macchinavano qualche cosa, come di trarne profitto».
«Eh! avranno pensato al certo», volle interpretare Giovannino, a farsi lume la notte, o a cuocervi la polenda».
«Bah! come t’inganni!... Sai che cosa macchinavano!... di mettere paura a un certo loro camerata superstizioso, facendogli credere ad una apparizione notturna. Bel profitto, n’è vero?».
12. «Come mai» si fece a chiedere Giovannino, «si presentano tali fenomeni in quel luogo».
«In quel luogo, tu dici? In mille luoghi, in Italia e nel mondo intero24. Il fenomeno delle salse è fenomeno universale, come quello delle sorgenti termali e dei vulcani».
«Ma quale è dunque l’origine di codesto fenomeno qui e altrove?» insistè il fanciullo.
«Codesta domanda l’avresti potuta ripetere tutte le volte che io descrissi dei fenomeni somiglianti. Le salse infatti non sono poi la gran novità. I pozzi salati di Salsomaggiore, i pozzi a petrolio di Miano, quelli dell’America e della Cina, non sono in ultima analisi che altrettante salse, caratterizzate dal trovarcisi insieme acqua salata, gas infiammabile che vi ribolle, e petrolio che vi galleggia in quantità più o meno considerevole, perchè mi dimenticavo dirvi come su quei pozzetti delle salse di Nirano si osservassero delle macchie giallognole, che volevano dire petrolio; poi l’acqua stessa sapeva di petrolio a saggiarla. È cosa nota del resto che il petrolio si fa vedere in tutte le salse del mondo, forse senza eccezione. Siam dunque sempre in un certo ordine di fenomeni. Se mi domandi poi specialmente come si generi il gas infiammabile che si svolge da’ quei luoghi salati, ti rispondo che questo gas è uno anch’esso di quella famiglia di idrocarburi, a cui appartengono tutti i petroli del mondo, dai quali, come buon fratello, non si scompagna giammai. Quale ho detto che sia l’origine dei petrolî? Ve ne ricordate?».
«Sì, sì.... qualche cosa, saltò a dire Giannina, che in fatto di memoria è un piccolo portento. «Hai detto che il petrolio è un prodotto naturale: che si forma, come sarebbe a dire, da sè, nell’interno della terra, mediante la combinazione, mi pare del carbonio coll’idrogeno. Anzi un certo signor.... il nome m’è’ scappato....».
«Berthelot, volevi dire».
«Sì, lui, è riuscito a fabbricare i petrolî».
«Benissimo! Allo stesso modo, io dico, si produce nell’interno del globo il gas infiammabile, che si sprigiona dalle salse. Veramente questo gas si sviluppa anche per effetto della putrefazione, o meglio della fermentazione dei vegetali. Infatti il gas che esce dalle salse, dai pozzi di petrolio, dalle fontane ardenti, è noto comunemente anche sotto il nome di gas delle paludi, perchè si sviluppa dalle acque stagnanti, ove marciscono
(24) tali in gran copia. Emana ancora dai combustibili fossili, cioè
dalle ligniti, dal carbon fossile.... Avrete letto, o inteso dire dei
disastri che avvengono talvolta nelle miniere di carbon fossile,
per lo scoppio del gas infiammabile, che spontaneamente vi si
produce. Il 10 gennajo 1812 avvenne l’esplosione della miniera
di Horloz, presso Liegi25, che costò la vita a 69 persone. Un
egual numero di operai fu vittima della esplosione di una miniera
di Newcastle26, nel 18 agosto 1808. Tre uomini furono
lanciati fuori del pozzo, come fossero projettili da cannone, e
ricaddero a considerevole distanza dall’apertura. Lessi questi
fatti in un bel libretto, che tratta appunto di salse, di fontane
ardenti, ecc.27. Tali disastri erano pur troppo frequenti, prima
che Davy, uno degli uomini più benemeriti della scienza e dell’umanità,
inventasse la sua lanterna di sicurezza28. È una
delle cose che m’hanno fatto più senso in vita mia il vedere
con quanta rapidità esali quell’invisibile nemico, pel quale gli
immensi sotterranei diventano una gran mina, che può scoppiare
ad una scintilla, seppellendo o facendo saltare in aria centinaja
e centinaja di persone».
«Come? interruppe tosto la Camilla, con un pajo d’occhi spaventati. «Tu l’hai visto?».
«Non te l’ho detto?».
«Come? quando?...».
«Ma voi mi tirate fuori del seminato».
«Ci tornerai....».
13. «Ebbene, giacchè lo bramate, facciamo anche questa digressione. Nel settembre del 1867 mi trovavo a Dudley, non lontano da Birmingham, proprio nel cuore della Gran Bretagna, ove gli strati del carbon fossile si fanno più considerevoli. Mille incendi rompono le tenebre della notte e si perdono nel nebbioso orizzonte, che sembra rischiarato da un’aurora boreale perpetua29; e sono pel viaggiatore attonito la più sensibile, come la più meravigliosa testimonianza di quella industria gigantesca, per cui l’Inghilterra, ricca di tanti tesori di ferro e carbon fossile, è di presente la sovrana del mondo. Voi intendete che io parlo dei forni ove si fonde il ferro, e che a migliaja a migliaja sono distribuiti sulla superficie di quel suolo che nasconde nel suo seno tanti letti alternati di carbon fossile e di ferro, che c’è da fornirne il mondo intero per molti secoli ancora. Il suolo stesso scomposto, e in via di smottare, le rupi scoscese, le case screpolate, spaccate, cadenti, tutto accusa il fervore di quell’immane lavoro di sotterra, con cui si vanno propriamente scalzando le fondamenta alle montagne, e che vi fa dire sul serio che l’Inghilterra va consumando l’Inghilterra, come il bruco e il tarlo consumano il legno in cui si sono annidati.
» Ero dunque a Dudley, con quattro amici, compagni di viaggio e di studî, per visitarvi le miniere, che in quel luogo hanno per il geologo un’importanza tutta speciale. Figuratevi che, in una di quelle cave di carbon fossile, il combustibile presenta una profondità di circa 9 metri, per modo che le miniere si assomigliano a vasti porticati e spaziosi saloni scavati nel carbone. Il gas infiammabile vi si sviluppa come dappertutto, e impone agli operai di tenersi ben raccomandati alla lanterna di Davy, costrutta in modo, come sapete, da potersi recare impunemente anche in seno al gas tonante30. Da noi comunemente si crede che nelle miniere di carbon fossile non si lavori che alla luce delle lampade di sicurezza. Questo è un errore. Nelle miniere inglesi si adoperano, quasi esclusivamente, candele di sevo. Il gas infiammabile non si sviluppa in dose pericolosa che ad intervalli, quando cioè il progresso degli scavi mette a nudo qualche fessura, per cui la galleria si trova d’un tratto in comunicazione con qualche naturale serbatojo di gas condensatovi dai secoli. Finchè gli operai lavorano nelle miniere, si accorgono facilmente delle invasioni minacciate, e sono in tempo a salvarsi dal nemico, coll’impedire che ingrossi tanto da farsi pericoloso. Il pericolo maggiore è al mattino del lunedì».
«Curiosa!» osservò Angiolino, «che il gas infiammabile soffra anche lui di lunediana, come i ciabattini?».
«Così è, e così dev’essere. La domenica non si lavora. Il minatore inglese poi, quand’è il mezzodì del sabbato, esce dalla sua tomba, e si dà bel tempo fino a mezzanotte. Vedeste che vita, per esempio, in quella grande città di Glasgow31 alla sera del sabbato!... La domenica riposo.... un riposo che non conoscono che gl’Inglesi. Glasgow che era tutto un tramestio, gajo, chiassoso la sera del sabbato, mi parve un cimitero deserto quando mi levai la mattina della domenica. La mattina del lunedì poi, innanzi giorno, un brulichio d’altro genere, silenzioso, mesto.... gli operai ritornano all’uggiosa tana. Ma il gas infiammabile non distingue i giorni della settimana, e, se trovò comodo di farsi strada la domenica, ebbe tutto l’agio di riempire la galleria di un’atmosfera di gas tonante. Alla prima fiammella che si appressasse.... per amor del cielo!... È dunque specialmente al mattino del lunedì che l’operajo si raccomanda alla lanterna di Davy. Con essa si entra nelle gallerie, se ne esplorano tutti gli andirivieni, tutte le sinuosità, e, se si trova il nemico, si scaccia, prima che gli operai si distribuiscano al lavoro. Ciò si ottiene col dar fuoco al gas quando non occupa che alcuni seni, e in genere, come più leggero dell’aria, le parti più elevate dei sotterranei. In ogni miniera vi ha un operajo, il quale ha lo speciale incarico, sempre un pochino arrischiato, di dar fuoco al gas; quell’uomo va distinto col titolo glorioso e feroce di fire-man32, od uomo del fuoco.
14.» L’ufficio di quell’uomo era pericolosissimo avanti l’invenzione della lanterna di sicurezza. Dopo un giorno di riposo bisognava esplorare la galleria senz’altro, e per farsi lume, bisognava pure andarci colla candela accesa, o con una delle lanterne usuali. Le gallerie sono però d’ordinario così vaste, molteplici, immense, che difficilmente si poteva adunare in un sol giorno tanta copia di gas tonante, da convertirle veramente in un barile di polvere. Di solito il gas non aveva tempo che di occupare alcune parti delle gallerie, naturalmente le più elevate, essendo assai più leggero dell’aria; avviene anzi assai spesso che il gas riempia le vôlte della galleria, mentre sul suolo, e fino a certa altezza, l’aria rimane respirabilissima. Che faceva dunque il povero fireman? Coperto di abiti bagnati, come trovo in quel libro che vi ho già citato33, nascosto il viso sotto una maschera con gli occhi di vetro, con una verga in pugno che terminava in una candela accesa, il fireman penetrava nella galleria. Quivi, gettatosi boccone, si avanzava come un rettile col ventre a terra, spingendo innanzi la canna, colla candela, sicchè il gas, scoppiando nelle regioni elevate, possibilmente non lo offendesse. In alcuni luoghi bisognava ripetere l’operazione ogni giorno, e in altri fin due o tre volte al giorno. Ma avvenne pur troppo, e più volte, che il gas si fosse soverchiamente ingrossato nella galleria, e il povero fireman rimanesse vittima del suo dovere. La miniera di La-Tour, nel dipartimento della Loira (racconta il Bianconi), era straordinariamente soggetta alle invasioni del gas infiammabile. L’8 di giugno 1818, un certo Bonin scendeva nel pozzo a far la sua parte di accenditore. Appena uscito dal tino, in cui era disceso fino al fondo, il suo lume trovossi in contatto con una gran massa di gas tonante. L’esplosione ebbe luogo sull’istante, e fu spaventevole. Bonin, sbattuto a terra, in mezzo alle fiamme che gli si erano appiccate alle vesti, seppe ancora, con energia pari alla imminenza del pericolo, e con meravigliosa imperturbabilità, trascinarsi fino alla gora, ove si radunano le acque che filtrano nell’interno, e vi s’immerse. Là, cogli urli della disperazione invocava un soccorso, che nessuno poteva sul momento apportargli. La violenza dell’esplosione aveva sguernito il pozzo, e tutti gli attrezzi erano stati lanciati in aria, insieme con un altro sciagurato, certo Bouquet, il quale, trovandosi alla bocca del pozzo, fu balestrato alla distanza di 100 metri».
«E il povero Bonin», domandarono i fanciulli, lo liberarono poi?».
«Sì; vi riuscirono, un’ora dopo il tremendo caso. Ma egli dovette soccombere alcuni giorni dopo per cagione della scossa e delle ferite».
«Dell’infelice Bouquet, già, non si parla nemmeno», fece in atto compassionevole l’Annetta.
«Si sarà sfracellato come un ovo buttato sul lastrico».
«No; egli fu salvo. Volle la sua buona stella, o il suo buon angelo, ch’egli cadesse sopra un prato pantanoso, ove si fece poco male, e in pochi giorni guarì».
«Ah, io non vorrei certamente», sorse a dire una delle mamme, «che a nessuno de’ miei figli venisse la voglia di visitare quelle miniere. C’è pericolo, cappita! È un giocar la vita a pari e caffo».
«Oh non questo! non esageriamo. Dopo l’invenzione della lanterna di Davy anche l’ufficio del fireman si è reso assai meno pericoloso. Del resto, visitare le miniere, non vuol dire che si abbia a rubare il mestiere al fireman. Non c’è pericolo nessuno per chi visita le miniere di carbon fossile, e ci è invece molto da apprendere.
15. » Una bella mattina infatti, io e i miei compagni, condotti dal direttore delle miniere, uomo gentilissimo e ameno quant’altri mai, discendemmo alle miniere, smaniosi di visitarne una specialmente, che aveva messo a nudo il sotterraneo cammino di un vulcano».
«Che? ci hanno dei vulcani in Inghilterra!» chiesero maravigliati gli uditori.
«Adesso nessuno: ma vi fu tempo, specialmente quando formossi il carbon fossile, che l’Inghilterra era in preda alle più spaventevoli conflagrazioni, come ora l’Italia meridionale, l’Islanda, e tante isole dell’Oceano. Ma quel tempo è molto lontano: quei vulcani sono spenti da molte migliaja d’anni».
Gli uditori volevano saperne di più; ma io feci loro intendere come mi ci si volesse a dirittura, lì per lì, un trattato di geologia; ond’era necessario veramente che per allora riposassero sulla mia parola, chè non volevo, no, impastocchiare delle fandonie per divertirli. Potei quindi continuare:
«Giunti alla sospirata miniera, il direttore ci fece entrare in una gabbia di ferro quadrata, sospesa alla bocca di un gran pozzo ugualmente quadrato, mediante una corda o correggia di ferro, in forma di larga treccia, intessuta di filo di ferro, che, accavalciata una carrucola, andava a cingerne certe altre, messe in moto a tempo opportuno da una macchina a vapore. Quella gabbia di ferro non è in fine che la gerla, costrutta a modo, Pozzo d’una miniera di carbon fossile a Dudley. per ricevere il carbon fossile sul fondo della miniera, e riversarlo dalla bocca del pozzo. Essa va su e giù continuamente per forza di macchine a vapore. Anzi vi son due gerle, come vi son due pozzi, nei quali esse salgono e scendono alternatamente, mosse dalla stessa macchina, di modo che quando l’una discende, l’altra sale, e viceversa, con un viavai senza posa. In quella gabbia si stava, in piedi o seduti a piacimento, noi cinque, il direttore, il figlio del direttore, e qualche operajo, che faceva da scorta. Dato il segnale al macchinista, la macchina sbuffa, le carrucole rotano, la corda si allunga verso di noi, e giù, dondolanti, con un moto sussultorio34, che cresce col crescere della profondità, finchè ti pare di essere sospeso ad un filo di saltaleone35, con cui si balocchi un ragazzo, e giù ci perdiamo nell’abisso, ove le tenebre sempre più fitte non sono rotte che dalle scarse fiammelle dei nostri moccoli di sevo. Eccoci al fondo. La gabbia si schiude, e le candele rischiarano di fosca luce una grande aula, ove il pavimento, le pareti, la volta, tutto è carbone. L’occhio tuttavia non tardò molto a discernere sulle pareti certe strisce bianche, quasi crepacci rinzaffati come di calce, che si diramavano in tutti i sensi, e spiccavano sul nero di quelle muraglie di carbone. Che cos’erano?... Veri crepacci, nella gran massa di carbon fossile; ma, in luogo di essere sigillati colla calce per mano d’uomo, la natura li aveva riempiti di una roccia, che gl’Inglesi chiamano trapp, e non è altro che lava vulcanica. Si, quei crepacci sono una minima parte dei sotterranei condotti, per cui eruppero gli antichi vulcani d’Inghilterra, eruttando lave, ceneri e lapilli, che si scoprono in masse enormi nella grande regione carbonifera dell’Inghilterra».
16. «Ma come si può dire che siano lave quelle rocce?» do mandò Giovannino colla cera di chi duri fatica a ingojarsela riposando sull’altrui buona fede.
«Eh! carino, eccoci un’altra volta al trattato di geologia. Vi son cento ragioni per credere che quelle rocce siano lave.... Ma via: ne vuoi una che ti capaciti, anche senza cacciarti nel gineprajo della geologia? sai che cosa è il coke?»
«Vuoi che no ’l sappia?» rispose Giovannino che si sentiva forte in questo argomento. «Il coke è come l’avanzo del carbon fossile, quando fu già abbruciato per estrarne il gas».
«Benissimo! Quando fu abbruciato, hai detto.... In qualunque luogo adunque io trovassi del carbon fossile convertito in coke, cioè divenuto poroso, leggero, privo di sostanze volatili, ossia di gas, dirò che quel carbon fossile fu abbruciato; che pertanto ci fu qualche cosa che lo abbruciò. Va bene?».
«Va benissimo», disse Giovannino: «ma non capisco che abbia a fare tutto questo con quella tal roccia nella miniera di carbon fossile».
«Ci ha che fare, eccome! Devi sapere che il carbon fossile, dove toccava quella tal roccia, era stato convertito in coke, in maniera tale che tutte quelle vene di trapp scorrevano come dentro a una vagina di coke. A qualche centimetro di distanza dalla roccia il carbone era compatto, lucente, abbruciava con fiamma viva e con quell’odore bituminoso che è un carattere così proprio del carbon fossile. Ma accostandosi alla roccia, il carbone diveniva leggero, poroso, ardeva a stento, senza fiamma e senza odore. Ho portato via dei bei pezzi di quella roccia, col suo carbone aderente, e se ti piace potrai vederli al Museo Civico36, e verificare come dalla roccia si passi al coke, e da questo gradatamente al carbon fossile. Parmi che tanto basti per ammettere come quella massa di carbon fossile a Dudley sia stata injettata di lava rovente, che bruciò dove toccava, lasciando un residuo di coke, testimonio della sua violenta azione. Ma ora torniamo a ciò che mi condusse così impensatamente a parlarvi di quella miniera.
17. » Appena posato il piede sul suolo della galleria, ci trovammo viso a viso con un uomo nero, uno di quei poverelli per cui il giorno è più fosco della notte. Il direttore gli rivolse certi monosillabi non inintelligibili a cui l’uomo nero rispose con certi cenni misteriosi. Ma.... non so come.... come avessi vissuto cent’anni coi sordomuti, intesi benissimo che il direttore aveva detto a quell’uomo: — C’è del gas oggi! — E l’uomo aveva risposto: Pillole! eccome!... — Onde rimasi a vedere che si pensasse di fare, poichè la candela cominciava già a scottarmi fra le dita: come fosse la miccia accesa per far tutto a un tratto un bel colpo. Ma il direttore mi levò presto da questa sospensione; poichè, scambiati altri pochi monosillabi coll’uomo nero, mi si volse e disse: — Desidera vedere l’accensione del gas?».
«Era matto quell’uomo!» gridò tosto una delle mamme.
«Questo dubbio non mi venne alla mente; ma lo guardai in faccia, come per dirgli: — Ehi galantuomo! mi fate celia? — Egli pensò invece che volessi dirgli: — Ho paura! — e sorrise così maliziosamente, rovesciando in alto il pugno destro, e facendo oscillare l’indice a mo’ di un gancio elastico, che.... L’inglese mi era, lo confesso, un po’ duro all’orecchio; ma quell’inglese mi sonò così italiano, anzi così lombardo.... Ma più che la vergogna mi giovò il poter dire a me stesso: — Se ci sta lui con suo figlio, vuol dire che ci si può stare anche noi. — E risposi risolutamente: — Vediamo! — Allora l’uomo nero, a un cenno del direttore, accostossi al pozzo, donde eravamo discesi, e, chino a terra, mandò giù un grido....».
«Mandò su», osservò tosto la Giannina. «Eravate in fondo al pozzo....».
«Mando giù, ho detto.... Infatti mi accorsi allora soltanto che ci eravamo arrestati, per dir così, a mezz’aria; il pozzo continuava a discendere, giù, sotto il suolo della galleria, accennando all’esistenza di altri lavori a maggiore profondità».
«C’era forse più basso un altro strato di carbon fossile?» domandò Giovannino.
«Nei distretti carboniferi37 il carbon fossile si presenta in letti sovrapposti a diversi livelli, alternati con banchi di roccia. Talvolta sono due, tre, otto, dieci letti di carbone, tutti meritevoli di scavo, e che possono essere traforati via via dallo stesso pozzo. Ma ai letti di carbone, bisogna aggiungere i letti di ferro, invariabilmente associati ai primi, a strati ugualmente alternati. Tutti ripetono che la ricchezza dell’Inghilterra consiste nel carbon fossile; e pochi sanno che la ricchezza maggiore consiste piuttosto nella provvidenziale associazione di questi due grandi fattori dell’umana industria: il carbone e il ferro; per lochè dallo stesso pozzo, colla stessa gerla, si estrae il ferro e il combustibile per lavorarlo; e l’uno e l’altro entrano immediatamente nel forno che avvampa, come perenne incendio, alla bocca della miniera. Il nostro pozzo penetrava appunto in un letto di ferro sprofondandosi sotto il suolo della galleria.
» L’uomo nero adunque lasciò cadere quel grido echeggiante a ignote profondità, e si sarebbe detto un mago che evocasse un’ombra dagli abissi.... L’ombra venne: capelli irti e scarmigliati.... faccia nera, macilenta.... occhi spalancati, attoniti, avvezzi a cercar la luce nel regno delle tenebre.... e poi, su su, un collo lungo.... e il petto, e il ventre, e le gambe, una figura lunga e magra, un vero fantasma.... Era il terribile fireman!... il più buon diavolo di questa terra che, dopo averci salutati gentilmente, si accinse a compiere il suo ufficio, informandoci di tutto con tal premura, che vi avrei voluti presenti a quella lezione così profittevole.
» Accesa una lanterna di Davy, si avanzò dapprima tutto solo fino al fondo della galleria, dove si appiattava il nemico. Dopo un breve esame a suo modo, ci fe’ cenno d’inoltrarci lasciando ad dietro i nostri lumi. Quando gli fummo allato, accostando la sua lanterna alle fessure della massa di carbone, ci mostrava come la fiammella, fioca e semispenta, accusasse la presenza del gas infiammabile che trapelava da quelle fessure. Ritraendoci di nuovo sull’ingresso della galleria, ristemmo a vedere in silenzio e coll’animo sospeso. Il coraggioso fireman, posata la lanterna, e presa una candela, si avanza con passo intrepido fino al fondo della caverna.... D’un tratto una gran fiamma investe lo sfondo, e si dilegua colla rapidità del lampa. Si dilegua; ma rimane un getto perenne di fuoco, lungo forse tre palmi, che soffia da una fessura della parete, come dal becco ben nudrito di un lampione a gas».
«E lo scoppio?» gridò Tonino, che s’era lusingato invano di veder saltare in aria qualcosa.
«Non ci fu scoppio. Il gas tonante non si era ancora formato; cioè non era giunto a un grado sufficiente la miscela del gas infiammabile coll’aria. Pensi tu che ci avrebbero voluto esporre a un pericolo per puro trastullo? Avemmo tuttavia un’idea sufficiente della potenza di quel sotterraneo nemico, e della spa ventosa rapidità delle sue invasioni. Infatti, l’uomo del fuoco volle prima mostrarci come si spegnesse quel getto di gas; e lo spense difatto con tutta facilità. Poi, avendo noi barattato qualche parola su’ due piedi ed essendo già sulle mosse per partire, il direttore ci chiese se desiderassimo di vedere un’altra volta l’accensione del gas. Rispostogli che sì, il buon fireman si avanzò impavido di nuovo in fondo alla galleria colla candela accesa. La vampa, che subito destossi, fu allora il doppio dell’altra e così viva, così somigliante a uno scoppio, che ne risentimmo quella scossa inevitabile, che sogliono imprimere ai nervi il terrore e la sorpresa; tanto più che ci venne visto, fra il bagliore della fiamma, il povero fireman cadere d’un tratto rovescioni contro la parete, come buttatovi dalla esplosione. Non fu nulla; io credo peraltro che lo stesso fireman non si aspettasse un così brusco complimento; e voi vedete, se tanto mi dà tanto, come sia formidabile quell’elemento, che entra inosservato e si aduna a preferenza nelle parti più elevate, in guisa che gli operai non ne abbiano sentore, finchè, raggiunto un certo grado di mescolanza coll’aria, scoppia d’un tratto come un barile di polvere. Basta: per la via e al modo ch’eravamo entrati, ci affrettammo a riguadagnare la superficie della terra,
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
18. » Vedete, per tornare a bomba, quanto sia vero ciò che vi diceva: — il gas infiammabile svilupparsi, come dalle salse e dalle paludi, così dagli ammassi di combustibili fossili. Si potrebbe pensare, che il gas idrogeno delle miniere di carbone derivi da estranea sorgente, e non faccia che penetrare attraverso le crepature della massa carbonosa. Ma quando in tutti i paesi, in tutte le miniere di carbon fossile e di lignite si sviluppa il gas infiammabile, bisogna dire che è generato immediatamente dal combustibile.
» La scienza del resto ci assicura, colla osservazione e colla esperienza, che i combustibili fossili, celati entro le viscere della terra, subiscono un processo quasi di lenta fermentazione, il cui prodotto è appunto il gas infiammabile. Un bel deposito di carbon fossile sotterra potrebbe quindi benissimo, se trova una fessura che lo metta in comunicazione coll’esterno, creare un vulcanetto ardente. Eccovi perciò gli scienziati a volere spiegare a questo modo l’esistenza delle salse, delle fontane ardenti, di qualsiasi emanazione di gas infiammabile. Ma se così può essere, ne consegue che sia veramente così? E quando avranno spiegato la produzione del gas infiammabile nelle salse, spiegheranno ugualmente l’associazione costante del petrolio al gas idrogeno carburato? E quando si creda di poter derivare tutti quegli idrocarburi dai combustibili fossili, nascosti in grembo alla terra, quale origine assegneranno al sale comune che in tutte le salse del mondo invariabilmente si associa con quelli?... Sono talora curiosi questi scienziati!... — Vogliamo dei fatti, — essi vi gridano, — non delle teorie, non delle ipotesi!... — Bravi! Ma, quando volete vedere sorgenti di petrolio, salse, fontane ardenti, perchè mo vi viene in mente di andarle a cercare nell’Apennino, in Sicilia, nelle regioni del mar Caspio, in luoghi dove non c’è un briciolo di terreno carbonifero? Volgetevi piuttosto ai grandi distretti carboniferi dell’Inghilterra, della Francia, della Spagna, del Belgio. — Ma negli Stati Uniti i fatti ci sono. Quei paesi possono dirsi il regno del carbon fossile e dei petrolî, tanto è vero che carbon fossile e petrolio sono come l’acciarino e l’esca. — Ma bravi! Sappiate però che anche negli Stati Uniti i petrolî si cercano nei distretti in cui non c’è carbone, e il carbone invece si scava nelle provincie dove non esistono petroli? Ma provatevi a darla ad intendere agli scienziati!... La storia delle scienze ci mostra che, quando un errore fu elevato al grado di opinione scientifica, ci abbisognano in media da due a tre secoli per estirparlo. Io per me credo, finchè non mi si provi il contrario, che i petroli e i gas delle salse e delle fontane ardenti si producono spontanei per naturale combinazione d’elementi, senza bisogno che vi si inframmettano delle forze organiche. Siccome i petroli, le salse, le fontane ardenti, si trovano distribuite in certe regioni, sopra certe zone, insieme colle sorgenti minerali e termali, colle emanazioni di vapori e di gas di natura infinitamente molteplice, cogli stessi vulcani, e fin coi terremoti; così io credo che entrino anch’essi nella schiera di que’ fatti, con cui si manifesta il vulcanismo del globo; con cui afferma la propria esistenza quell’attività multiforme, quella vita interna del globo di cui è ancora tanto impenetrabile il mistero».
Tutta questa tirata m’era venuta via, dimenticandomi affatto de’ miei uditori ordinari, e volgendomi, senza avvedermene, alle mamme, e a qualche barbone che stava ritto dietro al crocchio de’ fanciulli, e rideva sotto i baffi di quella mia sfuriata. Ma appena mi accorsi di essere fuori di strada, pensai di ricondurmivi in sull’atto, lasciando che ciascuno pensi e ragioni a suo modo.
19. «Ma voi», dissi incolpando gli altri della mia colpa, «mi avete tirato ben lontano dalle salse di Nirano, a cui non chiedemmo perchè si presentino in quel modo, tanto più che quelle salse ci hanno a servir di modello per tutte le salse del globo, e darci quindi un’idea di un fenomeno così grandioso, se si considera nella sua universalità, nella durata dell’azione e nella potenza degli effetti. Ci hanno infatti delle salse in tutte le regioni del globo, come ci hanno per tutto de’ vulcani, e, come quella de’ vulcani, la loro origine si perde nella caligine de’ secoli; e questi vulcanelli rizzano talvolta cosiffattamente la cresta da emulare i veri vulcani».
«I vulcani, tu dici?» domandò la Camilla. «Vorresti paragonare ai vulcani quelle pozzanghere, perchè vi germoglia un pochino di gas idrogeno?».
«Le salse di Nirano non offrirono infatti, che io sappia, a memoria d’uomini, alcuna di quelle spaventose eruzioni a cui alludeva testè, e di cui cercheremo altrove gli esempî. Ma l’effetto, per esser considerevole, non ha bisogno di essere rapido, improvviso e sorprendente. Vedete quel circo sterminato, scavato nella montagna? Fu scavato da quegli stessi umili borborismi che vi gorgogliano sul fondo38».
«Forse per effetto di qualche formidabile eruzione di cui non si abbia memoria?» ripigliò la Camilla.
«No; ma lentamente, senza parossismi, senza convulsioni. Per intendere bisogna che ammettiamo il principio, facilmente dimostrabile del resto, che una salsa, consistendo essenzialmente in una emanazione gasosa, avrà una forma diversa secondo che è diversa la natura del terreno da cui scaturisce. Supposto, per esempio, che il gas infiammabile sgorghi da un crepaccio di una montagna tutta di macigno, che ci può fare codesto gas? Levarsi alto, sbuffare, fischiare se fa d’uopo, ma nulla più. Vi fosse anche dell’acqua che accompagnasse il gas, essa si riverserebbe al difuori: il macigno non si stempra. Avremmo dunque o una sorgente di acqua gasosa, come se ne trova a mille, o uno di quei getti di gas, che indicammo già le cento volte, sotto il nome di fontane ardenti. Supponete invece che il terreno sia sabbioso, sia argilloso, che facilmente si diluisca, si stempri, come quello delle colline di Nirano, e di tutta la gran zona dei colli subapennini. Oh allora avremo qualche cosa di ben diverso da una semplice sorgente gasosa, come da un semplice getto di gas: avremo una salsa. Portiamoci al momento in cui la prima bolla di gas idrogeno gorgogliò attraverso l’argilla, che formava la vetta del colle sopra Nirano, resa fangosa dalle piogge recenti; portiamoci al momento in cui questa prima bolla ruppe l’involùcro39 fangoso, buttando in aria il primo schizzo di fango. Quella bolla dovette lasciare un piccolo vuoto nel suolo, embrione d’un cratere, mentre il fango, eruttato e lasciato cadere intorno al l’orifizio, pose la prima pietra di un cono. Le bolle continuano a sorgere, a scoppiare, a spruzzolare il fango all’ingiro: e il cratere si allarga, si sprofonda; mentre il cono che nasce dal sovrapporsi dei grumi fangosi, dilata le sue basi e alza il suo vertice. Se il fango gettato fuori potesse tutto arrestarsi sull’orifizio, il rilievo esterno compenserebbe matematicamente la depressione che si va formando nell’interno, e la mole del colle non scemerebbe punto. Ma la cosa non va così. Abbiamo già veduto quel fango arrestarsi soltanto in piccolissima quantità; il resto scorrere, confluire per cento ruscelli entro un canale, che lo conduce giù per la valle. Talvolta le piogge imperversano tanto, per esempio, in Sicilia, che i coni già formati si stemprano, e l’intera salsa si trasforma in un pantano fluente. Perciò solamente la depressione va di continuo crescendo mentre il rilievo, rinnovandosi le mille volte, appena si conserva quale si formò nei primi giorni in cui uscì fuori la salsa. Una salsa è dunque per una montagna argillosa un vero emuntorio40 che porta via senza compenso. Ora intenderete perchè le salse di Nirano, e credo tutte le salse del globo (quelle eccettuate che andarono soggette a vere eruzioni), presentino un circo. Quel circo, dico, non è che una fossa, scavata, sprofondata a poco a poco, a forza di sputar via del fango, se mi perdonate l’espressione. Il cratere della salsa di Nirano rappresenta non meno di 10 milioni di metri cubici di argilla esportati dalla lenta azione della salsa, associata all’azione immediata delle acque pluviali».
20. «Io credevo», prese a dire Giannina, «che il fango di quelle salse fosse eruttato precisamente come le lave dei vulcani; cioè che quel fango fosse tirato su dalle viscere della terra, chi sa da quale profondità?».
«Ma non ti ho detto che le salse di Nirano riversavano fango in gran copia durante la stagione delle piogge, mentre in tempo di siccità erano quasi asciutte anche internamente? Poi quel fango è della stessa natura delle argille, che compongono le colline. È dunque un impasto affatto superficiale; è il suolo stemprato dall’acqua pluviale, che gorgoglia, ribolle e trabocca al passaggio del gas. Accaddero bene in altre salse delle vere eruzioni; le salse si trasformarono in veri vulcani di fango, eruttando delle masse di natura affatto diversa dal terreno superficiale. Ma le salse di Nirano non soffersero mai, per quanto consta storicamente, di tali parossismi. Soltanto fui dai villani assicurato che al sopravvenire dei temporali l’attività di quelle salse s’accresce notevolmente; quei conetti sembrano irritarsi; le bolle scoppiano più tumultuose, più rabbiose, lanciando in aria il fango, fino a qualche piede di altezza».
«Le saranno fiabe», volle osservare Giannina. «Che ci hanno a fare i temporali, il brutto tempo e il bello, con quei fenomeni, che dipendono da cause interne?».
«Anche a me le sembrarono fole per lungo tempo; e anch’io come tu adesso, mi andavo dicendo: — I fenomeni atmosferici possono avere un qualche legame con fenomeni prodotti da forze sotterranee? — No certo, — rispondeva. Ma intanto scrittori antichi e moderni mi venivan fuori a discorrere seriamente di rapporti tra i cambiamenti atmosferici e i terremoti e i vulcani. Intanto il petrolio presso l’isola Trinidad si solleva vorticoso quando la tempesta è imminente; intanto lo Stromboli si irrita del cattivo tempo, e aspetta il sereno per fare la pace; anzi, d’inverno, quando più frequenti si fan le tempeste, lo Stromboli non è più quel vulcanetto così ben regolato che fino dai tempi preistorici si potè vivergli benissimo accanto; ma desta i suoi vicini con delle scosse violente, o dà lo scatto a certe eruzioni così sfrenate che talora gli squarciarono il cono da cima a fondo. Una ragione la ci dev’essere; e la c’è, vedete, semplicissima; e tu stessa, Giannina, te ne capaciterai. Gli Strombolani tengono il loro vulcano in conto di un buon barometro, a cui lasciano la cura di predire il buono o il cattivo tempo. Ed è un barometro davvero quel vulcano, come sono tutti i vulcani, tutte le salse, tutti gli ambienti ove si sviluppino o vapori o gas. Lo sprigionarsi dei vapori dalle lave di un vulcano, e del gas dalle fanghiglie di una salsa, non è in fine che una ebollizione, che si equilibra tra la potenza espansiva dei vapori o del gas, e la resistenza dell’atmosfera sovrastante. Diminuite la resistenza, come quando l’atmosfera si fa umida e tempestosa, e avrete accresciuta la potenza: i vapori, i gas si sprigioneranno con violenza maggiore....».
Intendami chi può, che m’intend’io; dovetti dire a me stesso, vedendo certi occhiacci dei piccini, che di solito nè intendono nè si curano d’intendere, e i volti pensosi dei grandi, che di solito non intendono, ma si sforzano d’intendere. Le mamme a buon conto stavano zitte.
«Vedo che così non si cammina bene.... Sentite.... L’aria pesa, n’è vero? pesando, comprime, schiaccia, tien giù.... Va bene!».
«Codesto ce l’hanno insegnato», si fece a dire la Camilla.
«L’aria pesa, e il suo peso è tale, che se l’aria di sotto non facesse equilibrio a quella di sopra, questa ci schiaccerebbe».
«Sì, farebbe di noi una stiacciata, come se ci mettessero sotto a un torchio. Benissimo!... Allora saprete anche un’altra cosa: che l’atmosfera diventa più leggera quando la pioggia minaccia, e tanto più ancora quando s’appressa o infuria l’uragano».
«Sì», ripigliò la Camilla; «e perciò appunto il barometro si abbassa, perchè basta una colonna di mercurio di minore altezza per far contrappeso all’atmosfera».
«Ve’ che ci siamo! Tu prendi, per un supposto, dell’acqua, e la metti a bollire in una pentola. Sta a vedere quando bolle, quando cioè si svolgerà del vapore, che, gorgogliando attraverso il liquido, e apparendo alla superficie, in forma di bolla rotonda, scoppierà e fuggirà via. Prima però che si sollevino i bollori, tu vedrai che il vapore già compare in seno al liquido, e si rende visibile allo sguardo per un buon numero di bollicine che sembrano vescichette, attaccate al fondo del vaso. Come si poterono
formare quelle vescichette, piene soltanto di leggerissimi vapori, quelle cavernette in seno al liquido? Il liquido ha dovuto necessariamente spostarsi, per dar luogo a quelle cavità, e spostarsi talmente, che forse dovette traboccare, prima ancora di staccare il bollore. Il liquido, spostandosi, ha dovuto spostare l’atmosfera.... e levarla su di peso, capite?». Continuano gli occhiacci dei piccini: anzi si fanno più grandi, mano mano che progredisce il ragionamento. Per i più grandi invece pare che cominci ad albeggiare, e io tiro avanti. «Dunque un liquido non può bollire, qualunque vapore o gas non può svilupparsi in seno ad esso liquido, se non a patto di spostare l’atmosfera, di vincerne il peso, la pressione. Ma per far ciò conviene che quel vapore, quel gas, acquisti una forza di espansione, che superi, almeno di un pochino, la pressione atmosferica. Vi torna?... Supponiamo ora che l’atmosfera, la quale incombe sopra il vaso messo a bollire, pesi come 10. Perchè bolla, perchè il vapore si sviluppi, basterà che abbia una tensione almeno di 11, per un supposto, e si porrà a bollire per quel tanto di più che c’è dal 10 all’11. Diciamo dunque in questo caso che bollirà per uno.... Attenti! È tempo sereno.... Bolle per uno.... D’un tratto il tempo si fa brutto; il barometro si abbassa; l’aria, che prima pesava 10, ora pesa 9. Ma il nostro liquido ha una forza per 11.... bollirà dunque per quel tanto di più che c’è dal 9 all’11.... Nove e due undici.... Bollirà per due, e per due si solleveranno le bolle, per due scoppieranno, e due volte più lontano saranno lanciati gli spruzzi....».
«Capito!» gridarono in coro anche i piccini; i quali, vedendo come tutti avessero inteso, si persuasero di aver capito anche loro.
«Ecco perchè i vulcani, le salse, comprese le nostre di Nirano, montano sulle furie quando il tempo minaccia».
«E quelle grandi eruzioni di cui volevi parlare?» domandò la Giannina.
«Eh! sì.... Queste benedette digressioni.... Che ora è?... Misericordia!... già le undici!... Buona notte! buona notte!».
Note
- ↑ Un dei fatti meglio chiariti dalla geologia moderna è lo straordinario sviluppo presentato dai ghiacciai delle Alpi, anzi di tutte le regioni del globo in un’epoca molto antica, ma che i geologi, avvezzi a contare gli anni per milioni, chiamano recentissima. Pare che l’epoca glaciale abbia preceduto immediatamente la comparsa dell’uomo in sulla terra. I ghiacciai del nostro versante alpino si avanzarono fino ai lembi della nostra grande pianura, allora coperta dal mare, e si tuffarono nel mare stesso raccogliendo sul dorso lo sfasciume delle Alpi, e depositandolo poi quaggiù dapprima come impasto di ciottoli alpini e di conchiglie di mare, poi in morene gigantesche, le cui reliquie costituiscono la prima serie delle colline prealpine allineate lungo il limite settentrionale della pianura. I fiumi, demolendo quei mucchi, e distribuendone detrito in letti di ciottoli, di ghiaje, di sabbia, di argille, fabbricarono la pianura, in seno alla quale pertanto noi troviamo i ruderi delle Alpi che, arrotondati in ciottoli, compongono il selciato delle città lombarde.
- ↑ Due versi del poemetto giovanile di Alessandro Manzoni intitolato Urania. Voglion dire: Sulle rive ove prospera il pioppo (in latino populus) e sulla pianura ove vivono e lavorano in copia i cavalli in servizio dell’agricoltura.
- ↑ Il granito è una roccia composta di tre minerali cristallini, quarzo, feldspato e mica. Questa roccia è troppo volgarmente nota, come quella di cui si compone il lastrico non solo delle nostre città subalpine, ma di quasi tutte le città d’Europa. I Lombardi lo chiamano sarizzo, e ne distinguono le varietà coi nomi di ghiandone, miarolo, sanfedelino, ecc.
- ↑ La diorite roccia composta di feldspato e di amfibolo, è forse la roccia più abbondante tra i ciottoli del selciato di Milano.
- ↑ L’anfibolo, detto anche orneblenda, è un minerale in cui la selce si combina con ferro, magnesia e calce. All’aspetto somiglia alquanto al vetro delle così dette bottiglie scure.
- ↑ Feldspato, è nome collettivo, che si applica a un certo gruppo di minerali cristallini, composti di selce, allumina, potassa, soda e calce. Nei ciottoli variegati la parte bianca consta generalmente di feldspato.
- ↑ Le cipree (cypraea), dette anche porcellane, sono conchiglie marine, che hanno la forma quasi d’un ovo, spaccato pel lungo, con la superficie che lustra come la porcellana. Molte specie sono vagamente e variamente tigrate, come lo dicono i diversi nomi di tigre, di lince, di radice, ecc., coi quali i naturalisti le distinsero.
- ↑ L’ofite è ancora una diorite; ma i cristalli di feldspato, colle loro sezioni quadrilaterali, spesso geminate, in modo da delineare piccole croci, le danno l’aspetto della pelle tassellata dei serpenti. Fu perciò detto ofite dalla parola greca ofis che significa serpente.
- ↑ Il quarzo è la selce allo stato cristallino. I ciottoli di quarzo hanno l’aspetto generalmente di un vetro bianco opaco; ma nel selciato li vedrete molte volte presentare una tinta affatto gialla per la ruggine, ossia per l’ossido di ferro che vi sviluppa l’umidità. Le agate, le pietre focaje, sono anch’esse selce, ossia quarzo, ma non cristallizzato. Si calcola che il quarzo, libero e combinato con altri elementi, costituisca la metà del globo terraqueo.
- ↑ Il serpentino è una roccia composta di selce e di magnesia.
- ↑ Le arenarie, dette anche grės dai naturalisti, sono rocce composte generalmente di grani di quarzo insieme cementati, che noi Lombardi chiamiamo molera, e i Toscani macigno e pietraforte.
- ↑ Le lastre di granito di cui sono composti i marciapiedi e le rotaje delle vie di Milano, provengono per lo più dalle cave di Montorfano, presso Intra sul lago Maggiore.
- ↑ Distinguerete facilmente il mica vedendolo luccicare nella sabbia, che sembra perciò seminata di pagliette d’argento. È generalmente bianco e trasparente come il vetro. Si trova talvolta in lamine elasticissime, che avrete veduto forse sostituirsi ai tubi di vetro nelle lucerne, molto utilmente, perchè nè si spezzano cadendo, nè si screpolano arroventandosi. Sono celebri le lamine di mica fornite dalle rocce granitiche della Siberia, dell’Indostan, degli Stati Uniti, che nelle navi da guerra si sostituiscono ai vetri, non soffrendo come questi per gli spari delle artiglierie.
- ↑ Quelle vetture da un sol cavallo che stanno postate per le vie in servizio del primo che le noleggi, a tariffa stabilita dal comune. Scrivere brougham mi pare ormai un’affettazione, era anzi tentato di scrivere brumme, parola che suona bene e avrà forse il vantaggio di essere annoverata fra le denominazioni onomatopèiche. Ma pensai: sono Lombardo, il che vuol dire che non ho in fatto di lingua, i diritti civili. Quando l’ultimo facchino di Firenze vi dirà per esempio: «Signore, desidera un brumme?» allora scommetto che la parola si troverà deliziosa, quanto i semelli, i chiffelli, i fiaccheri, ricevuti a braccia aperte da chi riduce tutta la lingua all’uso fiorentino.
- ↑ In milanese piè dolci.
- ↑ S. Matteo, cap. VI. v. 26.
- ↑ Alessandro di Humboldt, nato a Berlino il 14 settembre 1769, viaggiò l’America e l’Asia, e s’acquistò rinomanza universale cogli studî da lui fatti nell’astronomia, nella geografia fisica, nella storia naturale specialmente nella botanica. L’ultima, come la più popolare, delle opere da lui pubblicate, nella quale è espressa la natura enciclopedica del suo ingegno, è il Cosmos (l’universo), ove intese di presentare, come in un solo gran quadro, gli ultimi risultati delle scienze fisiche e naturali. Morì il 6 maggio 1859.
- ↑ Abich, chimico e geologo assai valente, stabilito a Tiflis. Scrisse un’opera sul Vesuvio, e diverse memorie sull’Ararat, e sui fenomeni vulcanici delle penisole di Kerc (Kertsch), e di Taman, tra il mar Nero, e il mar d’Azof, e della regione occidentale del Caspio, tra l’estremità orientale del Caucaso e il confluente dell’Araes e del Kur, ecc.
- ↑ Si dicono sinonimi due vocaboli che abbiano suono diverso e significato affine, come testa o capo. Si dicono omonimi due vocaboli che abbiano suono uguale e significato diverso, come viola fiore, e viola strumento da suono.
- ↑ Pozzuoli (l’antica Putèoli) è città sulla baja o golfo dello stesso nome a ponente di Napoli. A mezza via tra Napoli e Pozzuoli, in linea retta, si trova la solfatara, uno de’ vulcani spenti, appartenenti al gran gruppo de’ Campi Flegrei. Ebbe una grande eruzione nel 1198, e ne uscì una enorme corrente di lava. Adesso il suo cratere è coperto di vegetazione. In un canto però havvi una piccola caverna da cui si sprigionano densi vapori acquei, ad alta temperatura, ricchi di molti sali. Scavando a breve profondità si sente che il suolo scotta, quasi fosse la volta di una fornace ardente.
- ↑ Preromano vuol dire anteriore alla fondazione di Roma che si stima avvenuta verso il 753 prima di Gesù Cristo. Preistorico si suol dire non soltanto ciò che rimonta ad un’epoca anteriore alla storia dell’umanità in genere, ma anche ciò che esisteva in un’epoca anteriore a quella a cui risale la storia riferibile ad una regione speciale, per esempio, alla Grecia, all’Italia.
- ↑ Greto d’un fiume, terreno ghiajoso lasciato in secco dal ritirarsi delle acque. — Greticcio, luogo somigliante ad un greto.
- ↑ Lenti piano-convesse diconsi quelle che hanno una faccia piana e l’altra convessa. Foco d’una lente è il punto in cui la lente fa convergere i raggi luminosi che l’attraversano.
- ↑ Racconta Erodoto (lib. VI) che presso Ardericca nella Cissia, era un pozzo di proprietà privata di Dario re dei Persiani, da cui si estraeva olio, bitume e sale. Era dunque una salsa.
- ↑ Liegi (Liège, Luttich, Luik) città del Belgio, al sud di Bruxelles, al confluente dell’Ourte colla Mosa.
- ↑ Sono celebri da secoli le miniere di carbon fossile di Newcastle-on-Time, in Inghilterra, a 13 chilometri dalla foce del Tyne nel mare del Nord. Se ne cavano ogni anno 4 milioni di tonnellate.
- ↑ D. Giuseppe Bianconi, Storia naturale dei terreni ardenti, ecc. Bologna, 1840.
- ↑ Umfredo Davy (pronunziate Devi), chimico inglese, nacque nel 1778 a Penzance in Cornovaglia e morì a Ginevra nel 1829. Nel 1820 fu eletto presidente della Società Reale delle Scienze di Londra. Fece molte scoperte ed invenzioni utilissime, e, più popolare di tutte, quella della lanterna, in cui la fiamma è circondata d’una fitta reticella metallica per impedire che l’accensione si comunichi dal gas interno all’esterno; e ciò per una legge tisica per cui la fiamma, in certa guisa, si tronca all’incontro della reticella metallica, e non può passar oltre. Quando il gas infiammabile invade una miniera, nella lanterna del minatore si accende subito al contatto della fiamma quella porzione di gas che vi è penetrata; e questa comunicherebbe l’accensione al gas dell’ambiente, se il metallo della reticella, per essere bonissimo conduttore, non assorbisse calore nell’atto che questo si propaga dal didentro al difuori della lanterna. Prima che la reticella sia tanto riscaldata da trasmettere il calore al gas esterno, il minatore ha tempo di provvedere alla propria salvezza, se non altro collo spegnere il lume.
- ↑ Le aurore boreali, o polari, frequentissime verso il polo artico, forse meno frequenti al polo antartico, si mostrano assai di rado e assai men belle nelle zone temperate e nella torrida. Quando appajono verso il polo antartico si chiamano aurore australi. Verso il polo artico è rarissima quella notte che non sia rallegrata da questo maestoso fenomeno, il quale varia sempre di forme, di colori, di splendore e di durata, ma descrive quasi sempre un semicerchio luminoso, la cui tinta predominante è il rosso infocato. Pare che sia l’effetto o di una perturbazione dell’elettricità atmosferica, o del suo ritorno allo stato normale; sarebbe allora una specie di lampeggio di lunga durata. Certo è che all’apparire di questo fenomeno tutti gli apparati elettrici fanno festa di ballo; e che ultimamente, tra noi, i fili dei telegrafi elettrici non trasmettevano più i segnali e davano spontaneamente scintille.
- ↑ Il gas tonante non è semplicemente il gas idrogeno carburato, ossia gas infiammabile, ma risulta della miscela, in certe proporzioni, del gas infiammabile coll’ossigeno dell’aria. Il gas tonante fa l’effetto della polvere da cannone.
- ↑ Glasgow, città della Scozia, distante 70 chilometri da Edimburgo verso ponente, conta coi sobborghi quasi 450 mila abitanti. È edificata in mezzo ad una grande pianura composta di terreno carbonifero, e quindi circondato da un numero infinito di miniere di carbon fossile.
- ↑ Pronunziate fair-man.
- ↑ Bianconi, opera citata.
- ↑ Moto di su e giù, a scosse.
- ↑ Filo elastico di ottone, ravvolto in spire parallele, che s’inguainava nei laccetti o nelle stracche perchè divenissero elastici. Sostituito in oggi dalla guttaperca.
- ↑ Il Museo Civico di Milano raccolto nel già Palazzo Dugnani a ponente dei Giardini Pubblici.
- ↑ Chiamansi distretti in geologia quei tratti di terreno, in cui s’incontra quel tal minerale o quella tale formazione geologica.
- ↑ Borborismi, borbogli, bollitori, sono anche nomi con cui si indicano le salse nell’Apennino centrale e meridionale.
- ↑ Una volta nelle nostre scuole ci s’insegnava a proferire latinamente involucro. Pronunziate pure involùcro.
- ↑ Emuntorio, voce latina, derivata dal verbo emungere che significa mungere e portar via, si usa nella scienza per indicare tutto ciò che serve a scaricare e togliere da checchessia gli umori soverchi.