Il bel paese (1876)/Serata XV. - I pozzi di petrolio
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SERATA XV
I pozzi di petrolio.
I pozzi a gas idrogeno di Salsomaggiore, 1. — Un pozzo alla chinese, 2. — Virtù medica del petrolio, 3. — I bagni, 4. — Confronto tra gli Apennini e le Alpi, 5. — I pozzi del Sahara, 6. — I pozzi di Miano, 7. — A tu per tu colla morte, 8. — Scena del Sahara in Italia, 9.
1. «Vi promisi l’ultima volta di condurvi meco a vedere dei pozzi di petrolio senza arrischiarvi nè sull’Atlantico, nè sull’Oceano Indiano, o nella Pensilvania o nella California e nella Cina. Andiamoci colla ferrovia, e ci troveremo in breve’ ora alla stazione di S. Donnino, tra Piacenza e Parma; e di là, con una buona camminata, a Salsomaggiore».
«Dov’è andata l’anno scorso la zia a fare i bagni?» interruppe la Camilla.
«Appunto: quei bagni sono molto frequentati dai Milanesi. Ma sai di che natura essi siano?... Noi vi faremo una breve sosta, poichè, sapete? siamo già nelle regioni settentrionali della Cina.... Che? ridete? Non vi ricordate di quanto vi accennai di certe meraviglie della Cina?».
«Oh sì!» rispose la Giannina per tutti. «Non mi ricordo di certi nomi strani; ho però benissimo in mente che vi hanno pozzi di gas infiammabile, montagne ardenti....».
«Bravissima. Gli ho-scian, ossia montagne ardenti, li vedremo altrove; per ora ci basti di vedere gli ho-tsing, ossia le sorgenti di fuoco».
«Il nome di Salsomaggiore (chè vi ha poi anche Salsominore lì presso) deriva certamente dalle sorgenti salate, utilizzate per la fabbricazione del sale fin da tempi antichissimi. Vuolsi che le saline1 di Salsomaggiore rimontino a ducent’anni prima dell’era volgare. Le sorgenti salate, che sgorgano a centinaja in tutte le regioni del globo, avranno certamente servito allo stabilimento delle prime saline, ossia delle prime fabbriche di sale. Adesso l’acqua salata bisogna cercarla a grandi profondità, scavando dei pozzi; e in questo modo appunto si alimenta colà l’industria delle saline, che vi ha preso un bell’incremento. Ebbene, quei pozzi sono altrettanti ho-tsing. Io mi affacciai alla bocca di uno, a cui si attinge l’acqua salata. Un odor acre, puzzolento, insultando alle nari e irritando il polmone, mi avvisò che il gas infiammabile sfuggiva in abbondanza dal pozzo, levandosi in alto, perchè assai più leggiero dell’aria. Ficcando in fondo in fondo gli occhi, fatti lagrimosi dalle acute punture di quel gas, vedevo l’acqua gorgogliare, quasi bollisse lentamente, e sentivo come il rumore d’una caldaja che cominciasse a grillare. Guai se in quel pozzo un imprudente gettasse, per esempio, uno zolfino acceso! Quel gas, mescolandosi coll’aria entro la gola del pozzo, produce quello che i fisici chiamano gas tonante, appunto perchè si accende e scoppia, e tuona, come la polvere da cannone».
«Sono dunque molto pericolosi quei pozzi?» osservò la Camilla.
E come!... Gli operai ne discorrono come di cosa terribile, ricordandosi delle esplosioni e delle vittime, che a volte a volte vennero loro rammentando con che scrupolosi riguardi vada trattato quell’ospite iroso e formidabile.
«Al gas idrogeno si aggiunge un altro ospite di nostra conoscenza. Se i pozzi fossero più chiari, e la vostra vista più lunga, voi vedreste sullo specchio dell’acqua distendersi come un velo gialliccio, ondeggiante, che a lasciarlo fare, diverrebbe denso e nero. È il petrolio, che sgorga colle acque, e galleggia sovr’esse. Se no’l vedete in fondo al pozzo, vi appare peraltro alla superficie delle vasche, ove le trombe versano di continuo l’acqua salata, la quale, purificata dal petrolio in quelle vasche medesime, è condotta poi a svaporare, a furia di fuoco, nelle caldaje. Da queste si estrae finalmente il sale, bello e puro, che si fornisce in qualità considerevole al governo, il quale ne mantiene, come sapete, la privativa. Qui insomma abbiamo in piccolo ciò che la Cina vi presenterebbe in grande. Il missionario Imbert racconta infatti come nella provincia (sentite che bel nome) di Hoo-tongkiao si trovino, sopra un territorio di mediocre estensione, parecchie decine di migliaja di pozzi, scavati da tempo immemorabile per trarne le acque salate, i bitumi, e il gas infiammabile2. — Quest’ultimo come vi dissi, è usato nell’illuminazione, e, adoperato come combustibile in luogo della legna o del carbone, serve a cristallizzare il sale nelle caldaje, le quali sommano a più di 300 in un solo stabilimento. Quando io visitai le saline di Salsomaggiore, queste, nel loro piccolo, non avevano più nulla da invidiare alla Cina, poichè vi si stava scavando un nuovo pozzo, precisamente col metodo con cui si scavano in Cina».
2. «O che? mandarono forse colà qualcuno a pigliarne il modello?» domandò Giovannino.
«Si può dire che sia stato veramente così. Difatti quello stesso missionario Imbert recò in Europa un metodo di scavo altrettanto semplice quanto ingegnoso, che tornò il conto di adottarlo, anche dopo che l’arte dei trafori aveva fatto da noi grandi progressi. Prendete una palla di ferro, e sospendetela ad una cordicella, che tenete fra le dita; poi alzate e abbassate alternatamente la mano, in guisa che la palla di ferro batta, con tutto il suo peso, sul pavimento; gli è certo che alla lunga il pavimento ne sarà acciaccato e traforato, foss’anco di marmo il più duro Ecco il metodo chinese».
«Ingegnoso davvero!» sclamò ridendo Giannina.
«Eppure con questo metodo, cioè con una testa d’acciajo, pendente da una corda, che per un meccanismo molto semplice sale e scende continuo percotendo il suolo, i Cinesi riescono a spingere alla profondità di 15003, e vuolsi fin di 3000 piedi4, un pozzo, ossia un foro perpendicolare, liscio come uno specchio, con una luce di soli 5 a 6 pollici di diametro5. La testa d’acciajo, o meglio un certo arnese più complicato e più opportuno, che lavorava a Salsomaggiore, si era già cacciata in pochi mesi alla profondità di 118 metri, e stava cozzando in quel punto con uno strato durissimo di macigno».
«Anche a Salsomaggiore», chiese Marietta, «utilizzano il gas infiammabile come i Cinesi?».
«Quando ci fui io, non ci si era ancor pensato. Mi dicono però che adesso, mediante opportuni apparati, traggono partito, come i Cinesi dal gas, per produrre l’evaporazione delle acque salate nelle saline».
3. «E il petrolio? lo raccolgono?».
«Lo raccolgono sì. Per isventura è un non nulla. Mi si assicurò che il prodotto annuale non oltrepassa i dieci ettolitri, quantità che si consuma tutta in quei paesi, come medicamento».
«Come medicamento?» fece, sorpresa, Giannina. «Si fa uso del petrolio in medicina?».
«Certamente: fino i selvaggi dell’America ne conoscevano la virtù medicinale. Nell’Emilia poi il petrolio è tenuto come la panacea6, e si dà specialmente ai bambini, che sono, o si credono, ammalati di vermi. I dieci ettolitri di Salsomaggiore non pareggiano la ricerca. Sentite che curioso commercio se ne fa o almeno se ne faceva. Una mamma, una balia, che abbia il bimbo ammalato, riempie un’ampolla di olio da ardere, e s’incammina verso le saline di Salsomaggiore; là giunta, consegna la sua ampolla, che, vuotata nel recipiente dell’olio d’uliva provvisto per l’illuminazione dello stabilimento, le vien consegnata piena di petrolio».
«E la si dà a bere ai bambini questa porcheria?» ripigliò Giannina.
«Non credo: se ne ungono invece le nari, il petto.... che so io? come piace a quelle medichesse. Del resto il petrolio, anche preso per bocca non è veleno, e può darsi che sia una medicina in certi casi. Mi ricordo di un Toccolano, che mi vantava la bontà del petrolio. Per darmene una prova, intinse il dito in quel petrolio di Tocco, denso come la pece, e recosselo bravamente in bocca, succhiandosi quel viscidume, come voi fate così piacevolmente col sugo di liquirizia». Gli uditori risero e guardarono Tonino, che aveva atteggiato la bocca ad un sorriso delizioso, nè fu in tempo a celare l’atto di chi inghiotte l’acquolina, corsagli spontaneamente alla bocca. E’ passa fra i nipoti come il più celebre dilettante di sugo di liquirizia.
4. «E codesti bagni di Salsomaggiore», domandò una delle mammine, a cui erano stati suggeriti dal medico, «si fanno forse con quelle acque salate?». «Non precisamente. Ai bagni servono piuttosto le acque-madri, quelle acque cioè, cariche di sali diversi, che restano nelle caldaje, quando il sale comune si è già posato e cristallizzato, e si spediscono anche lontano in cassette per chi voglia convertire l’acqua comune in acqua di Salsomaggiore. Ma affrettiamo un po’ il passo, perchè ci restano troppe cose a vedere.
» Io non m’arrestai che una volta a Salsomaggiore, e il dì seguente presi la via tra le gambe, e su pei monti, rimontando da prima il letto del torrente Chiaja; quindi, per erti sentieri, salendo le pendici del monte Canà, ove torreggia una bellissima rupe di serpentino verde cupo, che colà chiamano pietra nera. Viaggiavo allora in compagnia di un amico, venuto con me ad esplorare i luoghi petroleiferi con mire industriali. Contavamo di pernottare a Pellegrino, paesotto che sta a mezzodì del monte Canà, a cavaliere del torrente Schirone7, per potere di buon mattino pigliare il sentiero, che ci doveva condurre a S. Andrea del Taro, a Miano, a Riccò, a Neviano, tutti luoghi segnalati dagli autori come petroleiferi. Infatti, la mattina seguente, noleggiati due ciuchi e i due rispettivi conduttori, riguadagnammo la vetta della catena, attraversata il giorno prima, che dal monte Canà si stacca dritto dritto, verso levante, fino a Taro.
5. » Mi ricorderò sempre di quella gita deliziosa, in una di quelle giornate, per cui un po’ immeritamente il settembre ha voce d’essere il più bel mese dell’anno. Dico immeritamente, perchè esso non si cura poi troppo di giustificare la sua fama, e ci regala delle quindicine di piogge, da disgradarne l’ottobre e quasi il febbrajo e il marzo. Ma una bella giornata di settembre, con quei tratti di cielo così chiaro, con quell’aria così fresca e così tepida.... Oh! me ne ricordo, e mi ricordo anche di quella impressione tutta nuova che mi fece la natura dell’Apennino, così diversa da quella delle Alpi. Chi ritorna da una corsa negli Apennini, non vi dirà certamente d’essersi assiso sulla sponda di un limpido torrente, che precipiti di cascatella in cascatella, accarezzando e spruzzando gli scogli marmorei e cristallini, e d’aver tuffato il viso, acceso dalla vampa del sole, nella freschissima onda. I torrenti dell’Apennino scorrono solitari in fondo alle valli deserte, perduti entro lo sfasciume, che di continuo si rinnova, sudicio e melmoso. Pochi anzi sono perenni: per lo più, oggi gonfi e impetuosi, domani esausti, alternano le ingrate torbide, colle siccità lunghe e uggiose. Ove le valli si allargano, voi udireste chiamarsi fiume un letto sformato, di sabbie o di ciottoli, che altrove sarebbe detto landa o deserto. Si direbbe che nelle Alpi la vita sociale è addensata in fondo alle valli, mentre nell’Apennino cerca le cime dei monti. Nelle Alpi le borgate, i villaggi, i casolari, segnano, o come punti allineati, o a lunghe strisce biancheggianti, il corso delle grandi, come delle piccole vallate. Dalle magnifiche strade che, ripetute a larghi intervalli, guidano le colossali vetture attraverso la massima giogaja d’Europa, fino al pauroso sentiero, che porta il cacciatore sulle tracce del camoscio, tutte le vie delle Alpi seguono, quasi invariabilmente, il corso delle acque, ch’esse accavalciano su mille ponti, serpeggiando continuamente dall’una all’altra sponda. Il viaggiatore, o in fondo ad una gora, o a mezz’aria, tra due precipizî; uno che si leva alle stelle, l’altro che si sprofonda negli abissi, si sente compreso di quell’orrido sublime per cui ti danno le Alpi così intenso diletto. Se vuole i larghi orizzonti, se vuol dominare le cime che nuotano come i marosi nel cielo, gli bisogna affaticare l’anelito sulle vette arditissime tra le più ardite. Nell’Apennino tutto l’opposto: le valli sono deserte, in balia dei torrenti che le rodono; i fianchi dei monti son tutti in isfacimento: sui terreni che smottano un sentiero non ci si regge, e un’orma appena impressa si cancella. Le smotte del terreno si temono dai contadini nell’Apennino, come da quelli delle nostre Prealpi le grandini. Case, con pezzi di terreno coperti di alberi, sdrucciolano talora dai fianchi dei colli, fino al fondo delle valli, senza scomporsi. Perciò i villaggi coronano le alture, e si guardano dalle opposte vette: d’altura in altura corrono le strade e i viottoli, che talora si svolgono come un nastro ondeggiante, quasi segnando il filo di una gran lama guasta dal tempo. Il viaggiatore domina sempre i luoghi bassi. Oh come fu deliziosa quella gita lungo l’angusto sentiero che scorreva di vetta in vetta, di pendio in pendio, sempre sul filo dello spartiacque! Alla destra il Ceno, che si sforza per giri e rigiri di raggiungere il Taro: alla sinistra il Parola, il Camparola, il Dordone e altri minori torrenti, erranti per entro a un labirinto di colline, talora coperte di verdura, talora rase così che non vi scorgi un filo d’erba, talora giardini, talora deserti di ceneri. Ma lo sguardo sorvola quelle alture, e si posa sull’immensa pianura, ove si distendono i pingui colti, ove biancheggiano, come lini distesi al sole, tanti villaggi, tante città, e giù giù fino al Po, accennato da una striscia nebbiosa nel lontano orizzonte, e ancora giù giù fino al mare, se la vista fosse men corta. Anche l’Apennino è bello, co’ suoi boschi di castagni, colle sue rupi di serpentino, così brulle, nere, irte, adocchiate un giorno bramosamente dai tirannelli che vi piantarono i loro covi. Ora le rupi e i castelli non servono che a rompere la monotonia di un paesaggio, che per poco non ci diventa troppo uniforme e monotono. Ma voi volete trovarvi finalmente a vedere quei pozzi di petrolio, di cui promisi parlarvi, quasi fossero una novità, anche dopo aver veduti quelli di Salsomaggiore. Vi ha molti di tali pozzi petroleiferi sopra una cert’area attraversata dall’immenso letto del Taro; ma una novità veramente non sono, nè io vorrei parlarvene, se non avessi avuto la fortuna di vedere come si scavano; se pure è fortuna il vedere ciò che, appena a pensarci, mi fa raccapriccio».
6. » Infatti quando giunsi a S. Andrea del Taro, dove s’incontrano i primi pozzi, quindi a Miano, dove si continuano i trafori, mi toccò assistere ad una scena veramente degna del Sahara».
«Forse perchè gli è un deserto quel luogo?» domandò ingenuamente Giannina.
«No.... non per l’ingratitudine del terreno, quantunque veramente abbia poco da far invidia al deserto; ma per i costumi, o, a dir meglio, per lo stato dell’industria, che vince in barbarie gli abitatori del deserto. Non avete mai sentito dire come si scavino i pozzi nel deserto di Sahara?».
«Che se non c’è nemmeno acqua, e ci si muore di sete!» osservò Giovannino.
«Ebbene, allora avrai piacere di formarti una più giusta idea di quei luoghi, a cui la Provvidenza ha pensato meglio che non credi. Avrai inteso dire che il deserto è sparso di oasi; e sono giardini e foreste, abitate da numerose tribù. Molte di quelle oasi sono irrigate non altrimenti che per mezzo di pozzi artesiani, la cui arte fu esercitata dagli Arabi migliaja e migliaja di anni prima che da noi. Ma i secoli non valsero a renderla meno barbarica. Sentite ciò che narra in proposito il signor Desor che visitò il deserto nell’inverno del 1864, se ben mi ricordo. Anzi tutto ci avverte che ad una profondità di 160 piedi8 si trova un gran corpo d’acqua la quale, quando si trafori il suolo, sorge impetuosa e scaturisce in un getto all’aria aperta. Gli Arabi lo chiamano il mar sotterraneo; ed è veramente un mare, se, come si raccoglie da certi dati, può credersi esteso a tutto l’immenso deserto. Ma non è piccola impresa per gli Arabi lo scavo di un pozzo, che assorbe talvolta anni interi di lavoro. Anzitutto l’armatura interna dei pozzi, per la quale impiegano il debole legname delle palme, difficilmente si regge, quando poi, dopo lunga fatica, i pozzari hanno raggiunto l’ultimo strato, che fa velo alle acque, queste sprizzano fuori con tal veemenza, che talvolta non danno lor tempo di salvarsi. Inoltre que’ pozzi a poco a poco s’interriscono, cioè si riempiono di sabbia, e bisogna purgarneli. Vi ha una certa classe speciale di persone che se ne incaricano, tramandandosi il mestiere di padre in figlio; nè si crederebbe che, dopo tante generazioni, il loro modo di procedere sia tanto primitivo e disagioso. Uditelo, da un aggiunto alla spedizione francese nell’Algeria che fu incaricato dello scavo di una serie di pozzi artesiani nel Sahara orientale, per estenderne l’irrigazione.
» I pozzi, armati di palme fesse, discendono da 45 a 80 metri. Trapassata tutta la grossezza del terreno detritico sabbioso, s’incontra pel solito un gesso impuro, schistoso (cioè quasi composto di foglie gessose sovrapposte). Talora il gesso è sostituito da uno strato argilloso bianco-verdastro. È il tetto del mar sotterraneo che scorre nelle sabbie. L’acqua, appena traforato il gesso, sgorga impetuosa, trascinando seco molta sabbia in sospensione, che, col diminuire della forza ascensionale, a misura che cresce l’altezza dell’acqua nel pozzo, si depone sul fondo, creando un ingorgo alla sorgente. Bisogna purgarlo, perchè l’acqua compia la sua ascensione e fluisca dalla bocca di esso.
» L’operazione di spurgare i pozzi dalle sabbie, è orribilmente penosa per gli Arabi. Una semplice forca, piantata alla bocca del pozzo, sostiene una corda che scorre sulla traversa, ed a cui è confidato il paniere, che il pozzaro deve riempire. Una seconda corda è fissa al fondo per mezzo di un peso, e serve al pozzaro di ajuto e di segnale. Il pozzaro, razza per lo più tisica e abbrutita dall’abuso del kif (specie di canapa che si fuma), si riscalda a un gran fuoco, scende nel pozzo, s’immerge nell’acqua fino alle spalle, e fermo all’armatura del pozzo, fa le sue abluzioni, mormora la sua preghiera, tossisce, sputa, sternuta, si soffia il naso, fa una serie d’inspirazioni e di espirazioni assai fragorose, poi si lascia sdrucciolar giù attenendosi alla corda. Riempie il paniere e rimonta. Se fa segno di soccorso, un altro si precipita immediatamente nel pozzo. L’autore vide anche precipitarsi un terzo in ajuto dei due, e rimontare il primo sopra il secondo, il secondo sopra il terzo. Ciascun pozzaro non fa che quattro viaggi in un giorno, riportando al più 40 litri di sabbia in tutto.
7. » Voi meravigliate di tanta barbarie: eppure ce n’è poco meno da noi. State a sentire. Per visitare i pozzi di Miano bisogna discendere nella piccola valle detta del Rio Campanaro. Non vi aspettate nulla di ameno, nulla di pittoresco. Io non mi trovai sott’occhio che un borro arido, sterile, come scavato entro una montagna di cenere, sparso di tumuli che gli davano l’aspetto quasi di un cimitero abbandonato. Quei tumuli non accennavano in vece che pozzi scavati, poi otturati, cioè riempiti di terra, perchè esausti. Nella parte più bassa vedevansi ancora tre o quattro pozzi, che mi si indicarono come attivi, e più oltre scorsi un gruppetto d’uomini, intenti a scavarne uno nuovo,
» Quei pozzi sono perfettamente cilindrici, a gola di mattoni ben costrutta, e del diametro di circa un metro e mezzo. Ma non hanno parapetto, e la bocca si apre a fior di terra. L’indizio della loro attività consiste in un pesante coperchio di legno a cataratta, che si adatta alla bocca del pozzo, alla cui sponda si raccomanda per mezzo di un catenaccio, assicurato con un lucchetto. Noi eravamo guidati dal custode il quale ne teneva la chiave, ed era munito di quanto occorreva per attingere il petrolio. Levata la cataratta ad uno di quei pozzi, mi senti sul l’istante pizzicate le nari dall’idrogeno, e ficcando gli occhi giù in fondo, lo vedevo infatti sprigionarsi, lentamente gorgogliando, dall’acqua. Sull’acqua stessa galleggiava il petrolio, puro, limpido, trasparente, di un colore d’ambra, come è talora la lucilina. Vidi infatti un signore di quei paesi che ardeva il petrolio di Miano, senza alcuna preparazione, nelle lucerne dette comunemente alla lucilina; e la fiamma era appena un po’ meno bianca di quella che è data da lucilina di buona qualità».
«E quel petrolio», chiese Giovannino, «come si estrae? I pozzi saranno profondi....».
Profondi al certo, mentre discendono fino a 70 metri. Eppure non ci esistono nè trombe, nè macchine idrauliche di nessuna specie. Sarebbe un lusso soverchio per sì poca roba. Ogni sette, ogni quindici giorni, o quando la gli batte, il raccoglitore del petrolio scende al pozzo colla sua lunga fune, a cui raccomanda un secchio di rame o di ferro. Così io lo vidi, curvo sul margine interno del pozzo, e in tali condizioni di equilibrio, che non escludono al certo il pericolo di un capitombolo di 70 metri. Calò la fune, finchè il secchio si tuffasse mezzo nell’acqua, e li dondola, dimena, con un’ondulazione che dalla mano si trasmette alla corda, dalla corda al secchio, di tal guisa che il labbro di questo sfiori il liquido a foggia di ramajolo. L’operazione ha tutto il merito del minimo mezzo impiegato ad ottenere un effetto sufficiente, tanto che il secchio ritorna pieno di petrolio con pochissima acqua. E come si fa a sceverarlo dall’acqua? Indovinate un po’?... Anche qui un processo preadamitico, ma bastante allo scopo. Il mio uomo die’ di piglio ad un imbuto, e accomodatolo nella mano sinistra in guisa di turarne coll’indice il becco, gli versò il liquido misto nella bocca. L’acqua, come più pesante, si raccolse tutta nel fondo; e lui, il birbone, ritirando l’indice lasciò che uscisse, affrettandosi a turar di nuovo appena gli parve che dietro all’acqua comparisse il petrolio. Vi pare che quella sia industria? Ma state a sentirne di più belle, che si riferiscono allo scavo dei pozzi.
8. » Vista l’operazione che v’ho detto, mi affrettai a discendere più basso dove si scavava il nuovo pozzo. Quel gruppetto di lavoratori era di quattro quando io vi arrivai; un quinto si sentiva parlare di dentro il pozzo, a pochi metri di profondità, nè tardò a far la sua comparsa, sospeso, oscillante come un pendolo sul nero abisso, ma senz’altro pensiero che la meraviglia di trovarsi ad un tratto in faccia a testimoni inaspettati. Ebbi campo allora, interrogando i pozzari, di conoscere le più minute particolarità del loro tristo mestiere.
» Finchè lo scavo del pozzo discende poco lontano dalla superficie del suolo, in guisa che vi si possa respirare liberamente, i pozzari lavorano a còttimo, cioè a un tanto il braccio; e questo tanto cresce in misura della profondità. Ma quando si è più basso, il naso, gli occhi e i polmoni dei pozzari accusano il nemico vicino; cominciano cioè le emanazioni gasose, e un lavoro regolare, continuato, riesce presto impossibile. Cessa allora il còttimo, e si lavora a giornata. Più il pozzo si sprofonda, e più i gas escono fitti e intollerabili, finchè si arriva al punto che l’operajo non può rimanere in fondo più di pochi minuti, pena la vita».
«Perchè il gas idrogeno non è respirabile, e l’aria non vi si rinnova sufficientemente, n’è vero?» osservò Giannina.
«Se si trattasse, come tu dici, di semplice asfissia, l’elemento sarebbe anco meno indomabile: ma trattasi di avvelenamento. Fu già osservato in America come i gas, che si sviluppano dai petroli, esercitano sull’organismo un’azione, che si può paragonare a quella di un altro gas, detto ossido d’azoto, o anche gas esilarante, perchè produce in chi lo inspira una specie di ebbrezza, accompagnata, dicesi, da sensazioni piacevoli. Ma è una ebbrezza che, durando un po’ di tempo, uccide. Chi assorbe quei gas (mi scriveva quel signor Maurizio Laschi di cui vi ho parlato, e che ebbe campo di verificarne più volte l’azione nello stabilimento della Società montanistica vicentina), chi assorbe quei gas, anche in piccola dose, è colpito, colla rapidità del fulmine, da una specie di esaltazione e di delirio; perde immediatamente la vista, traballa, e stramazza a terra. Bisogna portare l’infelice all’aria aperta, slacciargli le vesti, premergli i fianchi per eccitare meccanicamente la respirazione, scuoterlo coll’accostargli l’ammoniaca alle narici, e a suo tempo confortarlo con vino e bevande spiritose. Questo brutto scherzo fanno i pozzi di Miano, e lo farebbero tutti i pozzi petroleiferi del mondo. Quando lo scavo ha raggiunto una certa profondità (per buona ventura è la massima, mentre l’intensità della emanazione è indizio certo della prossimità del petrolio), l’operajo non rimane nel pozzo che da due a tre minuti, come vi dissi; rimanervi più a lungo, e s’intende un minuto o due di più, sarebbe giocare la vita a pari e caffo. C’era tra quei cinque un vecchietto, il solo innanzi negli anni, il quale aveva continuato tutta la vita quel brutto mestiere, e contato a intervalli sette de’ suoi compagni estratti cadaveri dai pozzi. La respirazione, narravano quella buona gente, è abbastanza libera giù in fondo; ma si prova una pesantezza, una gran balordaggine alla testa, e un certo senso di languore, di dinoccolamento agli arti9. Quando si esce dal pozzo la vista s’abbuja, poi vede allucinata mille colori. Talvolta avviene che uno ci ri manga un po’ più del dovere, e n’è ritratto in preda a forti convulsioni, a stiramenti, come d’uomo che avesse il tétano10. Ma ciò dura non più di un quarto d’ora all’aria libera, e anche avviene di rado, perchè i poveracci sanno per bene che laggiù in fondo si trovano talmente a tu per tu colla morte, che non è luogo da farci il bell’umore. Imaginatevi, miei cari, se io mi sentissi profondamente commosso ed atterrito, trovandomi sulla bocca di quel pozzo, che poteva da un istante all’altro divenire una tomba, a conversare con quegli uomini, che, poveretti! per un tozzo scarso di pane, bazzicavano colla morte ad ogni quarto d’ora.
9. » Toccava il suo turno al vecchietto, canuto e stecchito, che era una compassione a vederlo, ma così lesto e faceto, che mostrava d’aver appreso da lungo tempo l’arte di pur campare, dando le cento volte una buona stretta di mano alla morte, che l’aveva appostato invano in fondo a tanti pozzi. Per buona sorte il vecchietto non doveva che riempire una corba.... ma, to’! dimenticavo di descrivervi il modo che tengono i pozzari. L’apparato per le pericolose manovre consiste in un tornio a manovella, dei più semplici e comuni per la forma, impalcato attraverso la bocca del pozzo in guisa che la corda, svolgendosi, discenda perpendicolarmente nel centro. I pozzari, raccomandati alla corda, vi son calati l’uno dopo l’altro per turno. Il primo che discende lavora collo zappone quanto basti a smuovere dal fondo del pozzo tanta terra quanta ne contiene una corba (o un secchio, ciò poco importa) di mediocre grandezza. Fatto questo dà il segnale ai compagni; il tornio gira, ed eccolo risorto. Cala il secondo a cui non rimane che di riempire la corba col materiale già preparato dal compagno, e tosto è ritirato. La corba compare poi per la terza, tirata da una corda che gioca separatamente. Quel pugno di terra rappresenta un lavoro enormemente sproporzionato al prodotto; le sofferenze di due uomini e il pericolo di due vite.
» Dunque, come vi dissi, toccava il turno al vecchietto, il quale si allacciò allegramente la corda ai fianchi, e giù si perdette rapidamente nel bujo. Il mio oriolo non segnava ancora i due mi nuti che il vecchietto aveva dato il segnale, e poco dopo usciva bravamente dal pozzo, rendendo testimonianza di quella prudenza che lo aveva scampato fino a quel giorno. Toccava la sua volta ad un uomo nel fiore della virilità, alto della persona, nerboruto, con un petto d’Ercole, vero tipo di quella razza robusta che abbonda nell’Emilia, e giustifica i fasti degli antichi Romani. Di scese con quel fare baldo e sprezzante, che pareva dicesse: — Se laggiù trovo la morte, la strozzo. — Un istante dopo una serie di tonfi cupi, lenti e misurati annunziarono dal fondo del pozzo che il lavoro ferveva. Io teneva gli occhi fissi sull’oriolo e il vecchietto alla fune. L’indice segnava già i due minuti; ma il campione non dava alcun segno, come se il tempo che scorreva non fosse quel breve intervallo che lo separava dalla morte. I colpi cessano.... silenzio.... Immediatamente il vecchietto, curvo sulla bocca del pozzo, vi lascia cadere un — oh! — cupo e roco, che voleva dire: — Sei vivo? —; e un — oh! — più cupo e più roco, echeggiando dal fondo, diceva: — Son vivo! — Io stavo, ve l’assicuro, in gran pena, trattenendo il respiro, quasi col rimorso di assistere ad una scena, che per essere tanto ripetuta, non torna meno terribile. Quei minuti mi erano parsi un gran pezzo; l’oriolo mi pareva che rallentasse a dismisura; il vecchietto insistette, vociando più impazientito: — Andiamo! andiamo! — Il cenno fu dato, e il tornio cominciò i suoi giri. I tre minuti erano tocchi appena. Quel colosso d’uomo, in cui aveva forse giocato un tantino l’amor proprio del mestiere, come avviene a tutti, e penso in egual grado, dal generale in campo al guattero in cucina, comparve alla bocca del pozzo, come uomo trasognato, che guarda senza vedere, ascolta senza intendere. Si sdrajò sul terreno, rimase alcuni momenti come pensoso, poi si stropicciò gli occhi, e fu in piedi sorridendo quasi dicesse: — L’è da cane! — ma pronto a tornarci, quando toccasse la sua volta. Voi vedete, miei cari, che l’introdurre da noi dei metodi migliori, per le di verse industrie, non è soltanto economia: è anche umanità11».
Il mio piccolo uditorio rimase profondamente commosso da un racconto ch’era la pura verità: non vi avevo aggiunto un ette di mio. Dopo un po’ di silenzio, cominciarono i commenti e le interrogazioni, che non finivano più, principalmente da parte delle bambine, a cui non pareva vero che nessuno pensasse a liberare dalla schiavitù di così fatto mestiere quella povera gente, e che per un po’ di petrolio valesse la pena di arrischiare delle vite umane. Ma i bambini intendono difficilmente che cosa sia l’aver bisogno di un tozzo di pane.... Quando vidi la piccola assemblea più occupata a discorrere di quanto aveva udito, che curioso di più ascoltare, colsi il destro per annunciare finita la mia serata, promettendo altre cose interessanti nel giovedì venturo.
Note
- ↑ Le saline o fabbriche di sale sono recinti in riva al mare, o edifici opportunamente disposti in vicinanza delle sorgenti salate o delle miniere di salgemma (sale cristallizzato in seno alle rocce), dove il sale si ottiene mediante l’evaporazione delle acque che lo tengono disciolto.
- ↑ Ammiano Marcellino, generale e storico romano, nato ad Antiochia nell’Asia verso il 320, morto a Roma il 390, scrivendo la Storia degli imperatori romani, racconta la spedizione dell’imperatore Giuliano in Persia, della quale aveva fatto parte egli stesso, e così descrive le sorgenti di petrolio e di gas probabilmente infiammabile da lui vedute lungo il corso del Tigri (XXIII, 6): «Là, presso il lago Sosingita si trova il bitume. Il Tigri, che si perde in questo lago, ricompare dopo esser corso lungo tratto sotterra. Là si produce anche il nafta, specie di pece resinosa, simile al bitume; un uccellino che vi si posasse un istante perirebbe a un tratto senza scampo. Questa specie di liquido, una volta acceso, non si può spegnere che sotto la sabbia. In quella stessa contrada vedesi una voragine, che vapora un’alito micidiale (gas non respirabile), d’odore acre, che uccide qualunque animale vi si avvicini. Esce una così fatta peste da un pozzo profondo; se la si spandesse attorno in maggior quantità, renderebbe inabitabili tutti i dintorni. Mi accertano che anche a Serapoli nella Frigia (sulle rive del Meandro, oggi Buiuh-Meinder, nell’Anatolia), vi fosse un pozzo di questa natura». Lo stesso autore racconta che i Persiani preparano il così detto olio medico (olio dei Medi) con una cert’erba macerata nell’olio comune, e col nafta. Ne ungevano poi le frecce e le accendevano. Le frecce accese, lanciate con troppo impeto, si spegnevano; scoccate dall’arco non troppo teso, volavano ardendo e abbruciavano quanto toccavano. Non è dunque un trovato affatto nuovo quello delle bombe che sbruffano petrolio acceso.
- ↑ Metri 487,26.
- ↑ Metri 974,52.
- ↑ Da 13 a 16 centimetri.
- ↑ Voce greca: — pan = tutto; — acos = rimedio: — panacea = rimedio a tutto.
- ↑ Lo Schirone ha le sue sorgenti negli Apennini a mezzodì di Salsomaggiore. Passando a ponente di questo borgo, dove trova il confluente della Chiaja, giunge a S. Donnino, e va a buttarsi nel Taro presso al confluente di questo fiume nel Po.
- ↑ Metri 51, 97.
- ↑ Le giunture, specialmente delle braccia e delle gambe; spesso per arti s’intendono le membra stesse, cioè le braccia e le gambe.
- ↑ Contrazione spasmodica dei muscoli, che generalmente termina colla morte.
- ↑ I particolari narrati, se occorre, il ripeterlo, sono esattamente storici. Poco tempo dopo la mia prima visita a quei posti, una Società industriale vi stabilì gli apparati per lo scavo dei pozzi col sistema americano, che è quello su per giù che venne descritto nel paragrafo n. 2 ma perfezionato. Il basso prezzo in cui è caduto il petrolio per l’enorme quantità che se ne estrae in America, non poteva rendere profittevole l’esercizio di quell’industria in luoghi dove il petrolio è eccellente ma troppo scarso. Ora si scavano dei pozzi all’americana a S. Giovanni Incarico nella provincia di Caserta, e vi si ottengono già dei risultati molto lusinghieri per l’industria petroleifera in Italia.