Cesare Battisti

1916 Indice:Cesare Battisti - Gli Alpini, Milano, 1916.djvu Gli Alpini Intestazione 17 giugno 2017 100% Da definire


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Cesare Battisti


GLI ALPINI


MILANO

Fratelli Treves, Editori

1916.

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GLI ALPINI




È la «Dante Alighieri» che mi ha invitato a parlare. Ed io ho risposto subito obbedendo al vivo desiderio di corrispondere ad un suo invito e spinto dal caldo senso di gratitudine che anima ogni irredento verso questa associazione: non pensando se avrei saputo parlare in modo degno e di essa istituzione e di questa gratitudine nostra.

Infiniti sono infatti i titoli di benemerenze della «Dante Alighieri» verso di noi. Nessuna associazione ci è stata così come questa fedelmente e costantemente amica nei lunghi oscuri anni della nostra soggezione, nessuna ha studiato allora con altrettanto amore la nostra intricata e disperata situazione. Essa è stata il vincolo [p. 2 modifica] fra noi e la nazione; col suo tramite noi avemmo comunanza di spirito con la più pura rappresentanza dell’arte e della cultura italica; essa è stata generosa del suo contributo per la fondazione di scuole italiane e per quella molteplice attività che ci salvò dalla rovina estrema.

E non è questo che costituisca il titolo maggiore alla nostra riconoscenza.

L’aver compiuta questa missione, con la più grande modestia che si possa immaginare, senza il compenso della sanzione pubblica, fingendo di non fare quando faceva moltissimo, di non dare quando offriva a piene mani, l’esser venuta ad aiutarci come il cavaliere della leggenda che presta il suo braccio e la spada e si allontana per rimanere ignoto, e non vuol parole di ringraziamento, è opera ben più grande e più nobile, che solo a noi irredenti è dato conoscere. Ed oggi che è lecito parlarne, perchè la redenzione di Trento e Trieste è moralmente conseguita e la conquista materiale è un fatto immancabile, sia concesso a me di invocar qui non la mia rappresentanza politica o parlamentare, ma di arrogarmi quella più ideale, la [p. 3 modifica] rappresentenza dei miei compagni d’arme irredenti per dire alla «Dante Alighieri» tutta la nostra riconoscenza.

E ancora, o signori, ho accettato di parlare perchè, scegliendo a soggetto della mia parola il soldato italiano, mi veniva concesso di associare il nome glorioso dell’istituzione, che accoglie le energie più vive dell’intellettualità, a quello dell’esercito, espressione e simbolo della forza e della volontà del popolo.

Dei nostri soldati al fronte, io non saprò dir nulla che già altri meglio di me non abbia detto e scritto e presentato nelle visioni fotografiche; ma mi resterà pur sempre da affermare una cosa, che mai sarà detta a sufficienza: la gratitudine degli irredenti verso i soldati d’Italia, non solo per le loro gesta gloriose, ma per la accoglienza fraterna serbata agli irredenti che accorsero tra le loro file.

Chi vive lontano dal campo può aver con diverso criterio apprezzato l’opera dei mille trentini e dei mille triestini che chiesero e conseguirono l’onore d’esser accolti nell’esercito; può con spirito di calcolo e di scetticismo aver istituito raffronti tra il [p. 4 modifica]sacrificio individuale e l’utile che dovrà ridondare alle terre irredente; ma da chi vive al campo, dalla grande massa anonima del popolo, io non ho sentito che parole di amore, di infinito amore.

Fin ch’io viva — tra i ricordi del campo, che sono e saranno i ricordi più belli della mia vita — non dimenticherò il paterno affetto con cui i montanari di età matura gareggiavano nel far scudo coi loro petti ai più giovani tra i miei compagni d’arme, gareggiavano nell’alleviar loro le fatiche come se fossero non dei combattenti ma degli amici che bisognava ad ogni costo, con ogni sacrificio, portar vivi e sani nelle loro case, nelle loro famiglie. Non dimenticherò fin ch’io viva la devozione di cui ho visto circondati gli ufficiali irredenti e il dolore dei soldati per la morte che si abbattè ormai su molti degli esuli delle mie terre.

Non dimenticherò mai gli slanci di fraternità e la commozione da cui vidi pervasi tanti umili soldati nel salutare le terre irredente conquistate e nel trovare la documentazione della barbarie austriaca.

Oh! ben fummo da quest’onda di affetti [p. 5 modifica]compensati della amarezza profonda che alla vigilia della guerra ci procurava il vederci talvolta non compresi, il sentir citate o con scherno, o con scetticismo o con ignoranza il me delle nostre città, il veder confusa l’azione del governo austriaco che ci opprimeva, l’azione di pochi e servili con quella sana e puramente italica del popolo.

All’amore infinito dei soldati d’Italia per le terre che col loro sangue essi riscattano, io rispondo con parole d’amore; e se di loro, se degli alpini, che più di tutti, per convivenza di mesi, ho imparato ad apprezzare, non saprò dir cose nuove, cercherò di dir le cose buone che mi hanno fatto pensare.


*


Chi sono gli alpini d’Italia?

Che cos’erano prima di vestire la divisa del soldato?

Con che animo, con che cuore hanno impugnato le armi?

Quali le ragioni del loro eroismo, della loro resistenza magnifica? [p. 6 modifica]

E che saranno domani questi figli, domani, nella nuova Italia, nell’Italia veramente redenta?

Gli alpini sono i figli dei monti: scendono dalle Alpi che cingon l’Italia, vengono da valli remote, perdute, lontane da rumori. La lor giovinezza è trascorsa fra pascoli e boschi. Hanno vissuto lunghi inverni nella neve, nelle tormente. Poco sanno d’agi e di ricchezze. È loro ignota la grande proprietà; tutto il loro patrimonio consiste in miseri campicelli, in poveri tuguri. Ed è un re chi ha il campo e la casa veramente suoi e non dell’ipoteca. Sono patriarcali nella fede, ne’ costumi, negli interessi. Quanto accolgon di nuovo si innesta sulle vecchie tradizioni e ne prende il colore.

Vengon questi alpini dall’Alpe severa e nevosa, ma i più fra loro nell’età virile, dal 18 ai 40, ai 50 anni, non hanno avuto, non hanno la gioia di vivere in seno alla loro famiglia, coi vecchi genitori, con la sposa, coi figli.

La scarsezza dei frutti della terra e tante altre cause, e antiche e recenti, che non è il momento di esporre, li condannano [p. 7 modifica]all’esilio in terra straniera, esilio che dura mesi ed anni: esilio interrotto sempre, anche quando è fortunato, perchè un vivo sentimento nostalgico accompagna nel mondo questi alpigiani, che quando hanno avuto la fortuna di accumulare, tra infiniti stenti, un modesto tesoro di ricchezza, pensano con affanno ad un altro tesoro: al paesello natio, ove vogliono riposarsi e spegnersi.

Ai vagabondaggi dei nostri montanari voi non trovate limiti. L’aver a 24 anni varcato e rivarcato più volte l’oceano rientra nelle cose normali. Le terre ove maggiori sono per ragioni di clima, di lingua, di usi, le difficoltà, sono loro famigliari. Hanno costruito ferrovie in Siberia, hanno scavato nelle miniere d’Australia; hanno abbattuto le vergini selve della Balcania; il lor sudore ha fecondato le pampe argentine. Conoscono bene Strasburgo, Parigi, Londra, New York, i porti del Sud come quelli del Nord. Non s’è compiuta al mondo nessuna grande impresa, dal Canale del Panama alle gallerie che perforan le Alpi, alle nuove città americane sorte, quasi per incanto, a cui essi non abbiano collaborato. [p. 8 modifica]

Or bene, quando la demoniaca follìa non già di un redivivo Barbarossa, ma di tutto un popolo, di tutta una razza, volle scatenata la guerra europea, questi montanari nostri, che oggi vestono la divisa dell’alpino, erano per gran parte esuli nel mondo. In pochi giorni li vedemmo tornar tutti a valanga. Le ferrovie e i piroscafi ce li restituivano a decine, a centinaia di migliaia.

Molti io ne vidi scendere ai primi dell’agosto 1914 per la grande porta settentrionale d’Italia, per la via del Brennero.

Tornavano stanchi, affranti, sgomenti e preoccupati del domani, avviliti per le perdite pecuniarie; avviliti pei mali trattamenti.

Ma bastava che uno intonasse una canzone d’Italia, un ritornello perchè quanti erano stipati in una carrozza e assai spesso in un carro merci, o quanti stavan bivaccando, nell’attesa, fra binario e binario, cambiassero l’espressione del dolore in quella della gioia.

E i più non attendevano d’aver varcato il vecchio confine, di aver finito il non lieto incontro coi treni dei soldati austriaci [p. 9 modifica]su cui era scritto: Direttissimo per Parigi, per Londra, o per Pietrogrado; non attendevano d’esser in terra di libertà per sventolare bandiere e fazzoletti tricolori.

Tornarono a legioni, tornarono quasi tutti gli emigranti e si ricondussero alle dimore loro, ma non col gruzzolo che eran soliti portare a Natale; tornarono, e senza mezzi, dovettero sostare nei loro paesi, in luoghi privi di industrie, privi di lavoro e perciò scarsi di pane.

Nelle grandi città, nelle regioni manufatturiere, lo scoppio improvviso della conflagrazione europea portò subitanei sconcerti; crollarono industrie fiorenti, ma al lor posto altre ne sorsero; per una industria suntuaria che veniva meno, sorgevan a decine gli opifici, per le munizioni, pei viveri, per le moltiformi necessità della guerra. Si arenarono molti commerci; ma ne nacquero di nuovi, anche troppi.... talvolta e non sempre leciti. Vi fu crisi, ma fu crisi di assestamento. In breve la vita dell’industria tornò normale, divenne anzi fiorente.

Una disoccupazione vera e propria non ci fu.

Altrettanto avvenne nell’agricoltura che [p. 10 modifica]vide maggiormente ricercati e apprezzati i propri prodotti.

Ma non fu così per le regioni alpine, per le povere valli, ove le magre risorse della piccola proprietà hanno bisogno del largo compenso che offre l’emigrazione.

Non fu così pei montanari, per gli emigranti risospinti nei piccoli villaggi natii dal turbine della guerra.

Dinanzi a loro sorse lo spettro della disoccupazione. Essi, i lavoratori per eccellenza, dovettero rimanere con le braccia incrociate, trasformati da sostenitori della loro famiglia in parassiti del misero peculio, della magra scorta delle loro donne. Rimasero disoccupati, nel momento in cui la vita cresceva spaventosamente di prezzo.

Questa fu la vigilia di guerra dei nostri alpini.

Vigilia di guerra nella quale sentivano, subivano tutti i danni del flagello scatenatosi, senza toccare alcuno dei compensi materiali, non solo; ma senza esser in grado di farsi, per la ormai inevitabile partecipazione dell’Italia, quella preparazione morale che il popolo più minuto, più [p. 11 modifica]modesto potea farsi nelle città, nei maggiori centri abitati.

Giacchè la caratteristica essenziale dei paesi alpini è l’isolamento, terribile specialmente d’inverno.

Noi conosciamo la montagna d’estate, quando in mezzo ad essa sorgono cittadine avventizie e si improvvisano centri di vita, lì, ove nell’inverno è squallore e morte. Non conosciamo invece, o ben scarsamente e raramente, la montagna ove si vive senza giornali, con pochi libri, senza circoli, senza ritrovi, senza caffè, dove il ritmo della vita pubblica pulsa lento, lento. Non conosciamo la montagna che si avvolge nel sonno letargico, dove la vita si limita alla patriarcale raccolta di tre o quattro generazioni di una famiglia attorno al focolare, e non si hanno altre notizie da commentare all’infuori di quelle fredde e scolorite che il prete annuncia dal pulpito, o di tanto in tanto comunica il maestro o il medico.

I reduci dalle terre straniere, gli alpini che attendevan nei paeselli natii la chiamata alle armi, nulla seppero del fervor di vita che dal marzo al maggio decorso [p. 12 modifica]si schiuse nelle cento città d’Italia; nulla della magnifica preparazione del popolo delle città e dei borghi, che ascoltava la parola dei suoi migliori uomini politici, che col fiorir della primavera rievocava l’epica gesta dei mille, del popolo che si abbandonava a vere esplosioni e deliri del sentimento.

Tutto questo non seppero i montanari che attendevano di tramutarsi in soldati; quella forza misteriosa e immensa, che è data dalla suggestione della folla, essi non subirono.


*


Eppure, a guerra scoppiata, fu a questi montanari affidato il più difficile compito. Nella notte del 23 maggio essi raggiunsero pei primi la frontiera dell’Alpe; pei primi essi calpestarono e spazzarono le insegne dell’aquila austriaca.

Salirono alla impervia linea di confine, quando ancora la neve seppelliva sotto uno strato di molti metri tutta la montagna.

Andavano ad attuare un compito nel [p. 13 modifica]quale i criteri, i sistemi della guerra moderna si alternavano, si confondevano con quelli dell’antica. Dovean saper fare la guerra garibaldina con la marcia veloce, fulminea; e la guerra giapponese col preparare l’insidia della trincea, del reticolato, col vincere la trincea, il reticolato, la ridotta nemica.

Quel che essi riuscirono a fare nell’ultima settimana del maggio decise delle sorti della guerra in tutta la regione alpina, nel Trentino, come in Carnia, come nell’Alto Isonzo.

Il generalissimo annunciava col suo stile serrato che ovunque dallo Stelvio al mare la nostra avanzata, oltre la frontiera, era avvenuta.

Il che voleva dire che eravamo riusciti a imporre noi all’avversario il luogo e il modo del combattimento.

Ovunque, dopo il primo urto; dopo la prima corsa, ci trovammo alla meta che il Comando Supremo s’era prefissa. Ci trovammo sulle creste dei monti in posizione dominante, occupando tutti i valichi e penetrando su essi verso la zona nemica. Furono corrette già col primo fulmineo [p. 14 modifica] sbalzo le maggiori insidie del vecchio confine. L’Austria era riuscita ad imporci nel 1866 un confine che lasciava in sue mani la testata di parecchie valli importantissime. Era nella condizione di chi ha in mano la diga di un canale e colla semplice funzione di alzare una paratoia può inondare il territorio sottostante. Bastava che l’Austria lasciasse correre per le testate di valli di cui era in possesso la fiumana dei suoi soldati, perchè fosse minacciata tutta l’Alta Italia.

L’Austria di fronte all’impeto della nostra avanzata dovette adattarsi ad una linea di difesa, quasi ovunque collocata al di là del vecchio confine; dovette rinunciare alla vagheggiata controoffensiva divenuta a mille doppi più difficile.

Il nostro sbalzo in avanti, lo sbalzo che in prevalenza fu compiuto dagli alpini, presentava difficoltà di gran lunga maggiori di quelle affrontate dagli eserciti nostri nelle prime guerre per l’indipendenza. Si trattava di intraprendere la prima grande guerra alpina, giacchè le maggiori battaglie del Risorgimento nostro avevano avuto prevalentemente luogo [p. 15 modifica] nei piani di Lombardia e Piemonte, nel quadrilatero veneto e giù e giù nella penisola fino alla estrema Sicilia; ed eran state azioni di minore importanza quelle svoltesi fra le Alpi. Si trattava inoltre non solo di urtare contro una maggiore resistenza di opere, ma di portare la lotta su di un fronte cento volte più vasto.

La guerra moderna non si risolve più esclusivamente lì ove esiste il valico maggiore, ove c’è il raccordo stradale; la guerra moderna è guerra d’assedio. Se si vuol penetrare in un paese bisogna rovesciarsi dentro di esso da tutti i punti della periferia; dalla strada maestra, dal valico secondario solcato dalla mulattiera, dalla bocchetta, dalla forcella percorsa da modesti tratturi e che solo in piena estate servono al passaggio delle mandre e sono battuti dagli alpinisti; bisogna penetrarvi da tutta la dorsale, da tutta la catena, anche quando questa dorsale è fatta di pareti verticali, di guglie inaccessibili, di enormi calotte di ghiaccio, di canaloni di neve, anche quando è tutto un frastagliamento di precipizi, di dirupi, di conoidi di ghiaia, di massi frananti e rotolanti. Bisogna andar [p. 16 modifica]per le vie maestre, come per i viottoli aspri, per le balze ove vanno solo gli stambecchi e i caprioli; e bisogna andar anche lì, dove vi è ragion di credere che non sien mai stati nè caprioli, nè camosci.

Molti (non ora che comincia ad esser conosciuto ed apprezzato il tipo nella nostra guerra, ma nei primi mesi) sentendo parlar dello Stelvio e del Tonale, avranno ricordato i magnifici stradoni che adducono a quei valichi; stradoni pur di non facile accesso nell’inverno quando vi è molta neve, quando il viandante ha sulle spalle i cinquanta chili che porta con sè l’alpino, quando dietro alla compagnia che marcia, devono venire le salmerie, i rifornimenti; quando assieme alle truppe di fanteria devono procedere coi loro cannoni gli artiglieri. Oh di ben altro si è trattato che di salir per strade maestre!

I primi battaglioni che nella notte del 23 salirono al Montozzo, un valico con strada carrareccia, posto al nord del Tonale, trovarono la strada letteralmente sepolta dalla neve. Dovettero salire su su per la montagna, orientandosi con la bussola. Una marcia che in tempi normali [p. 17 modifica]sarebbe stata di poche ore, durò tutta una notte. E quella, confrontata ai cómpiti dei giorni seguenti, fu impresa facile.

Occupar la forcella non era che occupar un punto; bisognava occupar tutte le creste del circostante anfiteatro, da una parte fino al Tonale, dall’altra per chilometri e chilometri, lungo i monti di Ercavallo, fino alle montagne dello Stelvio.

Chi abbia vaghezza di sapere che genere di monti siano quelli a destra e a sinistra del Montozzo, consulti qualcuna fra le migliori descrizioni turistiche della Valcamonica. Troverà un grande numero di cime indicate come di accesso impossibile dal versante nostro; troverà altre con indicazioni di questo genere: «La cima o il valico fu superato una sola volta dal tal dei tali», inglese o tedesco; oppure: «Ripetute spedizioni di salita fallirono»; oppure: «L’unico tentativo di salita finì con una catastrofe».

Su tutte queste cime, su tutte queste creste dovettero spingersi i nostri alpini, nella stagione della neve; e vi riuscirono.

Vi andava prima una pattuglia di alpini [p. 18 modifica]scelti con un ufficiale e dietro a quelli il plotone.

Ma la scalata alla cima era niente di fronte al compito di rimanervi, di fortificarsi, di trincerarsi, di fare la strada per il quotidiano invio dei viveri, delle munizioni.

In certe cime il primo drappello che vi arrivò stette un mese intero, spesso facendo le fucilate, senza mai avere il cambio. Oggi su queste cime si va abbastanza comodamente, con sentieri, con teleferiche, ma per molto tempo finchè certe strade portentose non furono fatte, si dovea salirvi arrampicandosi su corde, sospese nel vuoto!

La regione del Montozzo, di cui ho fatto cenno, è un giardino se 1a confrontiamo con le Tofane, monoliti arditissimi che sembran torri, e se la confrontiamo con la regione dell’Adamello ad un’altezza fra i 3000 e i 3500 m., regione che è tutta un immenso ghiacciaio, con crepacci enormi, con pareti a picco, con nevai in continuo movimento.

Superando tali difficoltà, fu con rapidità sorprendente occupata tutta la linea di [p. 19 modifica] vetta dallo Stelvio al Cadore, una linea di oltre 370 chilometri sul solo territorio Trentino e fu occupata così fittamente che le guardie di tutti i piccoli posti avanzati non sempre a voce, ma sempre almeno con segnalazioni ottiche potrebbero far correre da posto a posto una notizia da un estremo all’altro della linea!

Il nemico più temibile dei primi giorni (come del pari il nemico dell’inverno e anche della primavera) fu l’alpe, fu la montagna stessa; ma non si creda che gli austriaci abbiano spalancate le porte di casa e non abbiano fatto resistenza. Tutti sanno dell’accanita lotta svoltasi sull’Isonzo e nel Carso — ma anche nel Trentino — del quale a preferenza io parlo per la maggior conoscenza che ne ho — l’avanzata fu tutt’altro che incontrastata. Dove non fu guerra, fu guerriglia; e dove l’austriaco dovette subire l’onta della fuga, pensò poi alla vendetta con l’agguato, coi tranelli, con le sorprese.

Ne fanno fede gli attacchi degli austriaci, incamiciati di bianco — contro il manipolo dei nostri alpini alla Capanna Cedeh; e l’arditissimo tentativo di attacco al [p. 20 modifica] Rifugio Garibaldi. Ma come scontarono l’audacia! Al Passo — che porta il nome fatidico dell’ Eroe — nella regione dell’Adamello un manipolo di dieci alpini, appostatosi su uno sperone roccioso, impedì nelle primissime ore del mattino l’avanzata a più di centocinquanta austriaci che con mitragliatrici già erano arrivati sul declivio nostro. Erano arrivati e in molti rimasero: ma prigionieri e morti. Ai morti la pietà dei nostri eresse una grande tomba di granito sormontata con una croce in legno, proprio ai piedi del Passo Garibaldi.

Quanta importanza annettessero gli austriaci a mantenere in proprio possesso — come linea di difesa e d’offesa — la linea del vecchio confine, si rileva dalle colossali opere di guerra, che vi avevano iniziato e non erano riusciti a portare a termine. In Valsugana esiste interrotta a metà una grande strada che, senza esagerazione, incide una parete a picco di molte centinaia di metri. Sul Monte Baldo si erano eseguite perforazioni di intere montagne, con lo scopo di collocarvi cannoni; sono caverne ciclopiche. Così ovunque.

E negli anni precedenti la guerra, quanti [p. 21 modifica]rifugi alpini, quanti sentieri, quanti caseggiati militari che si gabellavan per forni, per scuole, non s’eran costrutti! Caratteristica l’esplorazione fatta dagli ufficiali austriaci nell’estate del 1914, a molte montagne di confine e a parecchie al di qua del confine. Nelle bottiglie, nei ripostigli ove gli alpinisti, giunti su ardue cime, soglion porre a ricordo il loro biglietto da visita, durante l’estate 1914 non furon posti che biglietti di i. r. ufiiciali austriaci.

Nè, poichè ho parlato del rapido sbalzo in avanti fatto dalle truppe alpine nelle Alpi di Trento, vorrei si credesse che a un puro sbalzo, sia pure contrastato con accanimento, si fosse limitata l’azione bellica nel Trentino.

No. Ogni Valle, ogni valico ha avuto il suo fatto d’arme. Nelle Giudicarie, in Val di Ledro, in Val di Daone gli scontri alla baionetta, le furibonde lotte attorno alle trincee, gli attacchi e i contrattacchi si susseguirono.

Bezzecca non ebbe, senza gloria di sangue, la gloria della redenzione. E quanto ancora se ne spargerà sulle montagne che la ricingono al Nord, su quelle aspre balze [p. 22 modifica]che le pattuglie di Garibaldi avean varcato, senza trovar resistenza, spingendosi fino a Riva, andando a bere un bicchier di vino buono proprio nelle osterie della città; quanto sangue si spargerà prima di conquistarle. Perchè ora sono tutte — come è tutta la frontiera — un grande fortilizio unico, fatto di caverne che albergano i cannoni e di trincee e reticolati che si distendono per chilometri e collegano opera ad opera.

Dall’Altissimo di Monte Baldo fuggirono gli austriaci non appena videro i drappelli degli alpini che eran guidati dal generale che chiamavan il papà degli alpini, dal generale che era sempre il primo, dinanzi a tutti, dal generale il cui nome è inciso a parole d’oro in tutti i comuni redenti. del Trentino, guidati da Antonio Cantore; fuggirono gli austriaci, ma lasciarono qua e là disperse le bande dei scizzeri, le pattuglie di spie e corsero ai ripari su una linea più avanzata, opponendo resistenza alla nostra discesa a Brentonico e ai paeselli che stanno sulle prative pendici fra il Garda e l’Adige, e alla sella di Nago.

Il fatto positivo, tangibile, che [p. 23 modifica]novantanove parti su cento del vasto territorio del Baldo trentino è saldamente nelle nostre mani, e le croci di abete ai caduti nostri, ricordanti qua e là le nostre tappe gloriose, vi dicono che gli alpini furon, su quelle balze, militi degni del loro Padre, del loro Eroe.

E così fu in Val Lagarina, così in Vallarsa, così in Primiero, così nella conca di Cortina d’Ampezzo, ove attorno al Col di Lana infuriò una delle più aspre e lunghe battaglie della nostra guerra.

Vi sono d’altronde alcune cifre superbe che dicono più di qualsiasi descrizione.

I 376 chilometri di frontiera, che noi avevamo prima della guerra dallo Stelvio al Monte Peralba di Comelico, si sono ridotti a 247; si è quindi con l’avanzata ristretto di un terzo il fronte primitivo. Dei 360 000 abitanti del Trentino più di 70 000 sono oggi cittadini redenti. Del suolo Trentino che è di 6356 kq. ben 2000 chilometri sono stati occupati.

Ognuno capisce che una posizione conquistata, un territorio guadagnato, ha importanza non solo pel suo valore intrinseco, ma altresì come punto di partenza [p. 24 modifica]di nuove conquiste, come linea sia di difesa che di avanzata.

A questi successi, evidentemente solidi, hanno contribuito per una parte notevolissima gli alpini. Vi hanno contribuito col braccio e col cuore, non come legione che subisce ciecamente gli altrui voleri, ma come cooperatori intelligenti e coscienti. Hanno dato non solo quello che si potea chiedere a rigore di disciplina, ma hanno collaborato con slancio, con trasporto, con passione, con sentimento.

Di questo loro consentimento, di questo loro slancio quali sono le ragioni intime?

Per quanto sia tutt’altro che limitata la coltura degli alpigiani e l’analfabetismo sia completamente scomparso nella popolazione giovane delle Alpi, pur non risponderebbe a verità l’ammettere negli alpini una nozione più o meno precisa dell’irredentismo, si tratti dell’irredentismo come azione di partito, o solo anche come sentimento.

Le ragioni sono varie e molteplici e complesse: sono ragioni inerenti alla montagna, all’ambiente fisico e morale in cui gli alpini sono nati e cresciuti, ragioni [p. 25 modifica]inerenti al metodo di reclutamento e all’istruzione militare ottenuta; ragioni determinate dalla professione o meglio dal cumulo delle professioni proprie degli emigranti, ragioni determinate dal tipo speciale di conoscenze, di nozioni, dagli adattamenti psichici derivanti al montanaro dalla vita d’emigrante.


*


La montagna è una fata che vuol esser amata e adorata. Essa sopporta, consola chi le è nato in grembo, chi la conosce, chi la apprezza, chi le si accosta con entusiasmo, con fervore; non tollera gli altri. Li respinge fatalmente, li travolge nel turbine della stanchezza, del malessere, li stritola, li uccide. Non tollera chi vuol salire ad essa impreparato, senza metodo, senza disciplina.

È amica anzitutto dei veri montanari; degli altri molti ne accoglie, ma molti ne allontana.

Chi vuol vincerla o deve esser montanaro o aver tempra di montanaro. Riesce a toccarne i vertici chi sa come la meta [p. 26 modifica]sia assai spesso invisibile; superato un culmine, un altro si affaccia e un altro e un altro ancora; riesce a vincerla chi sa scrutarne le pieghe, i corrugamenti, la forma, e intuisce ove essa ammette libero varco, ove non tollera d’esser toccata; riesce a vincerla chi non ha paura del vuoto; chi sa adattarsi ai raggi cocenti del sole e alle notti gelide di tormenta; chi non ha la pazza voluttà di correre, ma la pervicace tenacia di salire lento, lento, ma continuamente; chi è parco e sobrio e sa misurare le proprie forze, chi non si sgomenta dell’ignoto, chi è pronto al sacrificio, chi le si avvicina con sentimento di solidarietà pei compagni di viaggio.

Vuole prudenza, resistenza, forza di adattamento, e son tutte queste le doti dell’alpino, reclutato quasi esclusivamente fra i montanari.

Dove un borghese, un cittadino, nuovo ai monti, muore di sete, il montanaro, frugando con l’occhio, scopre la sorgente. Dove altri si accascia nel dubbio di scegliere la strada, il montanaro procede sicuro, scruta le peste dei viandanti e degli animali; se c’è pericolo della valanga, [p. 27 modifica]subito intuisce quale è il posto atto al riparo; se la tormenta imperversa, sa come evitare l’assideramento.

Questo spiega come decine di migliaia di alpini abbiano potuto passare l’inverno sui monti più alti senza soffrire. Lo stato di salute fu ottimo, nè una sola trincea fu abbandonata. Nelle trincee a 3200, 3300 metri, trincee scavate nella neve, ove già in ottobre si aveano temperature, di meno 30°, il nostro alpino seppe resistere, meravigliosamente. E se di ciò tocca merito alla prudente organizzazione, all’abbondanza dei ricoveri, dei ripari, degli indumenti adatti, ciò testimonia pure anche della forza di adattabilità e di resistenza dei nostri montanari.


*


L’educazione, l’istruzione militare, l’organizzazione speciale della truppa alpina sono uno dei maggiori coefficienti del valore, del successo, della buona riuscita del soldato alpino.

Non io, soldato volontario, venuto ultimo nella famiglia degli alpini, potrei o [p. 28 modifica]saprei tesser la storia bellissima delle compagnie alpine e degnamente dirla in questa Milano che ospita il senatore Perrucchetti, il generale illustre, che, quarantatre anni or sono, dettava il primo programma d’organizzazione delle milizie alpine. Ben può Egli dirsi oggi felice del modo con cui la sua proposta s’è realizzata e della bontà ormai largamente sperimentata della sua iniziativa.

L’autonomia ampia di cui usufruiscono le compagnie alpine, le dotazioni di mezzi di cui dispongono, per cui ciascuna può e deve amministrarsi da sè, e provvedere a tutti i propri bisogni, sono valse a render quest’arma più rapida nelle sue funzioni, più libera nei suoi movimenti, più compatta e completa nella sua organizzazione.

Una compagnia alpina è un piccolo mondo a sè. Aleggia su tutto uno spirito di ben intesa autonomia e tutti i componenti son vincolati da un legame profondo di solidarietà.

L’affetto e la buona armonia fra soldati e ufficiali, la reciproca stima e il comune consentimento al dovere verso la patria sono le caratteristiche di tutto l’esercito [p. 29 modifica]italiano. Avviene tra noi l’opposto di quel che si verifica nell’esercito d’Austria, ove la rivoltella e il bastone tengon il posto dell’affetto. Ma l’affiatamento tra soldati alpini e ufficiali alpini è maggiore che in qualsiasi altra truppa. È maggiore perchè ufficiali e soldati sono dominati da un’eguale passione, da un egual amore: la montagna. Maggiore, perchè anche in tempo di pace l’ufficiale degli alpini fa spontanea rinuncia per molti mesi ogni anno alla vita della città, di società, di circoli, di salotti; si adatta a vivere in modesti borghi di montagna e sulle montagne stesse, dove gli unici rapporti sono coi soldati. Da qui la famigliarità, la confidenza, l’amicizia verso di essi; amicizia e confidenza che sono fattori di elevamento.

Per accennare ad uno fra i molti buoni risultati della istruzione delle truppe alpine, rileverò come l’alpino sia lusingato nel suo amor proprio da un ben inteso spirito di corpo. Spirito di corpo, determinato non dalla ridicola boria di credere una categoria di soldati migliore di un’altra, ma dalla missione, dal compito speciale che gli è affidato e che gli è costantemente [p. 30 modifica]tenuto presente. Egli, che deve difendere le Alpi, sa, sente di essere la sentinella avanzata della patria.

Egli ha la fortuna di combattere sul suolo identico a quello che è stato il campo delle sue esercitazioni; egli, sulla montagna, si trova nel suo elemento di vita, come il pilota in mare e l’areonauta in aria.


*


Montanari e montagne formano come una sola cosa. Il terreno si immedesima colle persone. Troverete mille abitanti del piano che non hanno fatto mai attenzione alle forme del terreno, che non conoscono un palmo di terra che non sia lastricato; ma il montanaro ha la sensazione della montagna, ha il senso geografico del territorio che abita. Egli sa donde vien l’acqua che gli scorre ai piedi, sa come la valle ove egli vive sia fatta dal confluire di tante vallette che scendono l’una nell’altra, sa come la valle presupponga il valico, la cima, la vedretta, il nevaio; sente la continuità del terreno, per cui nel fondo della sua coscienza v’è l’idea che debba [p. 31 modifica]esser sotto ugual governo e organamento tutto un bacino di impluvio. Egli sente, vede nella patria l’espressione geografica.

Un alpino valtellinese che spiegava ai suoi compagni le ragioni della guerra diceva: «Andiamo a liberare le nostre acque».

Perchè dobbiamo noi tollerare che le sorgenti dei nostri fiumi siano nelle mani dei nemici? Perchè possano turbarne la purezza e la bontà?

Tante volte ho sentito gli alpini della Valle Camonica chiamare «i nostri pascoli» le montagne del Trentino. Quelle montagne furono davvero traverso i secoli i pascoli per gli armenti delle alte valli lombarde e venete prima che il governo austriaco colla sua astuta politica arrivasse a distruggere ogni commercio, ogni traffico fra i pastori al di qua e al di là del vecchio confine. Le disposizioni draconiane del governo austriaco, per cui era negato il transito ai pastori e ai loro greggi, disposizioni volute dall’autorità militare, recarono danni enormi all’economia rurale delle alte valli trentine e veneto-lombarde. Ma chi se n’accorse quaggiù? Di ben altro l’Italia era affaccendata che degli interessi. [p. 32 modifica]dei pastori in conflitto con l’imperiale governo di Vienna! E sono questi pastori, sono i loro figli, che con la divisa degli alpini, vanno ora alla liberazione dei «loro pascoli» sull’Alpe trentina e cadorina.

Sono prodotto di una comunanza di interessi, i rapporti di affinità di spirito, di atteggiamenti psicologici fra i montanari del Lombardo-Veneto e gli alpigiani trentini. I pastori delle Alpi centrali, che svernano coi loro armenti nella pianura lombarda, comunicano tra di loro con un linguaggio convenzionale che è noto a quasi tutti i pastori del Trentino. È l’esperanto dei pastori dell’Alta Italia.

Lo sport moderno ha dato vita e incremento a capanne e rifugi alpini su ogni valico e vetta; ma fu il soldino dei montanari, raccolto sia pure da frati e preti, che creò su tutti gli alti valichi gli ospizi pei viandanti. La montagna nel suo apparente letargo ha sempre mantenuto vincoli di solidarietà, di interesse, di sentimento, di costumanza fra i suoi abitanti, per quanto dispersi e annidati nei recessi; per cui il montanaro vissuto sul confine lombardo-veneto sa più che nol sappiano [p. 33 modifica]tanti borghesi che l’esercito d’Italia combatte in terra italiana, pel diritto italico. Per cui anche se allo spirito, al sentimento patriottico del montanaro mancassero (e così non è) gli elementi forniti dalla cultura, dalla educazione politica, ben vi supplirebbe l’attaccamento alla terra, ed il fatto che fin che è su quel versante delle Alpi da cui domina i piani di Lombardia, egli si sente in casa sua.

D’altronde se la cultura storica del montanaro si riduce a pochi ricordi, a poche notizie, questi ricordi e queste notizie diventano nel suo cervello idee cardinali, assumono sapore e colore di patriottismo e di lotta per la libertà. Per l’abitante dell’Alpe la storia è connessa al castello che domina l’alta valle alpina, all’evocazione del signorotto feudale e tiranno, troppo spesso vincolato alle signorie nordiche; è connessa sopratutto con la storia delle invasioni straniere. Non vi è valico alpino che non abbia visto scendere a più riprese in ogni secolo i barbari. Non v’è bisogno di rievocare le pagine gloriose della storia valdese o cadorina. Soffermandosi alla sola regione di Trento, ci è dato [p. 34 modifica]ricordare come Val d’Adige sia stata percorsa da ben settantaquattro spedizioni di imperatori romano-germanici. Il Tonale vide ben ventiquattro incursioni, da quella del Barbarossa che scendeva a Milano, a quella del generale austriaco Kuhn nel 1866. E altrettante ne videro Ponte Caffaro, il Canal di Brenta, e le Valli dei Sette Comuni e dei Lessini.

Ogni discesa in Italia volea dir saccheggio, sterminio, depredazione. I barbari d’oltre Alpe non permisero mai che si spegnesse il ricordo delle loro gesta. Nessuna sconfitta, nessuna Legnano valse a mutar il loro animo. Prima che di un’incursione svanisse il ricordo, si apprestaron sempre a ripeter le loro gesta. Ricordiamolo pur noi, e dopo di noi lo ricordino i nostri figli.


*


Ho accennato a particolari condizioni morali e fisiche, a particolari adattamenti d’animo e di spirito dei nostri alpini che sono in stretto nesso col suolo che li vide nascere e con la vita delle generazioni passate. [p. 35 modifica]

Ma ricordavo prima come il montanaro delle nostre Alpi sia, per necessità di cose, emigrante.

È dalla metà del secolo scorso, dall’inizio dei grandi lavori ferroviari, che il nostro montanaro vagabonda di terra in terra, e col suo doloroso pellegrinaggio molte cose ha appreso, molte doti ha acquisito, che se non hanno modificato le sue caratteristiche fondamentali e psicologiche lo hanno reso più adatto alla lotta per la vita ed hanno sviluppato le sue facoltà intellettuali ed affinata la sua forza di lavoratore.

Quando i nostri soldati varcarono il confine e nelle terre redente sorsero i primi accampamenti, non potean essere con loro, non potean essere onnipresenti i soldati del genio; i soldati specialisti nella costruzione di strade, di appostamenti per artiglieria, di baracche, di ricoveri.

Piantar un accampamento, che sia base di operazioni e di avanzate, non vuol dir solo piantar delle tende; ed anche il piantar le tende è qualche cosa di più che configger dei piuoli e stender una tela.

Bisogna assai spesso cominciar col creare [p. 36 modifica]uno strato piano su cui posarsi, giacchè le belle e comode praterie nei bacini di valle sono le più viste dagli osservatori dell’artiglieria nemica. È necessario crearsi dei ripiani talvolta su terreni franosi, dilamanti, in mezzo a canaloni di roccia, nelle magre strisce di terreno pianeggianti sotto l’orlo delle rocce che coronano le vette, bisogna scavar solchi per l’acqua, far sentieri di collegamento. E vi si riesce solo ad un patto: quello di esser buoni a tutti i mestieri, di esser al tempo stesso legnaiuoli, sterratori, minatori, muratori, fabbri; e ad altro patto ancor più difficile: quello di far tutto con pochi e magari senza strumenti.

Orbene qual è l’emigrante che prima di soffermarsi ad un mestiere non ne abbia tentati, per sbarcare il lunario, cento altri?

L’alpino in mezzo alle difficoltà inerenti ad una prima avanzata era il soldato ideale. Sotto i colpi del suo piccone, in pochi giorni si è cambiato l’aspetto a vaste zone montuose. Non v’era cemento; eppure si costruirono ricoveri; non vi eran chiodi e si fecero baracche; vi eran poche [p. 37 modifica]vanghette e si sconvolsero chilometri quadrati di terreno.

L’alpino è sopratutto nell’arte di costruire il soldato svelto e sicuro. Improvvisa in pochi minuti il riparo per 1a notte, pronto a rifarlo all’indomani migliore, e a demolirlo e rifarlo più adatto nei giorni seguenti.

Dove sono rimaste le tracce delle varie costruzioni successive degli alpini, gli archeologi e gli etnografi potrebbero veder riflessa la storia della civiltà umana, dirò meglio 1a storia delle abitazioni umane, con più profitto che frugando e raccogliendo gli avanzi preistorici nella nera terra.

I primi ricoveri fatti lì, dove non era possibile piantar la tenda, nei posti di collegamento o sulle linee avanzate paion abitazioni da trogloditi: sono caverne e semicaverne, buche nel terreno coperte con tronchi, — v’eran perfino buche nella neve! — pagode messe assieme con tronchi appoggiati a capriate; talora semplici pareti di frasche e rami rese impermeabili con calce fatta di terra e sterco animale.

Le prime cucine, i primi focolari non eran che rozzi massi avvicinati. [p. 38 modifica]

Ma appena si può si fa di meglio. Si piantano le tende, si fa uno scavo profondo per collocarvele, si circondano di muricciuoli. E poi, quando in un posto ci si indugia e giungono i mezzi necessari, si fabbricano casette da prima di rozza muratura, poi con cemento e calce; e spesso si cura anche l’eleganza.

Con quanto amore si fa la baracca per gli ufficiali e il baracchino per la messa e il salone per il barbiere e il botteghino dei calzolai, costruzioni queste in cui l’alpino si rivela anche falegname, decoratore, vetraio! Ma dove eccellono gli alpini è nel costruire strade e trincee. Quando sanno che sulla strada che stanno scavando passerà il 149, o il 210 o qualche altro mostro d’artiglieria, i cui nomi pronunciano con venerazione, lavorano con celerità.

Il soldato alpino si rivela, si è rivelato in questa guerra miles et civis, soldato e cittadino al tempo stesso come il soldato romano. È conquistatore e diffonditore di civiltà. È guerriero e costruttore. Non getta via il piccone per la spada, ma maneggia e l’uno e l’altra.

Quando la pace permetterà il rifiorire [p. 39 modifica]dell’alpinismo e sui monti redenti saliranno le nuove generazioni per portar il saluto a quelli dei nostri che saran rimasti lassù, nei piccoli cimiteri, trasformati in are sacre della patria, quando la vita italica non solo dei soldati ma di tutto il popolo si volgerà alle Alpi redente per conoscerle e per meglio amarle, quanto e quanto si troverà mutato l’aspetto dell’Alpe, arricchita ora di strade automobilistiche fin sui più alti monti, di interi nuovi paesi, di filovie, di ferrovie, di acquedotti, di ricoveri nei luoghi più ardui.

Cento guglie già anonime avranno nomi di gloria e le tracce e i segni della grande guerra, della santa guerra dureranno nei secoli, come la romana torre di Augusto che, vittoriosa del tempo e vittoriosa dei barbari, domina la mia Trento; come i valli romani d’oriente, che da Castua a Postumia, al confine estremo della Venezia Giulia attendono (e l’attesa non sarà lunga!) il ritorno delle vincitrici legioni di Roma. [p. 40 modifica]


*


I disagi e le vicende dell’emigrazione, oltre a migliorare nel nostro montanaro le attitudini professionali, hanno acuito il suo valore morale, per cui nell’alpino alla forza dei muscoli, alla capacità ai lavori più aspri, rispondono lo slancio, il coraggio, lo spirito di sacrificio.

Chi va alla guerra, va verso l’ignoto. Si affida alla buona stella, al destino. E il montanaro che emigra non si getta ogni volta che varca la frontiera o valica l’oceano, in braccio alla cieca fortuna? Sa egli se troverà lavoro, se avrà pane ed asilo? Sa egli come, in quali lavori sarà occupato? Se dovrà adattarsi a cose umili o se avrà con più agio assicurato il domani? Non sa che una cosa sola: d’aver braccia robuste, volontà di lavorare, sentimento di rettitudine. E così armato, va. Ben sa che la miniera è spesso più micidiale che una battaglia e vuole vittime a cento e a mille; ben sa che le febbri malariche uccidono i più forti che s’avventurano in certe regioni oltre oceano; ben sa che può [p. 41 modifica]trovarsi a morir di inedia. Eppur non si sgomenta.

Meglio affidarsi alla fortuna, anzichè veder sofferente la famiglia. Non teme; va, tenta, soffre, combatte e.... vince!

Così è dell’alpino. Non si chiede quale sarà il suo domani. Non ha paura della morte, non delle vicende peggiori — mutilazioni, ferite, prigionia! — in cui può lanciarlo un’azione sfortunata. La voce del dovere gli dice: Va. E come varca gli oceani, balza tranquillo dalla propria trincea e corre al reticolato, alla trincea nemica.


*


Va senza spavalderia alcuna. Perchè quella sicura coscienza di sè, quel coraggio che si è creato attraverso lo spasimo, il dolore di intere generazioni di emigranti, si integrano nelle virtù proprie della razza montanina: la serietà, la persistenza e la bontà squisita del cuore.

Serietà che talvolta può parere freddezza, indifferenza, magari ottusità. Ed è solo abitudine di riflessione, lenta quanto volete, ma persistente. [p. 42 modifica]

Chiedete ad un alpino: Si può scalar quella roccia? Possiamo scendere in quel precipizio? Arriveremo non visti, di soppiatto, nella tal posizione? Nessuna risposta impulsiva. È facile che l’interrogato concluda con un «Si può tentare», ma mai si ha una dichiarazione che esprima la certezza della riuscita o dimostri un prevalere del desiderio sulla possibilità, sull’azione effettiva.

Ma quando l’alpino ha detto «Si può tentare», egli tenta e non torna indietro.

È tenace. Nessun altro soldato ha come gli alpini la virtù della perseveranza. Chi, non avendo con loro famigliarità, li vede partire dall’accampamento, per andare in trincea o in ricognizione, a passo lento e misurato, prova quasi un senso di irritazione, nè crede conciliabile quella loro posatezza con la guerra. Ma dopo sette, otto, dieci ore di marcia quegli alpini continuano con lo stesso passo, senza ombra di stanchezza; e quando giunti in prossimità di una vetta o di una qualsiasi lontana meta, li credereste sfiniti, allora li cogliete a cantarellare e fischiare con quell’allegria che per solito è [p. 43 modifica]caratteristica di chi parte e non di chi arriva.

Egual costanza hanno nell’affrontare il nemico. Sono capaci di star ore e ore aggrappati su un ciglione di roccia, in posizioni inverosimili, sotto la tempesta del fuoco, per esser pronti ad un attacco improvviso. E quando da una trincea, da uno sperone di monte hanno cacciato il nemico, vi si attaccano come le ostriche allo scoglio. Un’asprissima guglia nella regione Tonale era stata guadagnata per merito speciale di un plotone con un’azione difficile e sanguinosa durata dalla primissima alba a notte inoltrata.

Il drappello vittorioso doveva avere il cambio con truppa fresca. Ma quegli alpini rifiutarono e pregarono, pretesero anzi fosse concesso loro di rimanere alla difesa del posto. «Noi lo abbiamo conquistato, noi conosciamo le difficoltà, conosciamo le prime insidie che possono esser tese, sappiamo come ripararci dai colpi, intuirne la direzione. La prima difesa contro possibili attacchi deve esser nostra.» E lì rimasero, esposti al gelo, sulla nuda pietra, con scarsezza di cibo, fieri e felici, fedeli [p. 44 modifica]ad una loro ideale consegna per altre ventiquattro ore, finchè la conquista loro potesse essere consolidata.

Nel conflitto l’alpino si accinge con prudenza e con precauzione; ma quando è nella mischia nulla più lo trattiene.

Nell’urto ad arma bianca egli ha tutto l’impeto di un meridionale, aumentato dalla pesantezza, dalla mole del suo corpo. Io non saprei come descriverli. Vedendoli ho avuto l’impressione di un masso rotolante che tutto stritola e distrugge quel che incontra.

Se certe cose non fossero documentate nei bollettini delle ricompense al valore, non si crederebbero e si avrebbe ritegno a narrarle per tema dovessero essere ritenute gonfiature.

Nella lotta accanita presso una malga presa, perduta, ripresa fu visto un alpino, che non aveva più munizioni ed era in un terribile corpo a corpo con un nugolo di austriaci, disfarsi a pugni e a calci di loro, scaraventandoli come fuscelli, è la parola, a dritta e a manca.

Un ufficiale austriaco che pur essendo armato fino ai denti, e aiutato dal suo [p. 45 modifica]attendente, era stato fatto prigioniero da un alpino inerme, piangeva, piangeva per l’ira, il dolore e l’avvilimento d’esser stato portato via come un bambino.

Alla serietà, alla tenacia gli alpini uniscono la bontà. Sono felici quando riescono a collaborare con gli ufficiali, a dar loro buone indicazioni sul nemico, felici quando possono aiutar i più deboli nella lotta contro la montagna. Nè lo fanno per servilità; neppur, vorrei dire, per spirito di cortesia, ma per un sentimento profondo di giustizia.

In Val Camonica un gruppo di alpini fece passare un brutto quarto d’ora a dei borghesi che motteggiavano un prigioniero austriaco.

Sono gente dal cuor d’oro. Lo spirito di solidarietà non ha per loro confini. Ma non aspettatevi il loro aiuto nelle piccole cose, nel superfluo, nelle esteriorità. Se un compagno resta addietro nelle marce l’unico aiuto è un «Spicciati». Se qualcuno stenta ad arrampicarsi, gli dicono «Coraggio, devi imparare!» Se stenta a portar lo zaino: «Poltrone!».

Ma se davvero incombe il pericolo, ma se sul drappello si abbatte la furia di [p. 46 modifica]morte, ma se la tormenta e il gelo minacciano una fine orrenda fra gli spasimi, se v’è un ferito da strappare ai nemici oh! allora la solidarietà non ha limiti; le cure sono infinite, sono materne!

Rimane indimenticabile nella memoria di chi lo ha visto il ritorno dei compagni col ferito o col morto. Quante cose dicono i loro volti silenziosi e mesti! Il medico è sempre pronto e sollecito, ma guai se non lo fosse! Forse l’incuria gli sarebbe perdonata dalla madre del ferito; dai compagni no, mai.

E quali audacie non sanno commettere per salvare un loro ufficiale. Ricordo un bergamasco, attendente di un valoroso ufficiale, cittadino benemerito di questa Milano, caduto in un superbo attacco sulle più aspre rocce del Tonale. Con ardore egli si lanciò a sorreggere il tenente. Cadde anche egli colpito da una raffica di mitragliatrici; pure le forze gli sarebbero state sufficienti per trascinarsi al sicuro e farsi medicare. Non volle. Preferì fingersi morto per rimanere al fianco del suo ufficiale nella speranza di poter soccorrerlo.

Dopo breve agonia l’ufficiale moriva, ma l’attendente gli rimaneva vicino, corpo a [p. 47 modifica]corpo, per ore e ore, nella speranza di poter riportarne la salma in salvo a notte avanzata.

E che immenso amore metton gli alpini nel comporre negli improvvisati piccoli composanti le spoglie dei caduti! E come ne adornano le tombe coi fiori dell’Alpe, con le croci di abete e, quando v’è tra loro qualcuno che sa maneggiare lo scalpello, con lapidi e cippi! Il loro dolore è però sempre dolore d’uomini forti; non vi è in esso mai nulla di scomposto; nulla che accenni a debolezza, timore, od accasciamento. Sotto la scorza del dolore permane la calma e la serenità.

Calma e serenità per cui vi sembrano sognatori e poeti quando scrutan con l’occhio i monti lontani e vi additano il corrugamento o la falda di monte ove, a distanza di miglia e di miglia, si annida la loro valle natia; quando contemplano le aurore e i tramonti.

Calma e serenità che li fa apparire bambini, fanciulloni nelle ore del riposo, nelle giornate di calma, o quando beffeggian gli austriaci che sbagliano il bersaglio e sprecano granate e shrapnells. [p. 48 modifica]

Scroscia come una risata sonora il loro grido «Vampa, Vampa!» allorchè scorgono il balenìo del cannone austriaco. E rapidi come saette si buttano a terra dietro ai ripari, mentre il proiettile giunge miagolando, fischiando. Le pallette degli shrapnells hanno appena finito di picchiettare al suolo, che già sono ritti in piedi e sembrano provocare il nemico a sprecare munizioni. Che se il nemico, come succede spesso, si accanisce contro bersagli, ove non può far vittime e danni, allora prorompono nel grido «Evviva la sposa!» che è il grido con cui accompagnano nelle sagre, nelle feste nuziali, l’innocuo sparo dei mortaretti e delle pistole.

Buoni e semplici come eroi e fanciulli; audaci e prudenti come soldati di razza; robusti, resistenti come il granito dei loro monti; calmi, sereni come pensatori o filosofi; col cuor pieno di passione malgrado la fredda scorza esteriore, al pari di vulcani coperti di ghiaccio e di neve; tali apparvero nell’Alpe nostra, gli alpini d’Italia, all’irrompere della santa guerra di redenzione e di libertà. [p. 49 modifica]


*


La guerra già dura da dieci mesi.

Dieci mesi che sono stati una grande scuola per tutta la nazione; dieci mesi nei quali quanto v’è di buono e di cattivo in noi si è rivelato, quasi che tutti i nostri valori morali, le nostre qualità mentali e fisiche fossero passate attraverso uno staccio; dieci mesi di vita intensa che rimarranno incancellabili nei nostri cuori; dieci mesi che hanno sopratutto modificato, vorrei dire quasi creato, il nuovo soldato d’Italia.

Nessuna delle buone doti originarie che con sè portava il montanaro divenuto alpino (come le portavano tutti gli altri soldati d’Italia) nessuna si è eclissata. Ma tutte hanno avuto nuova vigoria, nuova forza.

Questa guerra, ha detto un generale, ha cambiato e più ancora cambierà la carta geografica d’Italia; ma di certo essa ha già cambiata l’anima degli Italiani.

L’alpino venuto dalle solitudini delle Alpi, sapea certo meno degli altri delle [p. 50 modifica]ragioni e delle finalità del conflitto europeo e della guerra nostra.

Ma ha veduto gli austriaci ed ha conosciuto la loro tattica di perfidia, di tradimento; ma ha veduto lo scempio da loro compiuto di intere città e villaggi; e della guerra e delle sue cause s’è fatto una coscienza chiara e precisa.

L’alpino che si è trovato faccia a faccia con gli eroi dei gas asfissianti, che è venuto alle baionettate con l’austriaco, che, buttate via le armi, si avanzava con le braccia alzate, fingendosi arreso e giunto a breve distanza staccava la bomba legata dietro la schiena per colpire a tradimento; l’alpino che ha visto i nemici sparare su medici e preti e portaferiti; che ha potuto apprendere da prigionieri austriaci come nel suo campo il soldato sia uno schiavo; che ha visto coi suoi occhi, fra le armi tolte al nemico, le baionette a sega per lacerare viscere e tendini; e che ha visto dei compagni spasimare per le ferite prodotte da palle esplodenti, l’alpino che ha visto tutto questo, e che, a preferenza degli altri soldati, ha potuto valutare questi fatti coordinandoli coi giudizi e con le [p. 51 modifica]impressioni che dei tedeschi aveva avuto come emigrante, l’alpino è divenuto il miglior giudice della santità della nostra guerra.

Mi ha colpito l’aspetto doloroso e sofferente di un gruppo di alpini durante la visita alle case di un paese saccheggiato, devastato e in gran parte bruciato dagli austriaci.

Vi era in una magnifica villa di famiglia patrizia una cassaforte scassinata. Le tracce dei colpi violenti di mazza, i grimaldelli e le spranghe, che aveano servito all’operazione brigantesca, sparsi qua e là, documentavano della feroce voluttà con cui era fatta la rapina.

In una casa contadinesca vi eran tracce dell’aggressione, probabilmente dell’uccisione di una donna. Vicino a un cassettone — che era come l’archivio e il tesoro di famiglia, e conteneva il patto dotale, il contratto colonico, le lettere del marito soldato in Galizia, i conti del dare e dell’avere; — vicino a questo cassettone larghe chiazze di sangue dicevan che lì s’era svolta una lotta tragica; e le chiazze si tramutavano in una larga striscia nera che [p. 52 modifica]di stanza in stanza andava a finire sopra un cumulo di cenci, di grembiuli, di vesti, tutto intriso di sangue.

Ma assai più che da questi atti dell’alta civiltà austriaca gli alpini apparvero turbati dalla triste visione di altre profanazioni.

Negli angoli di ogni cantina, di ogni stalla, la terra era stata smossa, sconvolta e appariva striata di bianco. Eran quelli i ripostigli dove i contadini avean nascosto due cose per loro preziose: il sacchetto della farina bianca, il pane cioè pei bimbi e pei vecchi; ed i rami, i bei rami lucenti che sono l’orgoglio delle case contadinesche. Gli austriaci avean scoperto quei ripostigli e li avean tutti frugati.

E ricordo la piccola stanza di una modesta casuccia, ove tutto parlava dell’affetto di una mamma pei suoi bimbi. Vi erano sulle pareti ritratti di molti piccini, i ricordi delle loro scuole e di tutta la lor vita infantile; in terra era tutto un groviglio di giocattoli, di cavallini, di bambole, di trombette frantumate, calpestate, spezzettate a colpi di baionetta.

Non uomini, non belve, perchè le belve hanno tenerezza pei loro nati, ma esseri [p. 53 modifica]fatti di selce dovean essere quelli che avean commesso tanta infamia. Contro essi, in un sol grido era tutta la ribelle protesta degli alpini: «Austria maledetta! Maledetta Austria!».

E oltre che all’Austria l’imprecazione andava ai sostenitori dell’Austria e il pensiero dell’alpino dovea necessariamente correre a tutti i tedeschi, sia austriaci che germanici camuffati da austriaci, di cui, durante la lunga dimora nelle terre del Nord, avea conosciuto l’uguale mentalità, l’uguale tendenza alla sopraffazione, l’uguale e costante sistema di inganno.

Molti problemi latenti nel cervello dell’emigrante, fattosi alpino, venivano in un colpo illuminati di nuova luce. In qual conto teneva la Germania il nostro paese? Non era essa che reclamava a prezzi modesti le braccia dei nostri lavoratori, per imporci in compenso ad alto prezzo i suoi prodotti? Non era essa che voleva il sangue delle nostre plebi per aver diritto dimetterci le mani in tasca?

Ed ecco apparire chiare all’emigrante le relazioni fra la guerra e lo sviluppo economico del mondo. [p. 54 modifica]

Ecco profilarsi dinnanzi alla mente la questione dell’Alsazia-Lorena — di questa provincia così nota alle nostre correnti migratorie — dell’Alsazia-Lorena, nella quale molti vedono solo il problema nazionale e dimenticano che essa è la provincia più ricca di ogni altra e più di ogni altra fornitrice di risorse economiche, atte a mantenere alla Germania l’egemonia industriale nel mondo.

Ecco balzar nella mente dell’alpino le ragioni della feroce distruzione del Belgio che nelle intenzioni germaniche o dovrà essere centro industriale tedesco o non dovrà esistere;

Ecco apparire le ragioni dell’invasione balcanica;

Ecco trovato il perchè delle colossali opere militari iniziate sul nostro confine, con carattere non di difesa ma di offesa.

Trovar molti di questi argomenti nei giornali e nei libri ha certo valore. Ma ha un valore centuplicato, ha l’efficacia di una dimostrazione froebeliana, il vederli scaturire palpitanti dall’osservazione diretta di questi nemici nostri e del mondo, che non hanno reticenza nel proclamare a [p. 55 modifica]parole e comprovar coi fatti che i loro metodi di corruzione e di inganno, che i loro gas lagrimogeni, che le bombe che essi lanciano contro i bimbi e le donne, che la tortura che infliggono ai prigionieri russi sono la premessa, sono il fondamento della loro civiltà industriale.


*


La meditazione di questi fatti, l’inevitabile discussione che su di essi si fa in trincea, sotto la tenda o in baracca, portano all’esame delle relazioni fra il sentimento nazionale e lo spirito umanitario, fra lo sviluppo economico e la sorte politica di un paese, fra l’interesse dell’individuo o della casta e l’interesse della collettività.

Ne scaturisce fatalmente una più sicura orientazione, una nuova concezione dello spirito patriottico e un desiderio di libertà, d’indipendenza.

Nuova concezione, nuova orientazione alla quale partecipano tutti indistintamente i soldati d’Italia, destinati ad esser tutti domani, quando i confini della patria [p. 56 modifica]saranno al Brennero e al Quarnaro — fatta eccezione dei navigatori dell’acqua e dell’aria — destinati a esser tutti soldati dell’Alpe.

Nuova concezione e orientazione che trova vita e alimento oltre che nell’osservazione diretta dei nemici nostri e della loro opera, in altri importanti fattori che sono un portato della guerra: nell’avvicinamento delle varie regioni d’Italia e nel contatto diretto delle varie classi sociali.

In un unico cimento si sono fusi e confusi i figli del Vesuvio e quelli delle Alpi, gli abitanti del piano e quelli del mare.

Gli alpini hanno salutato con gioia tutti gli italiani apparsi sulle Alpi; forse, per la prima volta, hanno sentito in loro i fratelli. Ogni ricordo di antagonismi, di diffidenze fra settentrione e mezzogiorno è per loro scomparso. Ho sentito gli alpini magnificare i siciliani, e chiamarli diavoli venuti dalle terre del fuoco, li ho sentiti definire i pugliesi come soldati che sanno, all’occorrenza, scalar le montagne senza scarpe e senza bastone; e magnificare i liguri come gente capace di costruir palazzi nel deserto; e lodare i romagnoli [p. 57 modifica]perchè tutte le loro ire di parte le hanno riunite contro l’Austria; e elogiare gli operai delle industrie di Lombardia e Piemonte, che alla guerra hanno portato il contributo, per molti inatteso, del loro magnifico spirito di disciplina; li ho visti entusiasti al racconto dell’eroismo dei sardi e felici di poter conoscere e stringer la mano a qualche piccolo isolano!

È sorta davvero la fratellanza degli italiani.

Il regionalismo, mai combattuto fino a ora a sufficienza nè dalla scuola, nè dal Parlamento, nè dall’esercito stesso; il regionalismo ha avuto dalla guerra un colpo mortale. Esso ha dovuto cedere il posto alla fusione intima delle varie famiglie italiane.

Espressione di questa fusione è la mescolanza folkloristica che caratterizza gli accampamenti dei nostri soldati: son gli alpini che cantano «Ma quant’è bella Napule» e i napoletani che ripetono le cantilene dei bergamaschi e le villotte friulane. Si fondono al campo i suoni ed i colori delle cento città d’Italia, ma su tutto trionfa la canzone della patria, gli inni del [p. 58 modifica]risorgimento risorti, il saluto a Trento e Trieste.

Sul campo si sono avvicinate le regioni; ma si avvicinano altresì le classi sociali. Sotto la stessa tenda, sono operai e borghesi. Lo stesso pericolo affrontano, gli stessi disagi sopportano soldati e ufficiali e nasce dal pericolo un’affinità, una comunanza nuova.

L’ufficiale è l’amico del soldato. Corrono a lui uomini spesso più maturi d’età e gli chiedono consiglio di lor cose, dei loro interessi, gli mostrano le lettere di casa; ad uno è nato un bambino e l’ufficiale deve per il primo saperlo e promette di tenerlo a battesimo, e mantiene la parola sacrificando un giorno della sua licenza; ad un altro insorgono questioni di diritto, controversie d’affari ed è sempre l’ufficiale il confidente. L’ufficiale diventa in certi momenti solenni il confessore e il notaio, ma come si sublimano queste missioni praticate al campo, senza riti, senza toga, senza mandato!

In Italia le varie classi sociali — malgrado tutta la nostra democrazia — non si conoscono abbastanza. Troppo spesso si [p. 59 modifica]guarda con sdegno dall’alto in basso, e con livore dal basso in alto. Troppe categorie di persone colte vivono appartate dal popolo. Che ne sa del popolo l’avvocato che vede e studia la parte meno buona, quella che la sorte trista caccia nelle carceri e davanti ai giudici? Che ne sanno delle plebi tanti studiosi appartati nelle biblioteche? Tanti deputati, facili a discorrere, ma renitenti ad accogliere il discorso altrui? Che ne sanno gli industriali e gli ingegneri? Essi vivono fra i lavoratori, ma l’officina non è l’antica bottega dell’artigiano; il contatto vivo, diretto con la massa manca; ed è sostituito dai rapporti coi capilega, coi fiduciari.

La guerra, la vita del campo ha spezzato le barriere fra classe e classe. Virtù e vizi, pregi e difetti, delle varie classi si svelano a vicenda; crollano molte false concezioni sociali; c’è del male in tutti e si comprende di doverlo ripudiare, combattere; c’è del buono e lo si riconosce in tutta la sua estensione, in alto e in basso, fra gli amici come fra gli avversari d’ieri.

Tutto un mondo di nuove idee si è affacciato ai soldati d’Italia; nè invano [p. 60 modifica]quattro milioni d’uomini avranno vissuto la vita di guerra. Essi saranno gli araldi della rinascita delle multiple energie italiche, tra cui vedremo illuminate di propria bellissima luce quelle della razza montanina. Ad essa, agli alpini, rifattisi costruttori, creatori, lavoratori per eccellenza, sarà reso, dovrà esser reso possibile nella nuova Italia offrire direttamente alla patria il contributo di forza fin qui profuso in lontane regioni.


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Prima che questa guerra servisse di crogiuolo alle varie concezioni di vita, alle varie tendenze, troppo diversa era da classe a classe, troppo parziale, troppo unilaterale, la valutazione dell’idea patriottica.

Non parlo delle concezioni malsane, egoistiche di chi nella patria vede solo l’interesse dell’individuo o della casta o peggio ancora l’interesse di altre patrie a danno della propria; ma entro la cerchia delle idealità più pure, agli uni la patria pareva solo il ricordo della nostra supremazia antica nel mondo, della nostra gloria [p. 61 modifica]nell’arte, il ricordo delle gesta più eroiche della gente nostra da Ferruccio a Garibaldi; per gli altri non era che la visione della folla anonima coi suoi problemi economici, coi fatali suoi rapporti di interesse nella aspra lotta quotidiana per l’esistenza. E nell’una e nell’altra concezione sono elementi di verità, sono elementi fattivi della patria; ma l’una visione non deve esser staccata dall’altra; ma al presente, alle sue necessità noi dobbiamo guardare senza dimenticare gli insegnamenti del passato, senza compromettere i diritti dell’avvenire, che è come dire la sorte, la fortuna, i diritti dei nostri figli.

L’Italia è la terra delle energie prodigiose; la terra che ha tesori individuali di intelligenza e tesori di sentimento, che troppo spesso rimangono isolati, non confluiscono, non sboccano nella vita collettiva della nazione.

La cooperazione è oggi finalmente avvenuta nell’esercito. Per questo l’esercito è a tutti divenuto più sacro, più caro. Non vi è più alcuno che osi disprezzarlo; disprezzare l’esercito vorrebbe dire disprezzare sè stessi e i propri figli; calpestare il [p. 62 modifica]proprio onore. È il popolo che s’è fatto esercito; è l’esercito che s’è fatto popolo.

Che questa intima fusione di forze di cui la «Dante Alighieri» col suo apostolato d’italianità fra tutte le classi sociali fu fervida precorritrice, possa avvenire in tutte le manifestazioni della vita!

Che tutti portino il loro contributo di amore, di fede; che sieno le forze della collettività quelle che si impongono. Non in tutti gli eventi può aiutare la forza dell’ingegno e del genio; ma sempre può vincere la fede.


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Mi occorse sentir di recente un modesto e rude caporale alpino che in forma ingenua, parlando ai suoi soldati, confrontava le gesta del Risorgimento con quelle della guerra d’oggi e concludeva: «L’Italia è ben fortunata perchè ha oggi come ebbe allora un re valoroso e buono, dei reggitori sapienti e forti, perchè se non ha più nè Garibaldi, nè Mazzini ha però trasfuso nell’animo del suo popolo e il cuore dell’uno e la severa coscienza dell’altro.» [p. 63 modifica]

Oh sì! Felice e fortunata davvero l’Italia, che ebbe all’alba del suo riscatto il gran Re che accolse il grido di dolore degli oppressi; ed ha oggi, che il risorgimento si compie, il Re non ignaro della agonia terribile che si preparava all’Italia d’oltre confine, il Re che è sceso in campo con cuore di padre e con ardire di primo soldato d’Italia.

Ma felice e fortunata l’Italia sopratutto perché le virtù dei suoi maggiori tendono non solo a ripetersi nell’individuo, ma a divenire virtù e carattere, sostanza ed anima del popolo tutto.

Permanga domani quello spirito nuovo che d’Italia ci ha dato. L’Italia avrà allora raggiunto non solo la vittoria delle armi, ma avrà vinto ogni interno nemico, avrà debellato ogni cosa che in essa sia non pura e non bella; ed, emula delle sue glorie antiche, al cospetto del mondo, sicura entro i suoi nuovi vigilati confini, rifulgerà della nuova purissima gloria della pace e del lavoro fecondo.