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Atto terzo - Prospetto del palazzo di Menelao

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Johann Wolfgang von Goethe - Faust (1808)
Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
Atto terzo - Prospetto del palazzo di Menelao
Atto secondo - Baia tra le rupi del mare Egeo Atto terzo - Corte interna del castello
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PROSPETTO DEL PALAZZO DI MENELAO,

in isparta.


ELENA si avanza, attorniata da un Coro di prigioniere troiane. PANTALIDE, corifea.

Elena. Quell’io, Elena, ammirata tanto quanto vituperata, qui giungo dalla piaggia ove sbarcammo — tutta ancora commossa dallo spesso ondeggiamento de’ marosi, che dalle campagne di Frigia, sul loro dorso sublime e spumoso, ne traevano col favore di Poseidon, e colla forza d’Euros nel golfo della terra natale. Laggiú, a quest’ora, s’allegra il re Menelao del ritorno, cinto da’ più arditi fra’ suoi guerrieri. Ma tu accoglimi, qual ospite ben vista ed accetta, palagio sublime cui Tindaro, il padre mio, [p. 356 modifica]reduce dalla collina di Pallade innalzava giusta il suo talento, e cui teneva egli arredato con più di magnificenza fra tutti i palagi di Sparta, a’ di quand’io cresceva insieme con Clitennestra, amandola come suora, e in compagnia di Castore e di Polluce iva tuttodì baloccando. Salvete, o voi battitoi della gran porta di bronzo che, schiudendosi ospitaliera, fu cagione che il trascelto in fra tutti, Menelao, sfolgorante mi apparisse nella beltà del fidanzato! Schiuditi un’altra fiata dinanzi a me, che fedelmente eseguisco un messaggio del monarca come alla sposa conviensi. Dammi qua entro l’accesso, e che ogni cosa mi resti alle spalle, tutto tutto che fino al presente di ebbe a darmi travaglio con trista fatalità! Imperciocchè dal momento in cui, fiduciosa e scevra d’ogni timore, mi dipartii da questo luogo per visitare, trattavi da un sacro dovere, il tempio di Citerea, dove l’uomo di Frigia stese sopra di me la rapace sua mano, lunga serie di casi ebbero luogo, di que’ casi onde gli uomini volentieri novellano in brigata, ma cui certo non ode di buona voglia colui, la storia del quale, coll’andar di bocca in bocca alterandosi di più in più, termina poi per riuscire un viluppo di favole.

Il Coro. Non isdegnare, o nobile signora, il glorioso possesso del più alto infra’ beni! chè a te sola è largita la ventura per eccellenza, fregiata qual sei di beltà impareggiabile e al tutto singolare. L’eroe viene preceduto dal famoso suo nome che dovunque rimbomba, ed è per questo che altero incede e superbo. Se non che uomo non avvi inflessibile tanto che non sentasi tratto a piegare lo intelletto vanitoso dinanzi alla bellezza che tutto doma. [p. 357 modifica]

Elena. Or bene! Io approdai qui col mio sposo, ed ora, per cenno di lui, nella sua città lo precedo. Ciò nulla ostante, che pensiero è il suo? non riesco a indovinarlo. Traggo io qui come sposa? come regina? o piuttosto come vittima destinata ad espiare l’acerba doglia del principe, i rovesci da’ Greci per sì lungo volger d’anni patiti? Son io sua conquista, o sua prigioniera? Lo ignoro! ché gl’Immortali hannomi serbata una fama, un destino equivoco, satelliti fatali della bellezza, chè larve oscure e minacciose fin su queste soglie m’assediano e mi tormentano. E già sin dal fondo della nave non mi guardava il consorte che a rari intervalli; nè motto alcuno gli uscia di bocca benevolo e grazioso. Tenevasi egli assiso di contro a me, come se rivolgesse in mente pensieri d’infortunio e di sciagura, e al nostro arrivo entro alla baia profonda dell’Eurota, appena che le prue de’ primi navigli ebbero dato il saluto alla proda, lo intesi a dire, con tuon di voce inspirato: «Scendano qui con bell’ordine i miei guerrieri, ch’io ne faccia la rassegna in riva del mare: tu poi, vanne oltre, costeggiando la riva fruttifera del sacro Eurota, ravviando i corsieri sui prati rugiadosi infino a che abbi toccata la ricca pianura, dove Lacedemone, — campo ferace un tempo e spazioso, cinto da presso di aspre montagne — dove Lacedemone, dico, venne costrutta. Porrai quindi il piede entro alla munita regale magione, passandovi a rassegna la ancelle ch’io vi lasciai, da vecchia e prudente massaia. Là ti si parranno gl’inestimabili tesori lasciativi dal tuo genitore, e ch’io medesimo, sia in guerra come in pace, via più crescendo v’ho accumulati. Ti fia veduta ogni [p. 358 modifica]cosa a suo posto, dappoichè dee il principe trovare quando ritorni l’ordine più preciso, ed ogni suppellettile colà dov’ei l’ebbe, partendo, lasciata; non avendo il servo potestà alcuna di praticare da sè un qualunque picciolo cambiamento.»

Il Coro. Appaga or dunque gli occhi in codesto splendido tesoro, mai sempre accresciuto, e dilata il cuore: chè la guarnitura delle catenelle, e il luccicore della corona, stansi là in bella e pomposa mostra, e si dan vanto d’essere per qualche cosa. Avánzati, e li disfida, che lesti in armi leveranno. Oh! bello a vedere la beltà muover guerra all’oro, alle perle, alle gemme!

Elena. E proseguiva il signore con voce imperiosa: «E quando avrai, come ti ingiungo, visitato ogni cosa, piglia quel numero di tripodi che giudicherai necessari, e i vasi diversi ond’ha mestieri il sacrificatore a compiere il sacro rito; le caldaie e le coppe e il cilindro con quelle. Della più schietta linfa delle sacre scalurigini sieno ricolmi i vasti cratèri: e oltre a ciò fa che aride legna non manchino cui divori pronta la fiamma. S’appresti pure un coltello tagliente: rimetto poscia in te il darti del resto pensiero.» Disse, astringendomi al partire; ma nel cenno di lui non pur un molto che accenni all’ostia da immolarsi in onoranza agli Olimpiadi. La è pur cosa da tenerne conto; nondimeno, io non vo’ punto pensarvi; e facciano poi gli Dei giusta il loro beneplacito! Pongasi l’uomo per la buona o per la mala via, nostro debito è quello di rassegnarci. Già parecchie fiate sollevò il ministro, nel punto del sacrifizio, la pesante bipenne in sul capo all’animale riverso per [p. 359 modifica]terra, senza ch’ei valesse a compiere l’atto solenne, impeditone dallo intervento del nemico incalzante, o di alcuna propizia divinità.

Il Coro. Quanto sia per succedere neppur tel figuri. O regina! indrizzati colà coraggiosamente! Il bene ed il male giungono all’uomo inattesi; e nega perfino di prestarvi credito, s’anco altri ne lo prevenga. Andò Troia in fiamme; e noi ci vedemmo dinanzi agli occhi la morte, e, che è peggio, morte ignominiosa ed infame. Ed ora non siam noi qui a le compagne, contente di prestarti servigio? Non contempliamo noi forse lo splendenle Sole del cielo, e quanto v’ha di leggiadro in sulla terra — te vogliam dire — con nostra somma ventura?

Elena. Avvenga ciò che sa e può! Qualunque sia il destino che mi aspetta, deggio senza indugio ascendere nella magione regale, che da gran tempo deserta, e sospirata tanto, e poco men che perduta, mi sorge ancora, non so come, dinanzi agli occhi. I miei piedi non volano più sì leggeri su per gli alti scalei, come eran usi di fare nell’ardente mia fanciullezza.

Il Coro. Cacciate, o mie sorelle, per fatal sorte cattive, cacciate in bando ogn’idea affannosa! dividete la ventura della regina, la rara ventura di Elena, che al focolare paterno, con passo tardo e lento al tornare ma tanto più sermo e risoluto, allegramente s’avanza!

Levate inni di laude a’ santi Numi, restauratori propizi de’ passati guai, a’ Numi che proteggono il ritorno! Chi riacquista la sua libertà sormonta a volo le più ardue velte, intanto che il prigioniero, cruciato dal desiderio, tende invano le braccia, e [p. 360 modifica]dall’erte mura della sua segreta si strugge e consuma.

Se non che un Dio l’esule toglieva, e dalle ruine d’Ilio qui nella casa antica degli avi l’ebbe condotta, novellamente adornata, acciò da lunga vicenda di gioie e d’angosce inesplicabili, riavutasi ella, si rechi un’altra fiata al pensiero i bei giorni dell’età primitive.

Pantalide Corifea. Lasciate le armonie de’ canti festosi, e lo sguardo volgete alle imposte della gran porta! — Che veggio, sorelle? Non torna ella vêr noi la regina a passo celere e tutta sbigottita? Nelle ampie sale della tua casa, invece degli evviva della tua gente, che hai tu potuto vedere di terribile e spaventoso? Tu non cel sapresti nascondere, ch’io ti leggo in fronte l’affanno e mista a sorpresa la nobil ira che ti accende.

Elena commossa, lasciando spalancata la porta. La tema volgare disdice alla figliuola di Giove, e appena è che la sfiori l’ala leggera di un effimero spavento: ma quel terrore, che uscito fin da principio dal buio della notte antica, irrompe sotto mille forme, come le infocate nubi dal vortice infiammato della montagna; — un terror cosiffatto scuole il seno agli eroi. Per questo le tremende potenze dello Stige hannomi oggi segnala la via della magione, acciocchè pari all’ospite che si caccia, fossi ridotta a dilungarmi volontaria da un limitare spesso varcato, ed a cui sospirava io da gran tempo. Ma no! io me ne sottrassi in pieno meriggio, nè voi mi caccerete più oltre, maligne potenze, qualunque siate per essere! Io vo’ tentare un sacrificio, affinchè dopo le purificazioni, la [p. 361 modifica]fiamma del focolare abbia a rendere alla sposa quelle buone accoglienze ch’ei fa allo sposo e monarca.

Il Coro. Rivela, o nobile signora, rivela alle tue ancelle, che li stanno rispettose all’intorno, quel che t’avvenne.

Elena. Ciò ch’io vidi, voi pur lo vedrete cogli occhi vostri medesimi, salvo che l’antica notte non abbia tantosto sepolta l’opera sua nel profondo suo buio donde sbucano i prodigi: ma ond’abbiate a saperlo, io prendo ora a narrarvelo ad alta voce.

Com’io attraversava con passo grave e solenne il rozzo vestibolo della casa regale, volgendo in mente le novelle mie cure, al silenzio imponente di quel religioso e deserto recinto, fui presa da meraviglia. Nè lo strepito sonoro di gente che va e viene feriva il mio orecchio, nè tampoco l’occhio scorgeva l’affaccendarsi e la sollecitudine del lavoro: non un’ancella, non una massaia di tante che un dì erano preste a salutare affabilmente qual fosse pellegrino e straniero. Intanto, allo avvicinarmi al focolare, mi fu scoperta, presso un tizzo riarso, e omai in cenere ridotto, accoccolata in sul lastrico non so che donna di alta statura e velata, in alto meno di dormente che di pensierosa. Con voce imponente la eccito al lavoro, stimando sulle prime lei essere una fantesca dall’antiveggente consorte là appostata: ma ella dura immota, impassibile, ravviluppata nel panneggiamento delle sue vesti: e solo da ultimo, levata, alle mie minacce, la destra, la vidi far atto quasi dall’atrio e dalla sala volesse cacciarmi. Volgo sdegnata le spalle, salendo su pei gradi che mettono al palco [p. 362 modifica]ove sorge il talamo, sontuosamente guernito, vicino alla stanza del tesoro. Ed ivi pure mi segue la visione, e ritto in piè nella sua gigantesca statura, scarno, cogli occhi infossati, livido tutto e sanguinente, mi appare un truce fantasma, che attraversandomi il passo con tuono imperioso, mi turba gli occhi e la mente.... Ma a che parlo io se mal alta è la voce a creare e dipingere al vivo quell’aspetto? — Miratelo piuttosto voi medesime! ei non si perita di affrontare la luce! Nostro è qui il regnare fin tanto che sta a giungere il signore e monarca. Febo, l’amico della bellezza, ricaccia ben lungi nelle tenebre gli schifosi fantasmi notturni, o li soggioga e sommette.

Una Forcide, avanzandosi sul limitare, in mezzo ai battenti dell’uscio.

Il Coro. Io vissi lunghi anni, avvegnachè i miei biondi capegli cadano inanellati attorno alle tempie: e vidi molte e molte scene d’orrore, la desolazion della guerra, e la notte in cui Ilio cadde.

Di mezzo a’ nembi di polve, e allo scontro feroce de’ guerrieri, mi vennero uditi gli Dei gridare con orribili voci: e lo strido della impassibile discordia che rimbombava lungo la pianura dalla parte de’ bastioni.

Ahimè! le mura d’Ilio erano tuttavia in piedi: ma la vorace fiamma tutto di luogo in luogo occupava, qua e colà dilatandosi, portata dall’infuriare del vento sulla città melanconica.

Tra il fumo e le brage, fra i turbini delle cento e mille lingue di fuoco, vidi i Numi corrucciati avanzarsi; e discorrere a gran passi su e giù forme [p. 363 modifica]strane, giganti, ravvolte ne’ densi vapori, schiarati dalla vampa in ogni parte.1

S’io scorgessi tanta confusione, o se lo spirito in preda alle più vive angosce se l’abbia sol figurata; mal saprei dirlo: ma che di presente io contempli co’ propri miei occhi codesto mostro, oh! non vo’ dubitarne; e potrei toccarlo pur colle mani dove non mi ritenesse la tema di qualche sconcio!

Quale dunque tra le figliuole di Forco2 se’ tu? ch’io ti reputo essere di cotal razza. Saresti mai una di quelle Grazie, che nate nella decrepitezza, hanno fra tutte e tre un sol occhio e un sol dente, che vada una in altra per torno?

E ardisci tu, mostro, trarti daccosto alla bellezza, e alla vista comparire di Febo che ti smascheri e ti svergogni? Non monta, fàtti pure avanti, ch’esso punto non bada alle deformità nauseanti, come appunto il sacro suo occhio non vide mai ombra di sorta.

Ma noi, nate mortali, noi siamo, ahi lasse! fatalmente dannate alla vista d’inaudite sconcezze, cui l’ignobile e maladetto dalla eternità palesa a’ cuori inebbriati del bello.

Odi pertanto, o lu che ne sfidi arrogantemente, odi la maledizione, il rabbuffo, la minaccia, che leva contra le quel medesimo labbro avverso alle venturose creature formale per man degli Dei! [p. 364 modifica]

La Forcide. Gli è antico adagio il cui senso rimane pur sempre oscuro tanto quanto verace: che Pudore e Beltà non fu mai che andassero a coppia, tenendosi per mano, lungo i floridi sentieri della terra. Nell’una come nell’altra dura un astio inveterato, che basse e profonde ha le sue radici. Qualunque sia la piaggia ov’elle s’incontrino, questa volge a quella le spalle, e vassene a suo viaggio, afflitto e mesto il Pudore, la Beltà superba e tracotante, finchè non le avvolga da sezzo la cupa tenebría dell’Orco, se per avventura non le abbia dome prima la tarda vecchiaia. Ma voi, o sfacciate, piene ancora della baldanza straniera, voi mi sembrate uno sciame strepitoso e roco di gru che in lunga riga l’aere sorvola, e dall’alto fa intendere il suo crocidare, al cui stridío leva il tacito viandante la testa: vanno le gru per la lor via, e la sua prosegue il pellegrino; e tale, pensomi, sarà di noi.

Che razza di gente siete dunque voi, che pari a Menadi furibonde, pari a femminelle cotte dal vino, osate suscitare il disordine entro al sublime palagio del re? Chi siete voi, che abbaiate alla fantesca della casa, come le mute de’ segugi fanno alla Luna? Stimate voi ch’io non sappia di che sangue nasceste? — Tu, giovane creatura, nelle guerre concetta, cresciuta nelle pugne, lussuriosa, sedotta ad un’ora e seduttrice, snervando così il nerbo del guerriero come quello del cittadino! — In veggendovi divise in drappelli a quel modo, rassembrate uno stormo di cavallette sulle bionde mėssi cadute! — Voi sciopatrici di lavoro non vostro, ghiotte voi, e flagello della nascente prosperità; — e tu, merce [p. 365 modifica]involata, venduta al mercato, e vilmente cangiata!

Elena. Garrire alle ancelle quando sono in cospetto della loro signora è un arrogarsi i diritti della casa; dappoichè alla sola regina si aspetta l’assegnare premi e castighi. Io sono soddisfatta de servigi ch’elleno mi resero quando la splendida rocca d’Ilione fu cinta d’assedio e cadde, e quando sostenemmo i comuni travagli di una vita errante, dove per solito ciascun non bada che a sè. E quivi altresi nel vigile drappello ho fidanza. Non chiede il padrone lo schiavo qual sia, ma in qual modo ei lo serva; quindi è che ti impongo silenzio, insofferente che più oltre durino le beffe. Hai tu ben custodita la magione regale in luogo della sovrana? Ciò varratti ad onore: ma oggidi ch’ella stessa è di ritorno, tu dèi cederle il passo, onde in iscambio del meritato guiderdone, non abbia a scendere su te la provocata vendetta.

La Forcide. Minacciare gli ospiti della casa, rimane un illustre privilegio, cui la nobile consorte del sovrano caro agli Dei s’ebbe acquistato con molti anni di saggio governo. E però, dacchè, riconosciuta solo da oggi, torni ad occupare l’antico grado di regina e signora, impugna le redini abbandonate or fa gran tempo; mèttiti ora al governo, e piglia possesso del tesoro e di noi. Ma, prima d’ogni altra cosa, proteggi me, la più vecchia, da codesto branco di fanciulle, che presso al cigno della bellezza per poco non sono che spennate oche e ciarliere.

La Corifea. Oh come brutta d’accosto alla beltà riesce la bruttezza!

La Forcide. Oh quanto sciocca d’accosto alla [p. 366 modifica]ragione mostrasi la scioccheria! (Da questo punto, ciascuna delle donzelle replica, uscendo fuor dal drappello:)

Prima del Coro. Parlaci dell’Erebo tuo padre, parlaci di tua madre, la Notte.

La Forcide. E tu, dimmi di Scilla, tuo cugino in primo grado.

Seconda del Coro. Di mostri formicola il tuo albero genealogico.

La Forcide. Va! cerca nell’Orco il tuo parentado.

Terza del Coro. Que’ che vi soggiornano son tutti troppo giovani per te.

La Forcide. Vanne ad amoreggiare col vecchio Tiresia.

Quarta del Coro. La nudrice d’Orione è tua pronipote.

La Forcide. Le Arpie, m’immagino, ti hanno allevata nelle immondezze.

Quinta del Coro. Di che vai tu nutrendo codesta magrezza così appariscente?

La Forcide. Non già, senza fallo, colla carne di che vai ghiotta cotanto.

Sesta del Coro. Tu, non puoi certo essere avida che di carogne, carogna tu stessa fetida e ributtante.

La Forcide. Denti di vampiro luccicano nella tua boccaccia arrogante.

La Corifea. Io chiuderò la tua, se vengo a dir chi tu sei.

La Forcide. Pronuncia solo il tuo nome, e ogni epimma è finito.

Elena. A voi mi frappongo, afflitta più che [p. 367 modifica]sdegnata ed ingiungovi di cessare una volta codesto alterco villano. Nulla evvi che sia più fatale a chi regna, della collera de’ fidi servi, alimentata in segreto: l’eco de’ suoi ordini non gli torna più così armonico nel fatto celeremente compito; molte voci ribelli brontolano intorno a lui, che, smarrito, cerca invano di soffocarle. Ma v’ha di più, nella sfrenata vostra stizza, avete rideste immagini sinistre, le quali mi si serrano intorno così tenaci, che, a dispetto delle verdi pianure della mia patria, parmi essere all’Orco trascinata. È forse ciò un ricordo? Fu essa illusione? Sare’io dunque il sogno, il fantasma di codesti sovvertitori di ciltà? tal sono adesso? tale sarei un dì per divenire? Le donzelle raccapricciano; or tu, che se’ tanto innanzi negli anni, che fredda così li mostri e impassibile, rispondimi, e siano intelligibili le tue parole.

La Forcide. A chi rimembra i molti godimenti per lunghi anni provati, a costei il favore de’ Numi par sogno; ma tu, soprammodo graziata, nel corso di tua vita non riscontravi altro che aipanti dal desio trascinati alle più rischiose intraprese. Ed ecco Teseo, acceso di lubriche vampe, ti adocchiò per tempo, Teseo, possente al pari di Ercole, nobile giovinetto e laggiadro!

Elena. Rapivami egli, svelta cervetta a dieci anni, e la borgata d’Afidna?3 nell’Attica, m’ebbe accolto fuggente. [p. 368 modifica]

La Forcide. Riavuta poco appresso la libertà per opera di Castore e di Polluce, fosti corteggiata da una scelta schiera di prodi.

Elena. Patroclo, per altro, simile tanto al Pelide, fu, lo confesso di buon grado, quello fu che in fra tutti seppe conciliarsi in segreto la mia affezione.4

La Forcide. Ma pel volere di tuo padre andavi sposa a Menelao, ardito navigante e ad un tempo savio custode del focolare domestico.

Elena. Confidavagli il genitore in un colla figlia l’amministrazione del proprio regno; il rampollo di codesto imeneo fu Ermione.

La Forcide. Se non che, mentre il tuo consorte recavasi lunge a conquistare da valoroso la cretense eredità, un ospite ti apparve nella tua solitudine, ospite, ahi! troppo avvenente!

Elena. A che mi richiami al pensiero i giorni poco dissimili dalla vedovanza, e le atroci sciagure che n’ebbi a sopportare?

La Forcide. E a me pare, che sortii in Creta i natali, a me pure quella intrapresa valse l’infortunio di una ben lunga schiavitù.

Elena. Ei t’ebbe — lo sposo — nello stesso tempo [p. 369 modifica]eletta qui a massaia, non poco a te confidando: la borgata e il tesoro conquistato coll’armi.

La Forcide. Cui tu abbandonavi, vòlta alle mura d’Ilio, ed alle gioie inesauste dell’amore....

Elena. Non mi ricordare tai gioie: l’immenso pondo di angosce senza nome m’oppresse allora il cuore e la mente.

La Forcide. Ma corse intorno una voce, che ti mostrasti a quell’epoca doppio fantasima, facendoti vedere ad un’ora in Troia ed in Egitto.5

Elena. Non accrescere il turbamento de’ miei sensi abbattuti; chè già fin d’ora, non so troppo bene chi io mi sia.

La Forcide. Dicono inoltre che, fuggitosi all’impero delle Ombre, venisse Achille, contro ogni legge [p. 370 modifica]del fato, a congiungersi focosamente con te, con te ch’egli avea tanto amata.

Elena. Io, fantasima, stringomi ad esso lui, fantasima del pari; era quello un sogno, le stesse parole ne fanno fede: io mi svengo, e addivengo per me stessa un fantasima.6 (Tramortisce in braccio alle ancelle.)

Il Coro. Taci olà, taci omai, gelosa calunniatrice dalla bocca nauseante, d’un sol dente provveduta! Che può mai uscir di buono da quelle orribili fauci spalancate?

Il tristo che ha il mèle sulle labbra, il lupo rabbioso sotto al manto di pecora, mi spaventano assai meno del furore del cane trifauce. Noi siamo nell’inquietudine, e domandiamo a noi stesse donde quando e come siaci qui venuto codesto orribile mostro, che veglia nelle tenebre.

Mentre ora, invece di arrecarne conforto, e spandere sopra di noi un largo fiume di amiche e dolci parole, vai nel passato frugando per cavarne fuora anzi il male che il bene; talchè lo splendore presente s’affioca ed appanna nell’atto che via dilegua il dolce lume di speranza nell’avvenire. [p. 371 modifica]

Taci olà! non far motto! chè lo spirito della regina, presso a fuggirsene, torna indietro, e n’è ancora conservata la più leggiadra creatura che abbia mai il Sole schiarato! (Elena va risensando, e si rifà in piedi in mezzo al Coro.)

La Forcide. Esci da’ lievi vapori, o splendido Sole di questo giorno, tu già si incantevole sebbene velato, e regna adesso nella sfolgorante tua gloria! Sguarda tranquillo e sereno quanto il mondo si dilata a’ tuoi occhi! Costoro han bel nominarmi la Schifosità, ch’io m’intendo quanto basta di Bellezza.

Elena. Mi traggo fuori vacillante dal vuoto ond’era nella vertigine attorniata; e grato mi fora oltremodo dare un’altra fiata in braccio al riposo queste membra così lasse e affralite: se non che debbono le regine, e quanti son uomini, ingagliardirsi e riprender animo, qualunque sieno i casi da’ quali si veggano combattuti e sorpresi.

La Forcide. Tu ci stai dinanzi nella tua piena maestà e bellezza: il tuo sguardo ne dice che hai fatto un comando; che imponi tu? Parla.

Elena. Vo’ che si racquisti il tempo perduto in isfacciate contese, e che senza indugio si compia il sacrificio prescritto dal re.

La Forcide. Ogni cosa è qui dentro apparecchiata: la tazza, il tripode, il coltello tagliente; l’acqua lustrale, l’incenso e tutto il resto è all’ordine: mostraci ora la vittima.

Elena. Non me l’ebbe il re indicata.

La Forcide. Non te l’ha delto? Oh! che pena!

Elena. Quale affanno ti stringe il cuore in tal punto? [p. 372 modifica]

La Forcide. La vittima, o regina, se’ tu stessa!

Elena. Io?

La Forcide. E tutte costoro.

Il Coro. Oh sventura! oh disperazione!

La Forcide. Tu dèi cadere sotto il coltello.

Elena. Orrore! Ma l’ho presentito, infelice ch’io sono!

La Forcide. Ciò parmi al tutto inevitabile.

Il Coro. Oh noi meschine! E qual fato fia dunque il nostro?

La Forcide. Ella morrà di nobile morte; ma voi, come i fringuelli nelle reti del cacciatore, vi andrete dibattendo, sospese intorno intorno all’erto poggiuolo che sorregge la compagine del tetto. (Elena e le ancelle in alto di stupore e di raccapriccio, formano un bel quadro armonicamente disposto.)

La Forcide. Fantasime! — Sembianti a statue immobili, vi state colà sbigottite, perchè vi è forza staccarvi dalla luce del giorno che punto non vi appartiene. Gli uomini, questi spettri che vi somigliano, rinunciano tutti di mala voglia all’augusta lampa del Sole; pur non è voce che interceda per essi, nė vi ha possa alcuna che dal fato gli scampi. Niuno lo ignora; e tuttavia ben pochi sono coloro che sel tolgano in pace. Non monta, la è finita per voi. All’opera, dunque! (Batte palma a palma, ed entrano tosto parecchi nani con maschera in viso, che si affaccendano ad eseguire gli ordini.) Vien qua tu, mostro tenebroso, e di forma sferica! Va a rotolarti da questa parte! Coraggio! Assai male c’è qui da operare; pigliatevene pure una satolla; fate posto all’altare da’ corni d’oro! Che il luccicante coltello sia posato sulla [p. 373 modifica]sponda d’argento; colmate d’acqua le idrie onde si lavi l’orribile imbratto del negro sangue; spiegate in fine sul terreno polveroso i preziosi tappeti, acciò la vittima pieghi regalmente i ginocchi, e venga poi seppellita, — col capo, è vero, spiccato dal busto ma sempre con dignità!

La Corifea. Sta la regina pensosa; e le giovani donzelle si abbattono, com’erba dalla falce mietuta. A me dunque, a me la maggiore di tutte, corre l’obbligo sacro di scambiar parole con te, vecchia decana. Tu hai la sperienza e la saggezza; e sembri non meno ben disposta verso di noi, tuttochè abbiati a prima giunta questa improvvida schiera provocato. Quindi è ch’io ti chieggo qual via rimanga aperta ancora per la nostra salvezza.

La Forcide. Restane sol una, ed agevole. Sta in mano della regina il preservar sè, e voi tutte quante con essa: ma e’ conviene decidere senza indugio.

Il Coro. Oh la più rispettabile infra le Parche! la più saggia delle Sibille! tieni aperte, di grazia, le forbici d’oro, e non sii lenta ad annunziarci lo scampo e la vita, mentre ci sentiamo fin d’ora correre un brivido per le ossa, e già già ne sembra che a’ buffi del vento dondolino le dilicate nostre membra, cui riuscirebbe le mille volte più dolce l’agitarsi in danza festosa, per dipoi riposarci sul petto del nostro amante.

Elena. Lascia pur ch’esse temino. — Da mestizia io son presa, non da spavento; ad ogni modo, se conosci una via di salute, verrà accolta con senso di gratitudine. Per chi è saggio, e d’ingegno perspicace [p. 374 modifica]e sottile, anco talvolta l’impossibile si rivela: — parla, di ciò che ne pensi.

Il Coro. Sì! sì! parla, e dinne senza dimora come potremmo schermirci da questi orrendi capestri che già già ne serrano la gola, collari infaustissimi e fatali. Oh! noi tapine! ecco ne manca il respiro, e innanzi tempo ci muoiam soffocate, ove tu, augusta madre di tutti gli Dei, o Rea! non pigli commiserazione del fatale nostro destino.

La Forcide. Vi sentireste voi di avere tanto di sofferenza da sentire in silenzio a svolgersi la tela di un ragionamento lunghetto anzi che no? Avvi più d’un’istoria da raccontare.

Il Coro. Sì! sì! useremo pazienza! Standoci in ascolto, vivremo.

La Forcide. Per chi, rimastosi in casa, dàssi a custodire il ricco tesoro, mura e assoda viem meglio gli erti bastioni dove si chiude, e il tetto assicura contro le bufere, per costui ogni cosa riuscirà a bene fin che gli basti la vita: ma chi varca improvvido e spensierato con piè fuggitivo la sacra soglia della magione, troverà bene al ritorno le sale antiche, ma tutto cangiato per entro, se non forse distrutto.

Elena. Dove mai vanno esse a parare codeste conosciute sentenze? Poi che dicevi di voler raccontare, non accrescere le mie pene con amare memorie.

La Forcide. Quanto io dico la è pura storia: tutt’altro che di rimproveri suonano le mie parole. — Menelao, corse da vero pirata di golfo in golfo; e artigliando ogni cosa, isole e piagge, tornò carico del bottino in questo palagio accumulato. Dieci [p. 375 modifica]lunghi anni si trattenne davanti ad Ilio; e quanti ne spendesse a rifar cammino per codesti luoghi, nol so. Ma che si va ora facendo nella splendida rocca di Tindaro? In quali condizioni trovasi adesso il regno?

Elena. Hai tu dunque l’invettiva così incarnata nelle ossa, che, senza dar biasimo, non ti venga fatto di muovere le labbra?

La Forcide. Molt’anni ancora starassi abbandonata e diserta la montuosa vallea che si stende al settentrione di Sparta — col Taigete da tergo, — dove, pari ad un allegro ruscello, discorre l’Eurota, e attraversando i canneli della nostra pianura, vassene poscia a nudrire i candidi cigni. Nondimeno laggiù, dietro montuosa vallea, traevasi a stanza un popolo di venturieri, sbucato fuori dalla Notte Cimmeria;7 sorse colà un borgo fortificato, inaccesso, donde questa razza di genti domina a suo grado la terra e gli abitatori.

Elena. E riusciva a costoro di compiere così ardua intrapresa? E’ pare impossibile.

La Forcide. Non fu certo il tempo che mancasse loro a ciò: ch’ebbero a un dipresso vent’anni.

Elena. Hanno essi un capo? Son forse masnadieri numerosi ed uniti?

La Forcide. Masnadieri non sono, ma vivono retti da un capo, di cui non vo’ dir nulla di male, avvegnachè abbiami già dato da soffrire. Potea ben [p. 376 modifica]egli prendersi tutto, e fa pago di soli pochi e lievi presenti, a’ quali diè nome di tributo.

Elena. E qual è costui?

La Forcide. Non c’è male, per quello almeno ch’io ne penso. Gli è un uomo vivace, ardito, ben complesso, di non poca prudenza, tale, a dir corto, che ben rari sono in Grecia que’ che gli rassomiglino. Vien tenuto quel popolo in conto di barbaro; ma io porto opinione che non ne troveresti pur uno il quale in crudeltà pareggiasse tale un eroe il quale fu veduto condursi da antropofago sotto le mura d’Ilione. Io conto sulla grandezza d’animo di lui, e me gli son data in balía. E’l suo castello! Chi può vederlo, e non se ne stupire? Gli è tutt’altro che i bastioni massicci costrutti alla impazzata da’ padri vostri, bastioni propriamente ciclopici, che è come a dire macigni su macigni scabri ed informi. Allo ’ncontro colà tutto è fatto ad arte e simmetrico. Vedetene la facciata, come spiccasi inverso il cielo, ritta ed a squadra, con tanta solidezza costrutta, lustra come l’acciaio! Chi la strana idea concepisse d’inerpicarvisi sopra, prima ancora di cimentarsi andrebbe preso da vertigine. Nell’interno poi, ampi cortili, con all’intorno ogni ragione di opere architettoniche, per qualsivoglia uso; colonne, colonnini, volte, archi acati, poggiuoli e gallerie donde scopresi ad una fiata l’interno e l’esterno della fabbrica, — non che i blasoni.

Il Coro. Che s’intende per questi blasoni?

La Forcide. Portava Aiace, secondo avrete potuto voi medesime vedere, portava in sullo scudo de’ serpi attorcigliati. I sette dinanzi a Tebe, [p. 377 modifica]mostravano, ciascuno sul proprio palvese, scolpite delle figure, e tutte simboliche. Là scorgevi la Luna e le stelle sur un cielo notturno, e dive oltracciò, eroi, scale, faci e giavellotti, e tutto che vale a minacciare una rocca munita. Fin dalle età più remote, porta la nostra gente immagini simili a queste, espresse co’ più vivi colori; e lioni ed aquile, e artigli e sanne; arrogi, corna di loro, ali, rose, roste di penne di pavone; inoltre delle zone d’oro o di argento, e rosse e nere ed azzurre. Ora cosiffatti simboli pendono l’un dopo l’altro nei saloni, vasti quanto il mondo! Là entro potreste voi danzare a bell’agio!

Il Coro. Or dinne, sonci par là de’ ballerini?

La Forcide. E quanto graziosi e leggiadri! Drappelli con roseo volto, con aurei capegli inanellati, che proprio olezzano di gioventù. Paride soltanto era così frescoccio ed amabile ne’ di quando si trasse troppo accosto alla regina.

Elena. To vai fuor del tuo tema: udiamo l’ultima parola.

La Forcide. Tocca a te il proferirla: pronuncia solennemente un sì chiaro e manifesto, e farò in modo che un tal castello li circondi all’istante.

Il Coro. Oh! facciasi una volta udire quel breve motto, che a te ed a noi apporti salute!

Elena. Come mai dovrò io temere che il re Menelao mostrisi così snaturato, da patire ch’io soffra?

La Forcide. Ti passò dunque di mente com’abbia mutilato il suo Deifobo, il fratello di Paride, ucciso combattendo; Deifobo, che te, vedova, dopo sì lunghe prove, ottenne, ed ebbe la ventura di averti a sua sposa? Ei n’ebbe mozzo il naso, e mozzi pure [p. 378 modifica]gli orecchi; nè furono pochi que’ che vennero trattati del pari. Era quella, per mia fè, cosa orribile a vedersi.

Elena. Così lo trattò, ed io ne fui la cagione.

La Forcide. E così tratterà te medesima, senza meno. La bellezza è cosa indivisibile. Chi intera l’ebbe posseduta, più che assentire di condividerla, l’annienta maledicendo. (Trombe festive da lungi. Il Coro tripudia.) Come lo squillo delle trombe penetrante ed acuto lacera il timpano e scote le viscere, non altrimenti la gelosia s’aggavigna al cuore dell’uomo, che mai non si scorda ciò ch’ebbe pria posseduto, e ciò che or gli fu tolto.

Il Coro. Non odi tu un echeggiare di trombe? Non vedi tu un luccicar d’arme da lunge?

La Forcide. Sii tu il benvenuto, mio signore e mio re! Eccomi apparecchiata a renderti de’ miei fatti ragione.

Il Coro. Ma noi!

La Forcide. Ben lo sapete, che vi sta in sugli occhi la morte di costei, e nella sua morte presentite non meno la vostra. No! scampo alcuno non evvi per voi. (Pausa.)

Elena. Ho ponderato tra me quanto è da tentarsi. Tu se’ un dèmone, pur troppo lo conosco, e temo forte che il bene in mal non tramuti. Anzi tutto, vo’ seguirti in castello; a qual partito dovrò poscia appigliarmi, io mel so, e so del pari che i segreti cui la regina cova nel petto rimangono impenetrabili a chicchessia! Vecchia, precedi i miei passi!

Il Coro. Oh! come n’è caro l’avviarci, — con [p. 379 modifica]piè leggero — colla morte alle spalle — e a noi dinanzi — le inaccessibili mura del castello; — ch’esso ne protegga come un tempo la rocca d’Ilione — che fu tratta a soccombere — dalla sola infamia di un tradimento! (Fitte nubi si dilatano a dritta e a sinistra, velano il fondo, e occupano di tratto il proscenio.) Or donde ciò? — Sguardate, o suore, all’intorno! — L’orizzonte non era egli sereno? — S’accavallano le nubi, — uscite dall’onda sacra dell’Eurota. — Già ne vien tolta al guardo — la deliziosa riva da’ canneti ricinta; — e i cigni altresì, i cigni — liberi, alteri, graziosi, — che scorrono mollemente insieme — drappelli a fior d’acqua pieni d’amore ahimė! gli stessi cigni sonci spariti!

Pur pure — io gli odo ancora, — odo il rauco cantare da lungi; — essi annunciano la morte! — Ahi! purchè a noi del pari — ohimè! non la intuonino, — invece della promessaci salute, a noi candide sorelle de’ cigni, — dal collo di neve, pieghevole, — come, oh sciagura! alla figliuola del cigno. — Guai a noi! guai!

Le tenebre hanno già invaso — tutto quanto lo spazio. — Gli è un gran fatto se l’una l’altra discerne. — Che è? Andiamo ora noi? — Discorriamo noi con rapido passo? — Scopri tu nulla sulla terra? — Sarebbe mai Hermes quegli che ne precede? — Non vedi tu luccicare lo scettro suo d’oro? vedilo per segni ordinarci di rientrare in seno alle Iadi, stanza trista e buia ove si trovano — fantasimi impalpabili — luoghi ognor pieni, comecchè sieno vuoti pur sempre!

Ecco l’aere oscurarsi di tratto, e il vapor denso [p. 380 modifica]e perso sciogliersi senza che per questo si schiari l’orizzonte, e lo sguardo vagante contro aspre mura intoppare. Gli è questo un cortile? O un profondo burrato? Da ogni parte non miro che oggetti di spavento. Ohimè! sorelle, siam prigioniere, or più che mai!


Note

  1. Il Coro canta lo spaventoso dramma della rovina di Troia; notte lagrimevole, in cui furono vedute apparire divinità formidabili, e per accennarne alcuna, Eris o la Discordia. (Vedi Omero nell’Iliade, lib. XI.)
  2. Figliuolo del Mare e della Terra. Sposò Ceto, dalla quale ebbe Medusa, e le altre Gorgoni. Fu vinto in un combattimento da Atlante, per la qual cosa si precipitò nel mare.
  3. Afidoa, borgo dell’Attica, notato solo da’ più antichi geografi, prende il nome da Afidno re d’Attica. — Ad esso, non che alla madre Etra, Teseo confidava Elena, appena settenne, secondo Plutarco, e decenne secondo Diodoro. (Plut., Teseo; Diodoro Siculo, LIII.)
  4. Secondo Pausania, Achille eziandio fu preso al fascino prepotente di Elena, la quale prese ad amarlo come ideale della bellezza virile, e diessi poscia a Patroclo, perchè le rammentava l’eroe. Ma era fisso che gli amanti della figliuola del Cigno dovessero perderla tosto; e Achille dovette sommettersi a tale destino: ma si racconta che dopo morte, dall’indomita passione trascinato, fuggì nottetempo dal regno delle Ombre, e andò a sorprender Elena nel sonno. Da questa scena d’ineffabile voluttà nacque Euforione, posto da’ mitologi nella regione de’ beati.
  5. Troviamo in Erodoto la chiave di codesto labirinto, dove l’eroina di Goethe si smarrisce sulle orme della Forcide. Elena fuggente con Paride, è spinta all’Oriente; e il re d’Egitto, Proteo, informato da’ suoi intorno al nome ed al grado degli ospiti, s’impadronisce tantosto di Elena e de’ tesori che seco aveva, e a Paride impone lo sfratto da’ suoi Stati. Intanto, ad una tale novella, Menelao, che s’era dato ad inseguire la rapita consorte, affrettasi di farvela verso l’Egitto; ma prima ch’ei v’approdi, il re Proteo muore, ed il figliuolo di lui pone alla sua volta in così dure strette la povera Elena, che uscita ella dal palagio va a rifugiarsi presso la tomba dell’antico re. Là passa i giorni trista e nel pianto, e la voce di Mercurio che l’accerta del ritorno allo sposo ed alla patria, riesce mala pena a farle sopportare la esistenza. Da ultimo arriva Menelao, nel punto che, poggiata al sepolcro, lo spirito invoca del suo protettore. Riconosciutisi, gli sposi si abbracciano; e rimessi in libertà dal re d’Egitto, riprendono il cammino per a Sparta. (Erodoto, Euterpe, lib. XI.) Ora, codesta favola che in modo veruno può collegarsi al mito comunemente accettato del ratto di Elena, porge occasione alla leggenda della doppia presenza di lei. La quale viene per modo turbata dall’apparizione e dalle invettive della Forcide, che ne perde il senno. La sua memoria si confonde, dàssi a credere per tutt’altra da quel che è, forse l’Elena egiziana, e finisce col porre in dubbio la sua propria esistenza.
  6. Queste parole della Tindaride si rapportano all’alienazione mentale in che la gettano le sue rimembranze, e le immagini cui la Forcide si piace di evocare, nè contraddicono menomamente quanto dianzi fu detto. L’antica Elena è costei, la verace Elena, non già, come nel primo atto, un’ombra, un fantasma, un’idea, che ne sta dinanzi agli occhi; ce lo dice lo stesso Goethe: «Suppongasi che la legittima Elena, calzato il coturno della tragedia antica, venga in persona in prospetto al palazzo de’ suoi primi anni, a Sparta, ed ecco quanto io dimando per ora.» Kunst und Alterth. VI, 1. S. 203. — Per ciò che riguarda i fatti che la Forcide pare studiarsi di svolgere un dopo l’altro, veggansi: Platone, Fedro; Stesic., Framm.; Isocrate, Laudatio Helenæ, ec.
  7. I Cimmerii, o Cimbri, in allora al settentrione della Grecia, nella Crimea e nella Turchia d’Europa. Goethe nel suo omerico linguaggio, servesi qui del nome loro per indicare i popoli del Settentrione, gli Alemanni di Fausto.