Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/372

364 fausto.

La Forcide. Gli è antico adagio il cui senso rimane pur sempre oscuro tanto quanto verace: che Pudore e Beltà non fu mai che andassero a coppia, tenendosi per mano, lungo i floridi sentieri della terra. Nell’una come nell’altra dura un astio inveterato, che basse e profonde ha le sue radici. Qualunque sia la piaggia ov’elle s’incontrino, questa volge a quella le spalle, e vassene a suo viaggio, afflitto e mesto il Pudore, la Beltà superba e tracotante, finchè non le avvolga da sezzo la cupa tenebría dell’Orco, se per avventura non le abbia dome prima la tarda vecchiaia. Ma voi, o sfacciate, piene ancora della baldanza straniera, voi mi sembrate uno sciame strepitoso e roco di gru che in lunga riga l’aere sorvola, e dall’alto fa intendere il suo crocidare, al cui stridío leva il tacito viandante la testa: vanno le gru per la lor via, e la sua prosegue il pellegrino; e tale, pensomi, sarà di noi.

Che razza di gente siete dunque voi, che pari a Menadi furibonde, pari a femminelle cotte dal vino, osate suscitare il disordine entro al sublime palagio del re? Chi siete voi, che abbaiate alla fantesca della casa, come le mute de’ segugi fanno alla Luna? Stimate voi ch’io non sappia di che sangue nasceste? — Tu, giovane creatura, nelle guerre concetta, cresciuta nelle pugne, lussuriosa, sedotta ad un’ora e seduttrice, snervando così il nerbo del guerriero come quello del cittadino! — In veggendovi divise in drappelli a quel modo, rassembrate uno stormo di cavallette sulle bionde mėssi cadute! — Voi sciopatrici di lavoro non vostro, ghiotte voi, e flagello della nascente prosperità; — e tu, merce