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Atto secondo - Baia tra le rupi del mare Egeo

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Johann Wolfgang von Goethe - Faust (1808)
Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
Atto secondo - Baia tra le rupi del mare Egeo
Atto secondo - Il peneo Parte seconda - Atto terzo
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BAIA TRA LE RUPI DEL MARE EGEO.


La Luna immobile al Zenit.1

Sirene, che accampate qua e là sulle rocce, mormorano e cantano. E’ fu stagione che nell’orrore notturno le tessale maghe ti ebbero sacrilegamente attratta verso la terra. Dalle erte volte della tua notte, manda una tranquilla occhiata sullo sciame delle ondate che brillano con lume sì dolce, e vieni a schiarare questi flutti in iscompiglio. O Luna, [p. 337 modifica]graziosa divinità, sii tu propizia vêr noi nel tuo servizio sollecite e premurose!

Nereidi e Triloni in forma di mostri marini. Echeggi tutta quanta è la marina al suono fragoroso di vostre voci! Raccoglietevi intorno intorno le moltitudini d’abisso! — Veggendo spalancarsi gli orrendi vortici della tempesta, noi ci eravamo rintanati nel fondo più silenzioso; ma le dolci vostre cantilene fanno che ne torniamo alla superficie.

Mirate! come a tanta dolcezza rapiti, ci siamo tutti d’aurei monili adornati, alle corone, alle pietre preziose i fermagli aggiungendo e le zone; tesori inestimabili inghiottiti dalle tempeste tolti con noi, vostra mercè. Quelle voci maliarde così n’ebbero sedotti, o demoni della nostra baia!

Le Sirene. Sappiam troppo bene, che nel rezzo marino s’appagano i pesci del loro vivere spensierato e vagante; ma caro ne fia l’apprendere oggi da voi, che per gioia vi commovete, quanto l’essere vostro da quello de’ pesci si dilunghi.

Le Nereidi e i Tritoni. Prima di venir qua, tal era il nostro proposito; ma adesso, all’erta! o suore, o fratelli! Basta oggidì un attimo solo perchè vi sia pienamente dimostro che noi siamo pesci in tutto e per tutto. (S’allontanano.)

Le Sirene. A un batter d’occhi sonosi ripartiti! difilato verso la Samotracia?2 e’ scomparvero, scorti dal vento propizio. Che vorranno essi dunque tentar colaggiù in mezzo al regno de’ forti e potenti Cabiri?3 [p. 338 modifica]Quali divinità strane e singolari! Ei generano sė medesimi eternamente, nè mai san nulla dell’esser loro.

[p. 339 modifica]Rèstati pure in alto, o dolce Luna! e diffondi su noi le tue grazie. Oh! duri a lungo la notte, sicchè non venga il giorno a disperderci!

Talete, sulla riva, ad Homunculus. Io ti menerò di buon grado dal vecchio Nereo, chè, se ho a dirla, non siamo gran fatto discosti dalla sua grolla; ma ti avverto che lo sgarbato e pensieroso dio è non poco testereccio. Tutto il genere umano non varrebbe a produrre cosa alcuna che il fantastico brontolone volesse mai approvare. Egli però ha il dono di leggere dentro all’avvenire; ed è per questo che gli usano tutti riverenza, e là dove stassi lo onorano. V’ha anzi più d’uno che a lui va debitore di qualche beneficio.

Homunculus. Mettiamoci dunque alla fortuna, e picchiamo! Non sia già ch’abbia a costarmene il vetro e la fiamma.

Nereo. Son voci umane quelle che mi feriscono gli orecchi! Oh come tosto mi prende la bile fin nell’intime midolle! Larve che adelano continuo infino agli Dei sublimarsi, e son poi dannati a non essere altro in perpetuo salvo quello che sono. Avre’ io potuto da tempo immemorabile tranquillarmi nel riposo de’ Numi, e tant’è, l’istinto che mi domina traevami a soccorrere i buoni: quando poi, ogni cosa essendo compiuta, mi posi a considerare, conobbi mai

[p. 340 modifica]sempre che le faccende correvano, come appunto s’io non me ne fossi tanto o quanto impicciato.

Talete. E nondimanco, o vecchio del mare! non lasciasi di confidare in te; e tu, che se’ fior di saggezza, non vorrai quindi scacciarne! Vedi codesta fiammella che ad uom rassomiglia! essa tutta quanta s’abbandona al tuo senno e a’ tuoi consigli.

Nereo. Che parli tu di consigli? In qual mai tempo furono i consigli apprezzati dagli uomini? Le parole del saggio muoiono senza frutto ne’ loro orecchi sordi e ottusi; e se per avventura gli stessi fatti riescano a contraddirli e biasimarli, non per questo cotal razza dalla sua ostinatezza menomamente desiste. Quante ammonizioni paterne non fec’io a Paride, innanzi che per libidine si allacciasse ad una femmina straniera! Si tenne egli arditamente sulla greca piaggia, ed io non gli tacqui ciò che la mia mente chiaro scorgeva; e l’aere pieno di crassi vapori, solcati di strisce sanguigne; e gli edifizi preda all’incendio, e lungo le vie i massacri e le morti; l’ultimo giorno di Troja consecrato poi nel canto, e dopo ben mille e mille anni, tremendo ancora ed orribile quanto famoso. La parola del vecchio, allo sfrenato giovinastro parve non più che un giuoco; contentò il suo capriccio, ed Ilio cadde. — Cadavere gigante, dopo un fiero dibattersi, irrigidito! magnifico pasto alle aquile di Pindo! Ulisse del pari non l’ebb’io prevenuto degli artifizi di Circe, della crudeltà de’ Ciclopi, della sua propria lentezza, della volubilità di sue genti, e che so io? Qual pro ne trasse egli, infino a tanto che dopo infinite traversie gli avvenisse di toccare per una prospera navigazione una terra ospitale? [p. 341 modifica]

Talete. Una tale condotta affanna l’uomo esperimentato; ma l’uom dabbene non si scoraggia per questo, e riede all’attacco. Una sola dramma di riconoscenza lo fa beato; chė sulle bilance pesa essa più assai che non cento libbre d’ingratitudine. Ora, quanto noi imploriamo non è, certo, cosa da poco; il fanciullo che ti sta dinanzi aspirerebbe molto giudiziosamente alla esistenza.

Nereo. Lasciatemi in pace, ora ch’io mi trovo di buon umore più del consueto! oggidì stammi a cuore ben altro, affaccendato a raunar quivi le mie figliuole, le Grazie oceanine, le Doridi. Nè il vostro suolo nė tampoco l’Olimpo vantano una sola venusta creatura di tanta maestà nelle sue movenze quant’è la loro. Con portamento che l’innamora, balzano dal drago marino sovra i corsieri di Nettuno; e mollemente congiunte allo elemento, fiotto le diresti che in ispuma si levi. Nel prisma della screziata conchiglia di Venere, avanzasi Galatea, di presente la più bella fra tutte; essa che, dopo la dipartita di Ciprigna, riceve in Pafo le onoranze divine. Per siffatta guisa questo raro fiore di grazia e gentilezza impera, è già gran tempo, sulla città, ed occupa l’ara, il trono ed il carro.

Indietro! nell’ora del paterno tripudio, mal si addice nutrir l’odio nel petto, sulla lingua il rabuffo. Itene a Proteo! scongiurate il mago finchè vi dica in qual modo si esista, e come far si possa la metamorfosi. (S’allontana dalla parte del mare.)

Talete. Nulla ci ebbe frullato codesto abboccamento. Facciasi di raggiungere Proteo, e ratto ei si dilegua: e se per avventura consente di starti a udire, [p. 342 modifica]finisce col rispondere in guisa così strana, da sbalordirti e confonderti. Non pertanto, dèi attenerti al consiglio; proviamoci, e seguitiamo il cammino. (Escono.)

Le Sirene, dall’alto delle rupi. Che veggiam noi di lontano guizzare pel regno delle onde? Come bianche vele che si avanzano spinte dal vento, mostransi così seducenti in vista le raggianti ninfe del mare. Caliamo al basso; n’udite voi le voci soavi?

Le Nereidi e i Tritoni.4 Ciò che in mano rechiamo, debbe essere in grado a ciascuna di voi. Il guscio gigantesco di Chelone riflette immagini arcigne e fiere: vedete in costoro altrettanti Dei.5 Intuonate cantici alti e sublimi!

Le Sirene. Piccoli di statura, ma grandi per potenza, salvatori de’ naufraghi, numi adorati da tutta l’antichità.6

Le Nereidi e i Tritoni. Portiamo nosco i Cabiri, augurio di una festa pacifica; giacchè ov’essi regnano santamente, Nettuno mostrasi favorevole. [p. 343 modifica]

Le Sirene. Noi vi cediamo il luogo; se avvenga che si spezzi una nave, e voi con irresistibile possa preservate l’equipaggio.

Le Nereidi e i Tritoni. Soli tre ci seguirono,7 il quarto negò di venire, presumendo di essere egli solo il buono, colui che pensa per tutti gli altri.

Le Sirene. E’ può bene un Dio dar la baia ad un altro Dio.8 Si faccia onoranza a quante sono le grazie, e tutto che ne è per nuocere, si tema.

Le Nereidi e i Tritoni. E’ debbon essere ben sette.

Le Sirene. E ove dunque rimasero gli altri tre?

Le Nereidi e i Tritoni. Nol sappiamo noi già; convien dimandarne sull’Olimpo, dove un ottavo pure ne esiste a cui niuno ancor pose mente.9 [p. 344 modifica]N’attendevano essi con assai gentilezza; tuttavia davan segno di non essere ancora tutti all’ordine. Codesti impareggiabili vogliono ire sempre più in là; poveri sciagurati, struggentisi continuo per ismania di riescire inesplicabili.10

Le Sirene. Noi siamo use a pregare da per tutto ove ha trono il Divino, nel Sole così come nella Luna: e’ c’è il tornaconto.11

Le Nereidi e i Tritoni. Quanto splendore è per accrescere alla nostra fama la festa che di presente celebriamo!

Le Sirene. Una cotal gloria manca agli stessi campioni dell’antichità, tutto che vadan essi così boriosi.

S’eglino furono i conquistatori del Vello d’Oro, voi avete fatta conquista de’ Cabiri.

  (A ritornello, come fosse una vecchia canzone.)12
               Se l’aureo Tosone
               Hann’essi predato,
               E noi de’ Cabiri
               Abbiam trionfato.

(Le Nereidi e i Tritoni si allontanano.)

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Homunculus. I mostri deformi io li rassomiglio agli orci vecchi; i sapienti vi battono contro, e ne riportano rotto il duro cocuzzolo.

Talete. Ed è ciò appunto ch’e’ vuolsi: chi dà pregio alla moneta, è la ruggine.

Proteo, non visto. Un’avventura di tal fatta ringalluzza un vecchio barbogio qual io mi sono! Più evvi del mirabile, e più ne fo conto.

Talete. O Proteo, ove se’ tu?

Proteo, con voce da ventriloquo, or lontana or vicina. Qui e qua!

Talete. Io vo’ menarti buono l’antico vezzo, ma, per un amico, non ha luogo lo scherzo! So che tu parli da tal punto ove non sei.

Proteo, con voce remota assai. Addio.

Talete, nell’orecchio ad Homunculus. No’ l’abbiamo a due passi. Manda ora un chiarore molto vivo: egli è curioso come un pesce; e in qualunque parte e’ si rintani, e sotto qualunque forma, la fiamma cel farà qui venire.

Homunculus. Non indugio punto a diffondere vivi sprazzi di luce; con moderazione però, non avesse a scoppiarne la guastada.

Proteo, sotto la forma di una smisurata testuggine. Che è questo che sfavilla con tanta grazia e luccichío?

Talete, nascondendo Homunculus. Oh bella! se tu n’hai voglia, fàtti più in quà, e lo vedrai. Non ti spiaccia darti così picciolo incomodo, e lasciati vedere su due piè in forma d’uomo: e la allora per nostra mercè, o per nostro consenso, potrai vedere quello che ti si cela. [p. 346 modifica]

Proteo, in dignitoso aspetto. Ah! li ricordi tu ancora delle malizie del mondo?

Talete. E tu, non hai ancora perduto il ticchio di mutar forma? (Scopre Homunculus.)

Proteo, maravigliato. Un piccolo nano sfolgorante di luce! Non vid’io mai nulla di simile!

Talete. Ei ti domanda consiglio, mentre si terrebbe a ventura di esistere. Per quel che n’udii, gli è venuto al mondo nel modo più bizzarro, e, come vedi, solo per metà. L’intelligenza non gli fallisce; ciò che al postutto gli manca, è il solido, il palpabile. Finora ebbe dalla guastada un po’ di gravità, e non gli dorrebbe d’assumere un corpo al più tosto.

Proteo. Figliuolo verace di una vergine, prima che tu debba esistere già esisti.

Talete, a voce bassa. Parmi dubbio non poco un altro punto: ho forte sospetto, non sia egli un essere ermafrodito.

Proteo. E ciò renderàgli più spedito il riuscire nell’intento: nasca poi quel che sa nascere, l’affare s’acconcerà. Ma non trattasi qui di deliberare; chè tu dèi avere origine dal vasto mare! Là s’incomincia da piccolo, e pigliando gusto ad inghiottire gli esseri anche più piccoli, crescesi poco alla volta, e s’informa per fini più dignitosi e più alti.

Homunculus. Quivi spira una dolce brezza, quel prato s’infiora, e l’olezzo m’inebbria.

Proteo. Te lo credo, mio vezzoso fanciullo, e colaggiù ti piacerà a mille doppi, su quella stretta lingua di terreno dove la dolcezza dell’atmosfera è ineffabile; là dinanzi a noi mirasi il corteggio che [p. 347 modifica]per appunto guizza assai daccosto. Traete meco, laggiù!

Talete. Io pure vi accompagno.

Homunculus. L’andare degli Spiriti è oltre ogni concetto mirabile!


I TELCHINI DI RODI13


sugli Ippocampi o cavalli marini, tenendo in pugno il tridente di Nettuno.

I Telchini, in coro. Per noi fu costrutto il tridente di Nettuno con cui abbonaccia i fiotti tempestosi. Se il dono del fulmine aggruppa in aria i gonfi e negri novoloni, all’impeto orrendo vien concorde Nettuno; e nell’atto che lassù guizzano i lampi, onda sovr’onda laggiù s’accavalla spumando, e tutto che in quel mezzo s’incontra, in balìa della tempesta, bersagliato a dilungo, vien da ultimo negli abissi travolto e inghiottito. A tal fine appunto ne è oggi dato in mano lo scettro, — e noi voghiamo in quest’ora sovra i flutti con gran treno, lievi e tranquilli.

Le Sirene. Salvete, o voi, sacri ministri d’Hélios, o voi che siete i prediletti del Sole splendiente e sereno; salvete in quest’ora di commozioni, alla festa della Luna assegnata! [p. 348 modifica]

I Telchini. O Dea amabile in fra tutte! dalla superna tua volta tu ascolti tutta giubilante le lodi del fratel tuo, e porgi l’orecchio a Rodi, l’avventurata, donde s’innalza a lui il cantico eterno. Sia che imprenda il suo corso, sia che lo compia, ei sempre ne guarda con occhio scintillante in fiamma viva; e monti e ville e la piaggia e le onde son care al Dio, e graziose e splendide compariscono. Non pur ombra di nube ne sta in sul capo; e se per avventura alcuna sen mostri, vibrasi un raggio, o spira un po’ di aria, e n’è l’isola di tratto purificata! Colà l’immortale in cento fogge contempla la propria immagine, dove garzoncello e dove gigante; maestoso pur sempre ed affabile! E noi fummo i primi che la possanza degli Dei sotto la degna forma dell’uomo rappresentammo.

Proteo. Lasciali pur cantare, lasciali nella loro giattanza insuperbire! al chiarore vitale del Sole divino, le opere morte non son più che baie; costoro modellano, fondono il metallo, e tosto ch’e’ l’ebbero versato nella forma cretacea, stimano d’aver fatto portenti! Che interviene da ultimo a que’ vanitosi? Le immagini degli Dei tenevansi erette in tutta la loro grandezza; — una scossa di terremoto le rovesciò; ed è lunga pezza che s’ebbero a rifondere.

Le fatture della terra, qualunque e’ sieno, son poi sempre miserabili e grame; ben più alta alla vita l’onda si mostra: e però Proteo-Delfino s’appresta a recarti in seno all’onda eterna. (Si trasforma) Ecco fatto! Là i più bei destini ti aspettano; io li prendo sul dorso, e ti marito all’Oceano.

Talete. Assenti al lodevole desiderio di lui, e fàtti a cominciare ne’ suoi principii la creazione! Ti [p. 349 modifica]appresta ad agire con prontezza! Tu vai, giusta gli eterni dettami, a porti in moto in mezzo a mille e mille forme; e prima di arrivare all’uomo ha da correre gran tempo. (Homunculus sale in groppa a Proteo-Delfino.)

Proteo. Vientene a volo con me nell’umida distesa ove ti fia data allo istante da godere la pienezza della vita, ove potrai muovere a tuo talento: ma bada veh! di non porre più in alto la mira; che se mai giunga a farti uomo, la è spacciata per te.

Talete. Ciò è ancor da vedersi; frattanto il diventare uomo rispettabile suo tempo, gli è già qualche cosa.

Proteo a Talete. Sì, un uomo della tua fatta! Eccoti chi resiste al tempo: in vero, fra le smorte legioni degli Spiriti, ti veggio andar confuso da secoli.

Le Sirene, sulla rupe. Qual gruppo di nuvolette s’è disposto a cerchio dintorno alla Luna? Le son colombelle amorose, co’ vanni candidi come la luce. Pafo invia qui a sciami i suoi augelli innamorati; completa è la nostra festa, e la dolce voluttà perfetta e serena!

Nereo, movendosi verso Talete. Un notturno viandante, in veggendo codesto corteggio della Luna, ne lo chiamerebbe una visione aerea; ma noi, Spiriti, ne facciamo tutt’altra stima, e più secondo ragione. Quelle son le colombe destinate ad accompagnare la mia figliuola su pei lucenti sentieri, le colombe dal volo mirabile e inusitato, conosciute fin dalle età più remote.

Talete. Quanto aggrada al nobile vegliardo, dà a me pure nel genio: un nido tiepido e silenzioso, [p. 350 modifica]che ne mantenga in una vita venerabile e sacra.

I Psilli e i Marsi, a cavallo a’ tori, ai vitelli ed agli arieti marini.14 Negli antri cupi e selvaggi di Ciprigna, al sicuro dallo sgomento che sveglia il Dio de’ mari, e dalle scosse di Seismos, careggiati da’ zeffiri eterni, e adesso, come in antico, nella coscienza d’una cheta giocondità, custodiamonoi il carro della Dea, e pel mormorio delle notti, fra il grato agitarsi delle onde, conduciamo, non visti, la più avvenente fanciulla alla generazione novella.

Compagni agili nel corso, non temiamo nė l’Aquila, nè il Leone alato, nè la Croce,15 nè la Luna, nè quanti sono che hanno seggio e trono colassù, e ondeggiano e si muovono nelle loro rivoluzioni, e l’un l’altro sospinge, caccia, ed estermina, e svelgono messi, e crollano e atterrano le città. A dir corto, noi meniamo quivi colei che non ha in grazia e beltà chi la pareggi.

Le Sirene. Dolcemente commosse, con discreta sollecitudine aggirandovi intorno del carro, cerchio su cerchio, o allacciate tenendovi alla fanciulla a mo’ di serpi, accostatevi, o forti Nereidi, femmine vigorose, e piacevolmente selvagge; portate, o tenere Doridi, portate innanzi a Galatea la immagine della madre; [p. 351 modifica]severe in atto, e tali che si creda mirare gli Dei, qual si conviene all’esser vostro immortale, e ad un tempo scorgere le graziose compagne dell’uomo, la cui benevolenza ne attira e seduce.

Le Doridi, in coro, passando avanti a Nereo, assise sopra i delfini. Prestaci, o Luna, la tua luce e le tue ombre! Viva codesto bel fiore di giovinezza! Perocchè noi presentiamo i nostri sposi prediletti al genitore, supplicandolo per essi. (A Nereo.) Vedi, e’ son giovinetti cui togliemmo alla fiamma vorace dello incendio, stesi su’ giunchi e sul muschio, riscaldati da’ raggi solari, e che ora con baci focosi hannoci a dar segno di loro gratitudine. Oh! volgi a questi cari garzoncelli propizio lo sguardo.

Nereo. Gli è un doppio guadagno, da farne assai conto; mostrar compassione, e dilettarsi ad un punto.

Le Doridi. Se mai, o padre, abbiam di te ben meritato, se li compiaci di satisfare a una brama cui dritto è l’accondiscendere, consenti ch’abbiano a viverci in seno immortali, e di sempre nova gioventù in eterno fregiati.

Nereo. Ben vi è dato gioire della bella conquista, e l’uomo travedere nell’adolescente: ma non io valgo a concedere quello che può solo dar Giove. Il maroso che vi agita e culla non vi lascia essere costanti in amore; laonde, se la passione vi ebbe tratte in inganno, deponeteli dolcemente sulla riva.

Le Doridi. Graziosi giovinetti! voi ci siete pur tanto cari; ma, ohimè! che ne tocca dividerci. Era nostro desiderio d’esservi in perpetuo fedeli, ma cel vietano gli Dei.

I Giovinetti. Seguite a rassicurarei così, noi [p. 352 modifica]figliuoli arditi del mare, e mai non saremo stati felici come adesso, nè più bella e cara ventura fia per toccarci da ora in poi.

GALATEA si avanza sur un carro di madreperla.

Nereo. Se’ tu, anima mia!

Galalea. O padre! Oh me avventurata! Fermatevi, o delfini, un guardo qui m’incatena.

Nereo. Già scomparsi! S’allontanano essi nel vortice delle ondate! Che è per loro la viva emozione del cuore? Oh perchè non pigliar seco me pure! Ma una sola occhiata l’inebbria per un intero anno.

Talete. Gloria! gloria! e pur sempre gloria! Qual viva estasi mi ha tutto compreso! come sentomi rapito dal bello, dal vero!... Oh! vien dall’acqua ogni cosa, ed ogni cosa l’acqua mantiene e conserva! Daone, o mare, in prestanza l’eterna tua virtù! Se tu non fossi ad esalare i vapori che in nubi s’addensano, se i vivi ruscelli non facessi scorrere qua e colà, se non alimentassi i fiumi, e non avessero da le vita i torrenti, che sarebbero i monti, le pianure, e tutta infine la terra? Tu, tu solo serbi alla vita quanto è in lei di freschezza e di vigoria.

ECO.

Coro di suoni che si diffondono in cerchi. Scaturisce da te solo la florida e fresca esistenza.

Nereo. Ve’, tornano essi, ma da lungi, cullati dalle onde! ma a’ nostri occhi non è più dato incontrarsi; l’ordine della festa richiede che le innumerevoli schiere intreccino fra loro ampie ghirlande. Pur pure, mi sta continuo dinanzi il trono splendente di [p. 353 modifica]Galatea, che brilla sembiante a una stella fra la moltitudine. Il caro oggetto rifulge di mezzo alla calca, lungi por quanto vuoi, prossimo però sempre e vero e reale.

Homunculus. In quest’umido sereno, ciò ch’io prendo a schiarire mostrasi attraente e leggiadro.

Proteo. In quest’umido vitale, la tua lucerna irraggia con uno splendore magnifico.

Nereo. Qual mistero novello in mezzo alle falangi rivelasi a’ nostri occhi! Che è mai ciò che sfolgora intorno alla conchiglia di madreperla, appiè di Galatea? Or vivo fiammeggia, or tenero, or mite; diresti che v’ha dentro il battito delle arterie dell’amore.

Talete. Homunculus è quello sedotto da Proteo;... Veggonsi in lui tutti i sintomi d’un ardore che tocca il sommo: io ne temo le angosce del doloroso commovimento. Egli è sul punto di spezzarsi contro il trono abbagliante; scintilla.... divampa.... si fonde.

Le Sirene. Qual prodigiosa incandescenza illumina i fiotti che tra loro scintillando si frangono? Brilla quel non so che di luce tremola, incerta, e spande all’intorno un fulgore vivo e sereno. I corpi s’infocano per gli spazi notturni, ed ogni cosa, a tondo, è compresa dalla fiamma. Per siffatta guisa regna Eros, principio di tutti quanti gli esseri.

     Gloria del mare ai ceruli
       Flutti sonanti invoco,
       In fiamma accesi — luccicante e pura!
       Gloria de’ fiumi ai tremuli
       Cristalli! e gloria al foco!
       Gloria a questa mirabile ventura!

Tutti. Gloria alle aurette tiepide, sottili!

       Agli ombrosi recessi ove ridutti

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       Veggonsi a meditar spirti gentili!
       Tale, o elementi, ardete ognor voi tutti!16

Note

  1. Nelle notti degl’incantesimi, interrompe la Luna il suo corso, e ristà fissa per influssi di magia in qualsivoglia punto del cielo si ritrovi.
  2. A greco della Tessaglia e dell’isola di Lenno, sulle coste della Tracia.
  3. I Cabiri, misteriosi dei, o meglio demoni, che appo i Greci svegliano mai sempre l’idea dell’antichità più remota. Ebbero in Menfi un tempio e delle statue visitati solo da’ sacerdoti: e fu sopra queste immagini, che dopo la conquista dell’Egitto compieva Cambise il famoso sacrilegio accennato da Erodoto (Lib. III). Venivano i Cabiri segnatamente festeggiati in Samotracia, dove celebravansi in loro onore orgie e baccanali. Erodoto fa discendere quel culto dai Pelasgi: ma è poi sempre il dogma della forza fecondatrice della terra, e del principio genitore della natura. Una tragedia di Eschilo, di cui pochi versi appena giunsero fino a noi, intitolavasi: I Cabiri. Vengono questi sovente confusi co’ Telchini, coi Cureti e coi Coribanti, e specialmente co’ Dattili del monte Ida. Gli antichi davano ai Cabiri la forma di nani con una smisurata ventraia, stupidi ec. — Kreutzer ce li rappresenta come antiche deità della natura, portate dall’Egitto da’ Fenici. Dice essere sette, numero determinato da’ pianeti, e li fa congiungere ad un ottavo per nome Hepbaistos, che è ad un tempo Marte, Venere e Mercurio. Il fuoco mescesi all’acqua, donde ha origine la fecondità e la vita; quindi l’universale armonia. Schelling, nel suo Trattato degli Dei di Samotracia, s’ingegna di sciogliere a suo modo l’enimma; il culto de’ Cabiri giudica dover essere fenicio, e vi trova delle reliquie della religion primitiva. I Cabiri formano, a suo parere, una scala di enti sopranpaturali che va dal basso in alto, sicchè dallo istinto grossolano, e dall’appetito brutale, e dall’ente mezzano Kadmilos, messo degli Dei, s’innalza persino alla somma sapienza, al Demiurgos ed allo Zeus, o Giove. — Fra i mitologi tedeschi ingolfatisi in queste oscure questioni, è da citare in capo di lista Ch. A. Lobeck di Koenigsberg, cui gioverà consultare per la spiegazione della scena presente. L’opera di Lobeck venne pubblicata nel 1829 in dae enormi volumi, contenenti tre libri. Il primo tratta di Orfeo; de’ Misteri Eleusini il secondo; e l’ultimo di tutta quanta la famiglia enimmatica de’ Cureti, Coribanti, Dattili del monte Ida, Talchini, Cabiri, Cobali, e Chercopi. È probabilissimo che un tal lavoro abbia esercitata una grande influenza sull’animo di Goethe, occupato a que’ dì in questa parte del Fausto. I Cabiri, colleghi e commensali de’ sommi Dei (Strabone, X, 5.) appartengono alla Samotracia; e non derivano nè dall’Egitto, nè dalla Fenicia, come nulla hanno che fare coi Cureti, co’ Dattili o co’ Dioscuri. Divinità di origine pelasgica, sono i Cabiri in numero di quattro: Kabeiros, Kadmilos, Axieros, Axiokerros, e il segreto di tali nomini non istà nel greco, non nell’ebraico, nè tampoco in lingua altra veruna. I loro misteri comprendevano l’agricoltura, la fecondazione della terra, le seminagioni e le mèssi, e venivano celebrati con orgie e baccanali: bastava poi, per esservi iniziato, l’avere pure e nette le mani da spargimento di sangue. Facevansi inoltre delle purificazioni nel tempio dove accorrevano visitatori da tutte parti. Il concorso a codesti misteri, ravvolti nella più densa oscurità, durava ancora al tempo degl’imperatori romani; e Tacito racconta come Germanico fosse disposto a farvisi iniziare. — Impegnati a mostrare la divinità di loro natura, e a smentire le Sirene, ostinate a riguardarli come pesci, i Tritoni e le Nereidi vanno in Samotracia a conquistare i Cabiri.
  4. Frattanto le Nereidi e i Tritoni ritornano dalla Samotracia, portando seco i Cabiri che renderanno loro propizio Nettuno. I Cabiri, come genii protettori della navigazione, sono stretti in amicizia ed in alleanza col Dio delle acque. I Tritoni e le Nereidi varranno per questo ad ottenere una prospera notte da Nettuno, sicchè non venga turbata colle procelle la festa che intendono di fare, visitando il vecchio loro padre, Nereo.
  5. Chelone (κελώνη, testuggine). Il lettore rammenterà la leggenda della Ninfa Chelone, che sola in tutto il creato non fu ammessa alle nozze di Giove e Giunone per aver osato beffarsi della coppia immortale. Capovolta ne’ flutti da Mercurio, e trasformata in testuggine, le fu imposto in pena del fallo di portare in perpetuo silenzio la propria casa in sul dosso. Il guscio di testuggine levigato serviva di specchio agli antichi; ed è per ciò che vi si fa riflettere la fiera immagine de’ Cabiri.
  6. Le Sirene si uniscono alle acclamazioni delle Nereidi, e celebrano (ben inteso, ironicamente) i Cabiri, divinità salvatrici de’ naufraghi.
  7. I tre Cabiri di Kreutzer sono: Axieros, il potente, o Hephaistos; Axiokersos, il principio generatore nell’uomo, ossia Marte; Axiokersa, il principio generatore femminino, ossia Venere; il quarto poi che non volle venire, sembra essere Kadmilos, o Kadmos, il vero capo e senno di tutti gli altri. E forse ancora, sotto queste parole poste da Goethe in bocca alle Nereidi, celasi un’allusione a’ misteri di Samotracia, misteri, come ognun sa, così cupi e tenebrosi da rendere vana e ridicola la pretesa di penetrarli. Lo zelo de’ sacerdoti, trafficanti ingegnosi del santuario, inventava riti mai sempre nuovi. Pochi di bastavano per intralciare il domma sì sattamente da sventare ogni maniera d’iniziazioni. Uscendo dalla Samotracia, terrete per fermo d’avere schiarito il sacro enimma, o di stringere i Cabiri: ma appena giunto in Atene od in Roma, conoscete gli studi vostri essere stati imperfetti: perocchè, dimentichi dell’oggetto primario, vi appagaste de’ soli accessorii; e traendo con voi alcuna superficiale nozione del culto, gli elementi però, il domma, il vero Cabiro, quegli che pensa per tutti gli altri, erasene rimasto nel santuario.
  8. Fra tanti odii e tante rivalità che dividono i numi del paganesimo, l’uomo che si sforza di tutti conciliarli dee necessariamente incorrere della disgrazia di alcuno di essi. Il sarcasmo sta bene in bocca alle scaltrite Sirene.
  9. Senza dubbio, l’ottavo pianeta. Kreutzer pretende che i sette Cabiri corrispondano ai sette pianeti: ciò essendo «l’ottavo a cui niuno ancor pose mente» sarebbe l’ottavo pianeta scoperto da Herschel.
  10. «Est quædam, ut Hermanni verbis utar, etiam nesciendi ars et scientia; nam si turpe est nescire quæ possunt sciri, non minus turpe est scire se putare quæ sciri pequeunt.» Aglaophamus, p. 1110, Vol. II. Goethe ebbe già riprodotto, in un’altra sua opera, codesto pensiero d’Hermann, di cui le Nereidi fanno qui cenno per ironia.
  11. Le Sirene, egoismo della natura, scagliavansi dianzi contro a’ culti di qualsivoglia divinità pe’ fastidi che se n’avevano; ed ora vanno encomiandoli pe’ vantaggi che se ne traggono.
  12. Mentre le Nereidi, portando seco i Cabiri, si allontanano dalla riva dove soggiornano la Sirene, le cantatrici marine intuonano a pieno coro un canto solenne, sperando che gli Dei buzzoni di Samotracia abbiano a grado il loro omaggio.
  13. Arditi fonditori, fratelli cadetti di Vulcano, gioventù scelta da Hélios, i Telchini, in numero di nove, abitavano da prima in Sicione, da dove cacciati per la guerra, trassero a stabilirsi in Rodi. Fondevano essi nel bronzo le statue degli Dei; di qui senza meno il privilegio che loro s’attribuisce di riprodurre sè medesimi sotto varie forme. Vengono detti altresì alcuna volta inventori della navigazione.
  14. I Psilli, gente favolosa di cui scrive Erodoto, quelli stessi che possedevano il segreto di scongiurare i serpenti. — Marsi, altro popolo della favola, ch’ebbe origine da Marso, figliuolo di Circe e di Ulisse. Quelli abitavano in Affrica, questi in Italia sulle rive del lago Fucino (oggidì Celano). Goethe, non pago di convocare alla festa delle acque, alle nuove nozze di Teti, quante sono le divinità dell’antica natura, vi tragge altresì i popoli della favola, e onde la vita e l’interesse dello spettacolo spicchino maggiormente, li raggruppa intorno al carro trionfale di Galatea.
  15. Costellazione, conosciuta pare sotto il nome di Cigno.
  16. Sul più bello della festa marina, Talete pronuncia enfaticamente il principio della scuola ionica: «Tutto viene dall’acqua, e l’acqua tutte cose conserva» e lo ripetono intorno intorno le ondulazioni dell’Eco. L’Oceano dalle cupe e profonde sue grotte risponde all’ippo cui mandano sua gloria voci numero. Homunculus ne tripudia dal fondo della guastada, e un’incognita ardenza accende nel cristallo le vampe più vive: Proteo sel prende allora sul suo dorso di delfino e lo raccosta a Galatea. Là il vetro si spezza, al genietto si fonde, e la sua luce imporporando i flutti con loro si mesce. Homunculus scompare nell’Oceano appiè del trono di Galatea; Fosforo maritasi alle acque sotto l’influsso dell’amore, dell’eterno Eros, principio e termine di tutte cose: il coro celebra l’imeneo degli elementi.

    Gettiamo un rapido sguardo sul grandioso spettacolo cui abbiamo pure ora assistito, ed isforziamoci di chiarirne il senso. Homunculus, Spirito elementare del fuoco, Fosforo, personaggio romantico al sommo, introduce Fausto nella classica antichità; Mefistofele, prossimo parente di questo, servo di quello, li accompagna. Lo Spirito elementare va in cerca di una forma palpabile; vuol esistere; vuol essere: nè valendo l’antichità a forbirgliene il modo, associasi agli elementi cui in origine appartiene, come loro figliuolo. Gli elementi costituiscono la base della fisica antica (Plat. Tim. p. 32.), come pare della mitologia primitiva; il loro contrasto, la formazione del solido fuori del caosse, per mezzo dell’amore e dell’odio, le rivoluzioni del suolo cagionate dai terremoti e dalle inondazioni, la suprema preponderanza del mare sulla generazion, sulla vita: tali sono, poco più poco meno, tutte le significazioni delle antiche divinità della natura, o quelle almeno cui Goethe abbia qui evocate. La contemplazione della natura introdotta da Homunculus, Spirito del fuoco, rinviene sul classico terreno alcuni punti di affinità ne’ misteri de’ Cabiri, nella simbolica delle deità Oceanine, Nereo e Proteo; in ogni fatta leggende che ritraggono del romanticismo a lor modo: è questo riscontro ha per risultato l’avvenimento che si svolge con tanta pompa e con sì mirabile apparecchio nell’ultima scena dell’Atto, l’imeneo, cioè, degli elementi sotto il prestigio della bellezza e dell’amore. Di là i cantici che le potenze dell’Oceano generatore innalzano in laude di Ciprigna e d’Eros; di là il continuo turbamento, e il fastidio che prova Mefistofele, Spirito della negazione e dell’odio. L’unità, l’amore, ecco la mira a cui tende Homunculus in tanta e così varia confusione, e nelle apparizioni senza numero della Notte Classica di Valburga; ed ecco ad un tempo la spiegazione di codesto grande enimma poetico.