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gli orecchi; nè furono pochi que’ che vennero trattati del pari. Era quella, per mia fè, cosa orribile a vedersi.

Elena. Così lo trattò, ed io ne fui la cagione.

La Forcide. E così tratterà te medesima, senza meno. La bellezza è cosa indivisibile. Chi intera l’ebbe posseduta, più che assentire di condividerla, l’annienta maledicendo. (Trombe festive da lungi. Il Coro tripudia.) Come lo squillo delle trombe penetrante ed acuto lacera il timpano e scote le viscere, non altrimenti la gelosia s’aggavigna al cuore dell’uomo, che mai non si scorda ciò ch’ebbe pria posseduto, e ciò che or gli fu tolto.

Il Coro. Non odi tu un echeggiare di trombe? Non vedi tu un luccicar d’arme da lunge?

La Forcide. Sii tu il benvenuto, mio signore e mio re! Eccomi apparecchiata a renderti de’ miei fatti ragione.

Il Coro. Ma noi!

La Forcide. Ben lo sapete, che vi sta in sugli occhi la morte di costei, e nella sua morte presentite non meno la vostra. No! scampo alcuno non evvi per voi. (Pausa.)

Elena. Ho ponderato tra me quanto è da tentarsi. Tu se’ un dèmone, pur troppo lo conosco, e temo forte che il bene in mal non tramuti. Anzi tutto, vo’ seguirti in castello; a qual partito dovrò poscia appigliarmi, io mel so, e so del pari che i segreti cui la regina cova nel petto rimangono impenetrabili a chicchessia! Vecchia, precedi i miei passi!

Il Coro. Oh! come n’è caro l’avviarci, — con