Demetrio Pianelli/Parte prima/I
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I.
Verso mezzodì Cesarino Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell’ufficio il cassiere Martini più pallido del solito, col viso stravolto, con un telegramma in mano.
— Ebbene? — gli domandò, — che notizie mi dà?
— Bisogna che io parta immediatamente. È moribonda! — rispose il Martini, con un groppo alla gola che gli mozzò le parole.
Povero diavolo! L’aveva sposata da poco più di un anno e dopo un anno di tribolazioni, e quasi di agonia continua la poverina moriva consunta a Nervi, dove il medico l’aveva mandata a passare l’inverno.
— Vada, vada, Martini, resto io. Si faccia coraggio, vedrà. La gioventù si aiuta sempre.
— Dovrei avvertire il Commendatore, ma la corsa parte alle dodici e quarantacinque e non ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli, chiudo in questa cassa i valori principali e lascio a lei la chiave di quest’altra cassa. Vuole che gliene faccia la consegna? Saranno dieci o dodici mila lire in tutto.
— Se lei si fida di me, per conto mio non ho bisogno di consegna, — soggiunse il cassiere aggiunto, tutto commosso e premuroso.
— Mi fa una carità. Tenga conto del movimento di cassa e basta.
— Si fidi di me: vada, non perda tempo, — disse premurosamente il Pianelli, confrontando il suo orologio con quello elettrico del cortile.
— Se c’è bisogno, mi telegrafi.
— Si faccia animo; fin che c’è vita, c’è speranza.
— Grazie, — balbettò il Martini.
Strinse la mano al Pianelli, sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò.
— Povero diavolo! — mormorò l’altro, tornando al suo posto. — Se c’è un galantuomo, gli càpitano tutte.
*
Era il giovedì grasso.
Cesarino Pianelli, detto anche lord Cosmetico, cassiere aggiunto alla Posta, si ricordò che per le due e mezzo aveva dato convegno al Pardi, al Caffè Carini, e cercò di sbrigare in fretta le quattro faccende della giornata. Era un giorno di mezza vacanza anche per lui, che per parte sua conosceva magnificamente l’arte di prendersela.
Quel giorno aveva promesso a sua moglie Beatrice di condurla sul balcone del Gran Mercurio a vedere le maschere.
— Ci vediamo stasera? — domandò il Buffoletti, cacciando la testa nel finestrino dei pagamenti.
— Sì, ma non prima delle undici.
— Meni tua moglie?
— Sì.
— Mi ha promesso l’Argo della Ragione che verrà e farà una lunga descrizione della festa sul giornale. Dammi il nome della tua signora.
— Beatrice. Se questo signor Argo ci onora, avrò piacere di presentargliela.
— Guarda che i giornalisti sono pericolosi.
Il Pianelli, che scriveva, fumava e parlava tutto in una volta, mandò in aria un soffio lungo di fumo con una smorfietta della bocca, come se volesse dire: — Bah, soffio in viso ai giornalisti, io.
— Viene anche il commendatore?
— Sono stato a invitarlo; è raffreddato, ma cercherà di non mancare.
— A rivederci.
— Addio, bambino.
Il circolo Monsù Travet era stato promosso e messo in piedi da questo Cesarino Pianelli nei primi giorni di carnevale, per offrire agli impiegati di diverse amministrazioni e alle loro egregie famiglie il mezzo di divertirsi e di far quattro salti in economia.
La proposta ed il piccolo programma avevano trovato appoggio non solo tra gli impiegati della Posta — eccettuati naturalmente i pezzi più grossi — ma anche tra molti impiegati del Municipio e di Banche private, che avevano versato in mano al Pianelli le venti lire di primo ingresso e via via le cinque lire mensili per tutti i mesi dell’inverno.
Era un modesto principio: ma si sperava che il Circolo non dovesse morire così, e potesse col tempo trasformarsi in un club di riunioni serali, o in un casino di lettura, o in un sodalizio di mutuo soccorso, in una cooperativa, o in qualche diavolo di questo genere.
Non erano le grandi idee che mancavano a Cesarino Pianelli, che se avesse avuto centomila lire alla mano....
Ma il primo suo torto era di non averle. Se però gli mancavano i denari gli stava a pennello il titolo che gli avevano regalato di lord Cosmetico, appunto per le sue arie di grandezza e di sufficienza, per la eleganza del suo modo di vestire, per i colletti in piedi, colle cravatte costose haute nouveauté, per i polsini che parevano di porcellana, e più ancora per la lucentezza della chioma, tirata a furia di cosmetico in due pezze profumate sopra le tempie e aperta in due ventagli meravigliosi dietro le orecchie.
Non più giovanissimo, anzi, se si deve dire, più vicino ai quaranta che ai trentacinque, sapeva ancora colla carnagione bianca e fine e colla sua aristocratica magrezza resistere agli urti del tempo e aspirare al titolo di eterno bel giovine. La barba nera e crespa, morbida, divisa in due piccole punte sul mento, finiva col dargli quel carattere contegnoso e diplomatico che in questi tempi di americanismo insorgente non si trova più che nei grandi camerieri del Cova, ultimi custodi delle tradizioni dei Palmerston, degli Ubner, dei Visconti-Venosta.
Era un magro giovedì grasso. Piovigginava. Tuttavia le strade formicolavano lo stesso della solita gente che ha sempre voglia di veder qualche cosa anche quando non c’è niente a vedere e che, in mancanza di meglio, si contenta di vedere sè stessa. Qualche balcone addobbato, qualche strillo di mascherotto, qualche carrozza coi campanelli, davano di tempo in tempo delle illusioni di giovedì grasso, ma intanto piovigginava malinconicamente.
Il Pianelli trovò il Pardi, com’erano d’accordo, seduto davanti a un tavolino del Caffè Carini, sotto i portici meridionali.
Melchisedecco Pardi, fabbricatore di nastri di seta con ditta al ponte dei Fabbri, uomo già sulla cinquantina, grasso d’una grassezza floscia e linfatica, buono d’animo, non ingenuo negli affari, che soffiava forte dalle canne del naso nel grosso bavero del suo paltò color nocciuola, era detto anche Pardone per la sua leale bonarietà e per la sua pancia.
Oltre il merito di saper fare molto bene il suo mestiere, aveva quello d’essere il marito della bella Pardina, una vespa tutt’ossi e spirito, con occhi tremendi, che da ragazza lavorava in fabbrica per dieci soldi al giorno, che aveva saputo farsi sposare dal padrone e che, a credere alle ciarle, fabbricava ancora molto bene i suoi nastri a parte.
Palmira Pardi e Beatrice Pianelli s’erano trovate a passare una vacanza insieme a Tremezzo sul lago di Como, all’albergo Bazzoni, dove più d’una volta capitarono i rispettivi mariti colla solita corsa del sabato.
In campagna le amicizie sono presto fatte tra gente simpatica. Chi non avrebbe voluto bene a quel buon uomo grasso, così fino conoscitore del vino di Piemonte? Sempre d’un umore, piene le tasche di biglietti di banca, avrebbe sempre voluto pagar lui, tanto da obbligare lord Cosmetico, per non restare mortificato, a far portare il marsala o il bordò o a improvvisare un trattamento di dolci alle signore sulla terrazza.
— È un pezzo che mi aspetti?
— Un momento. Ho ricevuto stamattina il tuo biglietto.
— Dunque? me le puoi dare queste duemila lire?
— Signore Iddio! — rispose il Pardi, grattandosi l’orlo d'una orecchia. — Come puoi avere bisogno di duemila lire?
— M’è capitata una disgrazia in un pagamento.
La voce del Pianelli si affievolì un poco. Si vedeva l’uomo non abituato a dire bugie.
— Di’ che hai giuocato, invece, e che hai perduto e amen!
— Chi ti ha detto che ho perduto?
— Palmira.
L’occhio di Cesarino s’incantò un momento nell’aria.
— E mi ha detto che hai giuocato col tenore....
— Bene, sì, ho giuocato e ho perduto. È una disgrazia anche questa che càpita a chicchessia.
— Se tu mi avessi detto che in questo vostro Circolo si giuoca, non avrei dato le mie venti lire di buon ingresso.
— Non è che si giuochi, anzi è proibito; ma quando passa una cert’ora, se c’è chi tenta, non si è obbligati a essere sant’Antonio.
— Io non so che gusto da bestia ci trovate in queste maledette carte.
— Ognuno ha i suoi gusti, Secco. Tu, per esempio, preferisci andare a dormire all’ora delle galline e c’è chi ama provare delle emozioni.
— Tua moglie lo sa?
— Che c’entrano le donne? — disse lord Cosmetico affettando un sublime disprezzo per le donne.
Il Pardi, che pareva un uomo sulle spine, dopo aver cercato il cameriere cogli occhi, comandò una birra.
Cesarino volle un assenzio.
— Ebbene, che cosa mi rispondi? — chiese dopo un lungo e penoso silenzio il Pianelli, mentre lasciava cadere a goccia a goccia l’acqua chiara nel suo bicchiere d’assenzio verdognolo.
Il Pardi tentennò il testone, gonfiò le ganasce e, col tremito di una ragazza che resiste a care tenerezze, rispose:
— Mi rincresce ve’, ma questa volta non posso proprio davvero.
Cesarino, che non si aspettava un rifiuto, indovinò subito da chi il buon ambrosiano aveva ricevuta l’imbeccata. Con uno di quei risolini sardonici con cui lord Cosmetico soleva soffiare la sua grande superiorità di spirito, domandò:
— Te l’ha detto anche questo tua moglie?
— Uf! — fece il buon Pardone, voltandosi per due terzi sui gomiti a guardare nella piazza dove la folla andava agglomerandosi e crescendo. Il Pianelli era stato buon indovino. Palmira aveva proibito assolutamente di dare più un soldo a questa gente bislacca e bisognava ubbidire.
— Senti, ti faccio anche una cambiale, se vuoi.
— Che cambiale! Non posso, perchè non ne ho.
— Sai, son debiti d’onore!
— Che onore d’Egitto! l’onore è quando si lavora e si paga il lavoro degli altri.
— C’è onore e onore, Pardi, e spiace sempre di fare una cattiva figura.
Cesarino pregò ancora una volta cogli occhi piccini e addolorati in cui si agitava una grande paura. Ma il Pardi si voltò a guardare le maschere.
Un piccolo raggio di sole, allargandosi attraverso all’aria bagnata, entrò in una luce biancastra e diluita a rallegrare un poco il Caffè, mentre nell’altro lato della piazza, al comparire della prima mascherata colla banda, si rianimava un po’ di rumore.
Seguì un altro bell’istante di silenzio, duro e arcigno da una parte, tedioso e incomodo dall’altra, durante il quale il Pianelli pensò se doveva inghiottire l’orgoglio e commuovere l’amico col racconto di tutta la verità.
E la verità era questa:
Le duemila lire perdute al giuoco col celebre tenore Altamura non erano che il fondo di cassa raccolto per le feste del Circolo. Per una boria di lord Cosmetico il Pianelli aveva pagato in pronti contanti il suo debito d’onore, ma, non avendone di suoi, s’era servito del denaro degli amici. Ora cominciavano i guai, i sospetti, le diffidenze e aveva ragione di dire: — Spiace sempre di fare una cattiva figura....
Ora si trattava non più d’un debito di giuoco, ma di stima, di fiducia, di delicatezza, e a Cesarino bruciava più che se avesse ricevuta una coltellata nella carne.
— Ti pago gl’interessi — provò a soggiungere.
— Non ne ho e quando non ne ho è come spremere l’acqua da un sasso — rispose con una certa furia di uomo seccato il buon Melchisedecco Pardi, detto anche Secco o Pardone.
— Scusa.... — si affrettò a dire coi denti stretti lord Cosmetico, che credeva d’aver pregato fin troppo. — Ti chiedo un prestito, non ti chiedo mica l’elemosina, per tua regola.
— Non....
— Scusa, ho creduto di rivolgermi a un amico prima che a un usuraio.
— Ma se....
— Scusa, ti dico. Tu hai ricevuto gli ordini e fai bene a eseguirli. — E qui lord Cosmetico tracciò in mezzo al suo discorso funebre un risolino ancora più sardonico e tagliente del primo. Poi soggiunse, alzandosi: — Scusa il disturbo e procura di dormire i tuoi sonni tranquilli.
Pardone lo guardò con un occhio piccolo e cruccioso. Che cosa voleva dire il signore?
Coll’aria alta e principesca che sapeva assumere nei grandi momenti, lord Cosmetico gettò i sei soldi dell’assenzio sul vassoio e uscì dritto dritto in un pezzo come se avesse ingoiata una canna di fucile.
Stette un momento sulla soglia a contemplare l’unghia lunga del dito mignolo, che era il suo modo di riflettere nei momenti più gravi e pensò di passare di là, al Caffè Campari, in cerca di un certo Guerrini, detto anche il Bòtola, che prestava volentieri al trenta per cento. Ma la piazza era così piena di gente in quel momento....
Pardone, appoggiato colle gomita grasse al tavolino e alla sedia, seguitò a guardare le maschere cogli occhi gonfi e imbambolati.
Una grande commozione saliva e scendeva dentro di lui, facendo quasi le onde nella carne floscia del suo corpo di buon ambrosiano.
Egli aveva obbedito a Palmira, col dar nulla, e Palmira non ragionava male. Casa Pardi non era il pozzo di san Patrizio. Nè questa era la prima volta che Cesarino parlava di prestiti e di cambiali.
Prima trecento lire, poi cinquecento, poi ottocento, adesso duemila.... eh! eh! ce ne vogliono dei nastri per far tanti denari....
Se il signor Pianelli voleva fare il lord e mandare in lusso la moglie, non era bello niente affatto che i conti li facesse pagare agli amici. Son giusto i tempi di mungere un povero industriale, coi prezzi che si fanno della seta!...
— Cambiali! — tornava a pensare il povero Pardone, tutto arruffato ancora della violenza fatta al suo buon cuore. — Quando non si ha che lo stipendio di un travetto, una moglie bella, giovine, ambiziosa e tre figliuoli da mantenere, le cambiali si possono dare alla lavandaia insieme alla.... alla.... dei marmocchi.
Pardone, gonfio ancora come un boa, ripetè tre o quattro volte questo monologo, guardando senza veder nulla le maschere e la gente che si agitavano verso l’arco della Galleria Vittorio Emanuele.
Finalmente ordinò al piccolo un’altra birra.
— Che cosa aveva voluto dire il signore colla frase: cerca di dormire i tuoi sonni tranquilli? Voleva alludere a Palmira e al tenore?
Egli era buono come un angelo, buono due volte, ma non tre volte; e il signor Cesarino aveva torto di vendicarsi di un rifiuto col lanciare là delle frasi in aria senza senso. Stupidello!
Si voltò ancora una volta verso i portici nella speranza di vedere ancora il Pianelli. Aveva bisogno di farsi spiegare quella frase. Era stato una bestia a non chiedere subito una spiegazione....
Girò gli occhi in su e in giù, ma il Pianelli se ne era già andato. Pardone avrebbe dato ora non due, ma quattro mila lire e una tazza di sangue per avere la chiave di quelle maledette parole.
Sentendosi morir di sete, tracannò d’un fiato il suo shop di Vienna, e si nettò i baffi bagnati di spuma col dosso della mano bianca e grassoccia.
*
Il Pianelli, col suo risolino sarcastico raffreddato sulle labbra, risalì i portici meridionali fino all’altro capo dove era la sede del Circolo, in alcune sale di angolo tra la piazza del Duomo e la via Carlo Alberto.
— Imbecille! — diceva mentalmente, pensando al povero Pardi. — Invece di obbedire alla moglie, dovresti proibirle di cantare dei duetti troppo teneri col tenore.
Trovò le sale del Circolo aperte e ancora in quel disordine affaccendato che precede una festa. C’erano in mezzo agli operai il Miglioretti e Adone Bianchi, che in maniche di camicia aiutavano i tappezzieri a collocare alcune grosse ghirlande di edera e di fiori di carta intorno alle pareti del salone da ballo.
Il Bianchi, che allora faceva le parti di brillante nelle farse del Filodrammatico, quando vide il Pianelli, gli andò incontro, lo tirò in disparte e gli disse colle sue solite declamate freddure:
— Odi, fellone. C’è stato il maestro Cappelletti a dire che, se non gli paghi gli arretrati, egli non canta nei cori, cioè emigra col piano e coll’orchestrina a Porta Genova. Aspetta la risposta fino alle cinque: dopo si ritiene sciolto da ogni obbligo con noi. Questa è bella, Palamede! che si dovesse ballare senza sonatori? Vola, metti le ali ai piedi e il cimiero in testa e ferma il fellone, o si va tutti quanti sull’Uomo di Pietra. Questa è una. C’è stato poi anche il padrone del Caffè Carini a dire che ha sete.
— Cioè? — chiese il Pianelli, che ascoltava col viso duro, rosicchiando lentamente la sua bellissima unghia lunga.
— Ha contato cento storie. Vorrebbe almeno qualche acconto per il servizio dei mesi scorsi. Pare insomma che stasera voglia far sciopero anche lui. Io gli ho detto che non sono cassiere, nè figlio di cassiere, ma che ti avrei parlato. Pazienza i suonatori! ma se mancano anche i sorbetti, numi del cielo, che fia di noi?
Le declamazioni del Bianchi non riuscirono a far ridere il Pianelli, che disse con un accento freddo e monotono:
— Vorrei sapere chi è quell’imbecille che si diverte a organizzare queste stupide commedie. Si son dati la parola d’ordine....
Il Pianelli, in apparenza tranquillo, faceva ogni sforzo per soffocare lo spavento che tutte queste notizie suscitavano nel suo cuore. Di conti e conterelli e proteste ne aveva ricevuti anche durante la giornata e si vedeva una mano che si divertiva a seminare il sospetto e lo scredito.
Si sapeva ch’egli aveva giuocato e perduto: si sapeva forse che egli aveva pagato coi denari del fondo sociale, e forse gli stessi soci mandavano avanti i creditori per metterlo con le spalle al muro.
Se non pagava prima di sera il Cappelletti, il Carini e gli altri; se la festa per colpa sua non aveva luogo, egli avrebbe dovuto confessare agli amici e ai nemici che non c’erano più denari. Era una brutta figura che non voleva fare, Dio santo!
Qualunque altro anche meno superbo di lui avrebbe inorridito all’idea di dover confessare ai propri colleghi un così indelicato abuso di fiducia. Ecco perchè aveva pregato e supplicato tanto il Pardi... ma aveva fatto i conti senza... le donne. Credeva d’indovinare da chi partiva la mossa. Oh, le donne!
Beatrice aveva il torto d’essere stata la più bella e la più elegante in tutte le feste di quel carnevale e non si offende senza pericolo una donna magra e galante collo spettacolo della propria felicità. La Pardi, oltre a essere per sua natura invidiosa e vespa, abituata a vincere e a trionfare, avendo trovato forse della freddezza e del sarcasmo nel bel Cesarino, faceva vedere che le magre non perdonano. Così almeno egli andava argomentando: ma tutte queste considerazioni finirono coll’irritare un carattere già per sè stesso sanguigno e sospettoso, inclinato già naturalmente ad esagerare il valore e la portata delle cose. Gli pareva di scorgere una vasta e misteriosa congiura di tutta Milano contro lui, contro sua moglie, contro i suoi figliuoli....
Non potendo più stare alle mosse, discese a volo le scale del Circolo, ritraversò i portici nel momento che ferveva il corso mascherato, e invece di piegare verso il Carrobio, cioè verso casa, dove lo aspettava Beatrice, svoltò nel piazzale deserto del Palazzo di Corte e per il passaggio dei Rastrelli arrivò in cinque minuti alla Posta.
Ve lo aveva portato, più che un pensiero, l’istinto, ossia quella forza di gravitazione che tira un corpo che cade verso il luogo del suo equilibrio.
Anche qui il portiere gli consegnò una busta gialla. Era un conto della Società del gas con una noterella del direttore, che minacciava le tenebre, se non si dava corso alle vecchie quietanze.
Cesarino sentì proprio venire addosso il buio come un uomo che sprofonda nell’acqua. Era la congiura. Era la parola d’ordine. Era qualcuno che si divertiva bestialmente a tormentarlo per il gusto di vederlo soffrire.
Se avesse avuto tempo di scrivere a suo suocero.... Ma il buon uomo stava fino a Melegnano e i denari occorrevano subito. Poichè c’erano dei maligni interessati a comprometterlo, a questi egli voleva rispondere col denaro in mano. Sonavano le quattro, quando entrò nel locale della Cassa. Non c’era nessuno, gli sportelli erano chiusi. Il portiere aveva chiuso anche le gelosie della stanza che stava immersa in una mezza luce grigia, dentro la quale dominavano, nella loro massiccia riquadratura, le due casse di ferro, d’un colore verdastro lucido, a grosse borchie ribadite sulla lamiera. Quelle due casse erano piene di denari.
Il Pianelli, che nella sua paurosa disperazione sentiva quasi attraverso alla grossezza del metallo la presenza del demonio che lo tentava, cominciò a soffrire d’inquietudine, mosse qualche passo per la stanza, si asciugò la fronte madida di sudore, andò a vedere se il portiere era ancora di là, nella corsìa, oltre l’assito: non vide nessuno, accostò l’uscio, girò lentamente la chiave, e si trovò solo in compagnia di quei due mostri di ferro, che lo chiamavano colla voce potente del loro ventre.
Non voleva commettere, come si dice, una porcheria.
Più d’una volta aveva assistito allo spettacolo miserevole delle altrui prevaricazioni, e troppo bene conosceva le conseguenze d’una cattiva azione per giocare alla cieca una carta così pericolosa.
Il Martini s’era fidato di lui, come un uomo si può fidare d'un fratello, e per quanto l’occasione lo tentasse, per quanto la responsabilità ufficiale non fosse sua, per quanto un’irregolarità si potesse sempre giustificare colla scusa che non v’era stata regolare consegna, per quanto insomma un uomo che affoga non abbia rimorso di attaccarsi a un altro uomo, anche per affogare con lui, con tutto ciò egli sentiva troppo altamente di sè per scendere fino al punto di coprire un abuso con una malvagia azione.
La sua idea non era di tradire un povero diavolo, nè di toccare i conti di cassa: ma solamente di approfittare dell’assenza del Martini per provvedere provvisoriamente a una dura necessità. Con un migliaio di lire alla mano egli poteva far tacere sul momento i più feroci creditori, smorzare i sospetti, rifare per un giorno il suo credito in faccia agli amici, dare degli acconti al Carini, al Cappelletti, alla Società del gas, sventare, scombuiare la trama invisibile di tanti invidiosi, che odiavano in lui l’uomo di spirito, l’uomo sarcastico, il talento superiore e perfino il marito d’una delle più belle donne di Milano. Colla fantasia suscettibile degli orgogliosi egli credeva veramente a una segreta persecuzione di tutti quanti contro di lui, e poichè non c’era per il momento altro rimedio....
*
Appoggiò la fronte ardente alla parete d’una delle casse, e stette un momento a godere il senso di freschezza che usciva dal metallo e a respirare l’acre odore della vernice. Poi, come se due mani non sue oprassero per lui, aprì uno sportello e riempì il vano colla persona. Allineate in doppia fila erano le ciotolette di ferro con dentro i biglietti di vario colore: alcune erano piene d’oro, altre piene d’argento. Qui lo assalì un forte sentimento d’onestà, e ricuperando la padronanza di sè, crollò il capo come se dicesse: — Che diavolo! Non sei qui per rubare. — Prese il portafogli, levò un biglietto di visita, col suo nome stampato, vi scrisse colla matita: — Prelevate lire mille — , mise il biglietto in una ciotola al posto di due altri biglietti di cinquecento, che collocò nel portafogli. Chiuse senza furia, colla regolare precisione delle altre volte, fece un’altra giravolta per la stanza, per sgranchire le gambe, e canterellando un’arietta, uscì dalla corsia, chiamando apposta: — Gerolamo....
Il portiere si fece chiamare due volte, finalmente comparve dalla parte della scala con un inaffiatoio in mano. Pianelli si fermò a dargli qualche ordine, in tono alquanto ruvido; ma poi si rabbonì d’un tratto e soggiunse:
— Non devo pagarti dei sigari?
— Sì, i cinque virginia di stamattina.
Il Pianelli mise una lira nella mano del portiere e se ne andò senza aspettare il resto. Superbo sì, ma generoso! Uscì che già cominciava ad imbrunire. La giornata era tornata bigia e noiosa. Molta gente veniva dal centro con aria poco contenta, e qua e là luccicava qualche ombrello aperto sotto la luce che mandavano fuori le vetrine illuminate. Il signor Pianelli saltò in una vettura e in men di mezz’ora pagò il Carini, il Cappelletti, la Società del gas, mostrandosi nè corrucciato, nè allegro, ma colla naturalezza dell’uomo che sa fare una giusta economia del suo tempo. Gli avanzarono ancora trecento lire, colle quali avrebbe potuto offrire qualche altra soddisfazione agli increduli; ma pensò di farsi vedere anche al Circolo, dove gli operai finivano di dare l’ultima mano ai preparativi.
*
Mentre Cesarino correva col cuore in bocca a questo modo per la città, sua moglie Beatrice, a casa, non finiva mai di specchiarsi nel suo bel vestito lucido di surah color perla e s’immerse tanto nei preparativi della sua toeletta che dimenticò il corso, le maschere, e perfino l’ora del pranzo.
Madame Josephine aveva preparato questo gran vestito per una contessa Castiglioni: ma aveva dovuto ripigliarlo per un improvviso lutto di famiglia. Stava per mandarlo a Roma a un’attrice che doveva recitare al Valle nella stagione di quaresima, quandò capitò a Beatrice di vederlo nelle mani della Elisa, la giovine maggiore della sarta, e se ne innamorò. Non era un capo alla portata della sua borsa, ma affascinata, commossa, ne parlò a Cesarino con tanta eloquenza che costui, con un pensiero dei suoi, meditò e combinò segretamente una bella improvvisata; cioè si fece cedere per le due sere del giovedì e del sabato grasso il vestito mediante un compenso serale e, senza dir nulla prima, lo fece trovare bell’e disteso sul letto di sua moglie.
Quando Beatrice si trovò davanti quello splendore, gettò un gran grido di gioia, buttò le braccia al collo del suo Cesarino, e fu a un pelo di perdere i sensi per la contentezza. Quasi piangeva anche lui, il grand’uomo, per la consolazione. La Elisa con quattro tagli adattò il giro della vita e orlò il corpo e la sottana d’un pizzo dorè, d’un bellissimo effetto provinciale, come allora usavano.
Beatrice non avrebbe mai voluto uscire di camera per il piacere che provava nel mettersi e nel togliersi quel vestito. Per quanto fu lungo il giovedì in casa Pianelli si mangiò poco e con disordine. Per levarseli dai piedi, i ragazzi furono mandati dai signori Grissini, i vicini di casa. Tutto il dì fu un andare e venire di gente e di roba. In cucina non si accese il fuoco; Beatrice si contentò d’inghiottire in fretta qualche uovo sbattuto nel vino con qualche biscotto bagnato dentro, e di rosicchiare in piedi dei pezzi di cioccolata col pane. Cesarino, tutto occupato nei preparativi della festa nelle sale del Circolo pranzò al Caffè.
Tornò verso le nove di sera per vestirsi. Non trovando più posto nella stanza da letto, tutta seminata e ingombra di pizzi, di fiori, di blonde, di guanti, di stivaletti e di scatole aperte sul letto, sulle sedie, sul pavimento, il signor Pianelli dovette prendere le sue robe e far toeletta in uno stanzino a cui dava il nome di studio.
Intanto cercava di calmare i nervi scossi dalle emozioni della giornata e di farsi una persuasione ch’egli nè aveva rubato, nè era sua intenzione di rubare. Scongiurata una brutta tempesta, egli avrebbe domani o dopo riparato al disordine e stoppata la bocca a tutti i malevoli che avevano creduto di rovinarlo. Il suo caro suocero di Melegnano lo avrebbe aiutato in quest’opera di riparazione, o egli l’avrebbe fatto saltare, come si dice, finchè non avesse pagato il resto della dote di Beatrice.
Cesarino stava accarezzando un magnifico nodo di cravatta, che gli era uscito fresco dalle mani come se fosse modellato da un artista, quando Beatrice, preceduta dal fruscìo strisciante dello strascico, accompagnata dall’Elisa, entrò, splendida come una principessa, nel bellissimo vestito nuovo che le fasciava la vita, la radice delle braccia solide e il petto ampio colla morbida e tesa precisione di un guanto. Le spalle nude d’un candore molle di latte spiccavano sulla lasagnetta di pizzo dorè che orlava le sinuosità e le ondulazioni profonde del suo busto di surah aperto fin dove la decenza si accorda colla bellezza (un punto metafisico in cui le donne non sono tutte d’accordo). Al collo non aveva che un semplice vezzo di perle, vecchio tesoro di casa, che morivano nel loro pallore nella candida morbidezza della carne; le braccia eran nude dalle spalle al gomito, dove arrivavano gli altissimi guanti di Svezia su cui brillavano i braccialetti.... Ma la gran bellezza della donna erano i capelli, quei molti capelli folti d’un biondo carico, che s’intrecciavano in nodi contorti a guisa d’un turbante sul candore di porcellana della carnagione, per cui Beatrice Pianelli aveva veramente una grande rassomiglianza colle belle bambole grandi che vengono dalla Germania, come se ne vedono nelle vetrine del Pino e del Caprotti, belle e lucide di fuori, vuote o piene di stoppa di dentro. Questa somiglianza aveva fatto trovare per lei il soprannome di bella pigotta con cui solevano colla chiara ed espressiva concisione morale del dialetto lombardo indicarla i buoni amici e le meno buone amiche di lord Cosmetico.
Cesarino, che in materia di buon gusto era un giudice incontentabile, fece girare due volte Beatrice sopra sè stessa, aggiustò qua, carezzò là, mosse una freccia nei capelli, stese le mani alla vita che non gli pareva ancora troppo bene attillata.
— Caro te, stento quasi a respirare, — disse Beatrice tirando un gran fiato.
Arabella, la figliuoletta di quella gente felice, girando col lume in mano si specchiava nella sua bella mamma. Da bambina giudiziosa promise di stare in casa colla Cherubina a curare i suoi fratellini e per contentarli avrebbe fatto lo zabaglione. Naldo, un marmottino di quattro anni, era già tutto felice nella speranza di poter leccare il frullo.
*
Bellissima riuscì la festa del giovedì grasso al Circolo Monsù Travet per concorso, per calore e per allegria. Beatrice Pianelli, che l’Argo della Ragione paragonò a una Giunone di diciott’anni uscente da una nuvola, gustò il suo quarto d’ora di gloria.
Le signore, la Pardi per la prima, riconobbero nel taglio e nella guarnizione del vestito una mano straordinaria, si guardarono negli occhi con quella fredda meraviglia che è più vicina alla compassione che all’invidia. Ciò non impedì che si facessero passare di mano in mano la bella pigotta colle più tenere esclamazioni di ammirazione e di benevolenza.
Cesarino si dimenticava mentre seguiva cogli occhi estasiati il trionfo di Beatrice: e volendo sputar miele per il fiele che aveva inghiottito, cercò di mostrarsi affabile, gentile, arrendevole con tutti, specialmente con coloro dell’amicizia dei quali egli dubitava di più.
Pardone non si lasciò vedere. O s’era già seccato abbastanza di quel Circolo o non voleva incontrarsi con Cesarino Pianelli. Ma anche senza di lui la festa non fu meno chiassosa e brillante. Il vino di Barolo e qualche bottiglia di Sciampagna aiutarono a far dimenticare i pensieri cattivi che ciascuno non aveva potuto lasciar fuori dell’uscio: ma Cesarino se li trovò sul cuscino del letto al suo primo svegliarsi il giorno dopo. Si ricordò del Martini, del suocero, dei denari che non aveva più e saltò dal letto coll’intenzione di correre subito a Melegnano: ma riflettè che per l’assenza del cassiere egli non avrebbe potuto per quel giorno allontanarsi dall’ufficio. Non volendo perdere un tempo che andava facendosi sempre più prezioso, col capo ancor pieno di sonno, uscì di casa e mandò al signor Isidoro Chiesa di Melegnano questo telegramma:
«Mi occorrono subito mille lire. Portale tu. Grave disgrazia.
Beatrice».
Poi si recò all’ufficio e vi stette fin verso le dieci. Ma parendogli d’essere sulle spine, pregò il Miglioretti di prendere un momento il suo posto, corse a casa a vedere se il suocero era arrivato o se aveva mandato un telegramma. Non trovò nulla. Restò a casa a mangiare un boccone, mentre Beatrice cominciava a sciogliersi dal suo sonno profondo di donna stanca. Poi tornò di nuovo alla Posta verso mezzodì.
Non era ancora in fondo della via del Pesce, quando vide sul portone della Posta il Martini. Vederlo e trasalire fu una cosa sola. I polsi del capo picchiarono così forte, che vollero rompere il cranio.
Ebbe appena il tempo di ricomporsi, e di prendere un’aria di premurosa compassione.
— Come mai? Non è partito? — mormorò.
Il Martini stese la mano all’amico, diede una languida stretta, voltò via la faccia e si portò due volte il fazzoletto agli occhi, mormorando, o per dir giusto, movendo le labbra a una parola senza suono, che voleva dire: È morta!
— È morta? — domandò con vivo rincrescimento il Pianelli, abbassando la testa.
— Stamattina alle quattro.... — balbettò colle labbra tremanti il Martini. — Son tornato per chiedere al Commendatore tre giorni di licenza e aspettavo anche lei per regolare la consegna. Voglio portarla a Milano....
L’emozione soffocò le parole in gola al pover’uomo, che faceva di tutto per non farsi vedere a piangere dalla gente.
Il Pianelli sentì alla sua volta farsi il cuore piccino. In quel momento avrebbe dato mezzo il suo sangue per evitare una consegna, da cui doveva risultare un ammanco di mille lire. Gli faceva orrore non meno il suo pericolo che l’idea di dare a un povero diavolo già così tribolato un colpo di quella sorta.
— La trovo in ufficio verso le tre?
— Sì, ci sono... — rispose il Pianelli. — Ecco il commendatore.
Vedendo venire il direttore, il Martini gli andò incontro, mentre il Pianelli, correndo via, cercò di sfuggire a quel penoso dialogo. Entrò in ufficio con passo confuso e legato. Gettò il cappello su una sedia, il bastone sul tavolo, e si fregò la fronte colle mani, tre o quattro volte, come se togliesse delle ragnatele dagli occhi.
Era mezzodì. Il Martini sarebbe venuto alle tre. In tre ore egli non poteva inventarle le mille lire, a meno di credere che il suocero si lasciasse commuovere all’ultimo momento: a meno di credere che Gesù gliele mandasse per compassione de’ suoi figli. Per Dio! (queste imprecazioni scattavano come tante scintille dall’anima sua spaventata). Per Dio! se gli avessero lasciato ventiquattro ore di tempo! Pensò di tornare ancora in cerca del Pardi; ma dove trovarlo? e poi no da quell’asino che si lasciava guidare dalla moglie.... Degli altri suoi amici o non si fidava, o non voleva inchinarsi a nessuno, o erano povera gente, che stentavano a sbarcare essi stessi il lunario col misero stipendio.
Nella cassa in cui egli cominciò a rovistare, c’erano molti conti correnti e molti mandati di pagamento già firmati dal Martini col visto del commendatore, tra i quali uno a favore del capomastro Inganni, in conto di alcune riparazioni per ingrandimento e adattamento dei locali d’ufficio, per la somma complessiva di duemila lire precisa.
La formola del mandato era stata scritta dal Pianelli alcuni giorni prima colla cifra in tutte lettere «due mila» e nel margine i quattro numeri «2000» d’una linea magra e lunga com’era la scritturina nervosa del cassiere aggiunto. Non si trattava di voler falsificare un documento, nè di rubare un quattrino a nessuno; ma solamente di evitare a sè una miserabile figura, e al Martini un colpo mortale, di guadagnare tempo, di non precipitare in due in un abisso senza luce e senza fondo. Eravamo al quindici del mese. Prima della fine non si sarebbe fatta la verifica dei mandati e lo scandaglio di cassa. Bastava per il momento che il Martini credesse in buona fede a un mandato di lire tremila già pagato al capomastro Inganni e partisse coll’animo quieto, lasciando a lui Pianelli il tempo necessario per rimettere il denaro e per rifare il mandato... Con una goccia di acqua clorata sulla punta d’una penna nuova si potevano sostituire facilmente due piccolissimi tratti e cambiare colla stessa mano il due in tre, il 2 in 3....
Non l’avrebbe mai fatto, nemmeno per salvare la vita dei suoi figliuoli, se si fosse trattato di mettersi del denaro non suo in tasca: non voleva che guadagnare ventiquattro ore di tempo, e salvare con un ripiego momentaneo la vita e l’onore di due famiglie. Il mandato era lì, che gli occhi lo divoravano. La penna vi passò sopra asciutta una volta, due volte quasi per provare. Due zampe di mosca potevano evitare un terribile scandalo, forse risparmiare un delitto. Il non farlo era quasi una crudeltà verso dei poveri innocenti. Il mandato Inganni l’aveva pagato lui, e il Martini certo non aveva nè tempo, nè voglia di stare a riscontrare ad una ad una tutte le parcelle parziali e di verificare la somma. Egli non voleva fare per ora che uno stato di cassa per poter ripartire e star via tre o quattro giorni coll’animo più sollevato. Quando avesse ritrovato e rimesso il denaro in cassa, il Pianelli era uomo capace di confessare tutto all’amico e d’implorarne il perdono. Ogni più onesto uomo può trovarsi per dodici ore in una suprema necessità, e l’onestà di quarant’anni di vita non la si distrugge mica in ventiquattro ore, con due sgorbietti di penna. Ciò che salva l’uomo è l’intenzione.
Uno ha il senso dell’onestà, un altro non l’ha. Il primo verrà sempre a galla per quanti sforzi tu faccia per affondarlo: il secondo precipiterà sempre come un sasso nell’acqua.
Cesarino si sentiva uomo integro nella sua coscienza, e, se un caso maledetto l’aveva tratto a sporcarsi le mani di fango, bisognava dargli il tempo di lavarsele. Quel fango ripugnava anche a lui, in nome di Dio santo...! Non c’è nessun gusto a fare il ladro.
Queste considerazioni andavano assediandolo, stringendolo in mezzo, pungendolo con mille punte, alle quali sentiva di non saper più resistere. Si asciugò ancora una volta la testa bagnata di un sudore freddo. Poi, intinta la penna nella boccetta del cloro, passò leggermente colla punta di metallo sulla coda del numero fatale, aggiustò coll’inchiostro il numero e la lettera.... e vi gettò subito molta sabbia sopra, colla furia spaventata dell’omicida, che cerca di nascondere le tracce del sangue....
— Dio, Dio.... — balbettò, alzandosi, colle membra rotte e indolenzite, come se avesse voltata la grossa pietra di un sepolcro. Anche il far male è una grossa fatica per chi non c’è avvezzo.
Tornò presso la cassa, rimise tutti i mandati a posto, stracciò il suo biglietto di visita in cento pezzetti, che buttò nel cestino, ma poi si abbassò a raccoglierli tutti, se li cacciò in tasca, chiuse bene.... e uscì sulla ringhiera a respirare dell’aria.
*
Il Martini aveva detto alle tre, ma entrò in ufficio alle due, con passo rotto e frettoloso.
Il Pianelli, che aveva già preparato un prospetto di cassa, gli andò incontro di nuovo con aria di compassione dicendo:
— O bravo....
L’amico, pallido come un morto, non seppe nascondere una forte agitazione che imbarazzava il suo contegno e i suoi movimenti. Aveva lasciato all’alba il letto della sua povera morta, dopo una notte passata in ginocchio ad assistere agli strazi di una lunga e dolorosa agonia. La sua povera Emilia non voleva morire a venticinque anni!
Si era attaccata colle braccia lunghe e stecchite al collo del suo Arturo e non finiva mai di chiamare fra i singhiozzi della morte la sua piccola Teresa. Sono notti spaventose che ti portano via la vita: un pezzo di noi se ne va con chi muore.
Era partito subito la mattina, lasciando la sua morta in mano ad alcuni parenti e si preparava ora a tornare per riportarne a Milano il corpo.
Il commendatore, uomo di cuore e discreto, non fece difficoltà, anzi gli diede licenza per una settimana, ma, tiratolo un momento in disparte, gli disse sottovoce:
— Però ha fatto regolare consegna al Pianelli?
— Ieri non ho avuto tempo. Son tornato anche per questo.
— Male! Non vorrei che avesse dei dispiaceri. Ho sentito delle voci.... Basta, non perda tempo, e non si esponga a certi pericoli.... Se vuole che mandi il Miglioretti....
— Grazie, vedrò....
Il Martini uscì dall’ufficio del commendatore col cuore un po’ inquieto. Carattere delicato e scrupoloso, quel semplice rimprovero gli bruciava sul cuore come un carbone acceso, e, se un gran dolore più crudele non avesse occupata e riempita di sè tutta la sua esistenza, sarebbe bastato questo dubbio per amareggiargli la vita.
Il Pianelli, fingendo che alcuno lo chiamasse allo sportello, andò a sedersi al suo posto, prese la penna e si pose a copiare una tabella. Copiò, copiò forse dieci minuti una lunga fila di numeri, materialmente, in forza di quell’abilità automatica che acquista la mano di chi scrive molto, che sa andare da sè e quasi ragionare da sè anche quando il cervello è assente.
Il Martini aprì la cassa grande, di cui aveva lasciato la chiave, e chiuso in un freddo silenzio, che si poteva interpretare come lo stato d’animo d’un uomo che ha il cuore irrigidito, mosse e rimosse molte carte e molti valori.
Poi passò alla cassa piccola, che aveva lasciato nelle mani dell’aggiunto.
Il Pianelli si mosse, quasi per uno scatto interno, e disse:
— Veda se tutto è in ordine.
— Non c’è dubbio.... — balbettò freddamente il Martini.
Il Pianelli tornò al suo posto e riprese a scrivere, a scrivere. Ma gli occhi vedevano rosso.
Il Martini seguitava a rovistare, a muovere carte, a riscontrare, sempre chiuso nel suo cupo, insopportabile silenzio. Pareva un uomo incontentabile, o non mai abbastanza soddisfatto.
L’altro scriveva sempre i suoi numeri infiniti color sangue, col cuore duro come un sassolino, sempre in attesa d’un giro di chiave che chiudesse per sempre al buio il documento della sua miseria.
Quell’insistenza eccezionale, in un uomo che aveva mostrato il giorno prima di fidarsi così pienamente di un amico, gli diceva già che anche la buona fede del compagno era stata preventivamente scossa da una voce misteriosa, insidiosa, da quella stessa voce, che da due giorni andava seminando il discredito e la diffidenza.
Passò ancora un quarto d’ora, che al Pianelli parve un secolo. Finalmente il Martini, con una voce velata che si sentiva preparata con suprema fatica, domandò:
— Si ricorda, Pianelli, quanto abbiamo pagato al capomastro Inganni?
— Io credo tremila... — esclamò il Pianelli, saltando in piedi e correndo con una premurosa sollecitudine verso il compagno.
— Mi risulterebbero meno....
— C’è il mandato, veda....
— Lo vedo.... — disse il Martini con un filo di voce, abbassando gli occhi e cercando di frenare il tremito da cui furono prese le sue mani.
— Perchè? — chiese il Pianelli con voce stridula, quasi di sfida.
— Nulla, scusi..., avrò sbagliato io.
Il Pianelli voltò dall’altra parte la faccia. Poi disse:
— Vedremo alla fine del mese....
— Scusi.... — tornò a dire il Martini, mentre andava facendo dei piccoli conti sull’angolo di un cartone disteso sul banco.
— Non le pare? — tornò a chiedere il Pianelli, nascondendo in parte la faccia colle mani nell’atto che egli fece per accendere un sigaro.
Il Martini gettò la penna con un movimento disperato. Riprese il mandato, lo agitò tra le dita, e fatta una mezza girata per la stanza, curvo nelle spalle sotto il peso della disgrazia e del tradimento, si fermò al tavolo del Pianelli, lasciò cadere il mandato, vi pose un dito, vi picchiò sopra tre volte coll’unghia, senza poter parlare, collo spavento dipinto nel suo viso d’uomo morente.
Cesarino finse di non capire. Voltò e scosse due volte il capo, coll’aria di chi domanda una spiegazione, ma le orecchie parevano due pezze rosse e la pelle fina e lucida del viso si stirò sugli zigomi irritati. La bocca gli si riempì di saliva amara.
Il Martini, con uno sforzo estremo, appoggiandosi colla mano a una sedia, potè soltanto soggiungere:
— Pianelli, per carità, anche lei è padre di famiglia....
— Che cosa? — osò ancora una volta chiedere col suo cipiglio di ragazzetto insolente lord Cosmetico.
— Abbia pietà, Pianelli. Sono un povero uomo anch’io....
— Che cosa?
— Perdoni.... — balbettò ancora una volta il Martini. — So bene che io sono il solo mallevadore della cassa: ma speravo di avere in lei un amico....
— Martini, per carità.... — scoppiò tutto a un tratto a dire Cesarino, che non potè più resistere al doloroso invito dell’amicizia. — Per carità..., per i miei figliuoli..., per la sua bambina..., per la sua povera Emilia non mi tradisca. È vero, fu il bisogno, l’insidia de’ miei nemici. Fra due ore avrà il denaro....
— Aspetto fino a stasera. Il commendatore mi ha già rimproverato d’aver abbandonato la cassa senza una regolare consegna. Ho promesso per questa sera di rendergli i conti.
— Fino a stasera almeno.
— Se il commendatore non vorrà, non insisterò....
— Stasera prima delle otto....
— A casa mia?
— Dove crede..., vado subito a Melegnano in cerca di mio suocero. Non mi comprometta.
— Non sono io che la comprometto, per amor di Dio....
— Ho dei nemici che mi vogliono male. Abbia pazienza..., non mi faccia fare una cattiva figura.
— Vede che io soffro non meno di lei. Vengo da un letto di morte e mi fa trovare un tradimento....
— Lei ha ragione; sono un miserabile.... Ma non mi tradisca. Se non trovo il denaro per questa sera, le rilascerò una dichiarazione.... e mi ammazzerò.
— Cerchi di salvare il suo onore.... — disse ancora il Martini, mentre il Pianelli, preso in furia il soprabito e il cappello, usciva rapidamente dall’ufficio.