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do di frenare il tremito da cui furono prese le sue mani.
— Perchè? — chiese il Pianelli con voce stridula, quasi di sfida.
— Nulla, scusi..., avrò sbagliato io.
Il Pianelli voltò dall’altra parte la faccia. Poi disse:
— Vedremo alla fine del mese....
— Scusi.... — tornò a dire il Martini, mentre andava facendo dei piccoli conti sull’angolo di un cartone disteso sul banco.
— Non le pare? — tornò a chiedere il Pianelli, nascondendo in parte la faccia colle mani nell’atto che egli fece per accendere un sigaro.
Il Martini gettò la penna con un movimento disperato. Riprese il mandato, lo agitò tra le dita, e fatta una mezza girata per la stanza, curvo nelle spalle sotto il peso della disgrazia e del tradimento, si fermò al tavolo del Pianelli, lasciò cadere il mandato, vi pose un dito, vi picchiò sopra tre volte coll’unghia, senza poter parlare, collo spavento dipinto nel suo viso d’uomo morente.
Cesarino finse di non capire. Voltò e scosse due volte il capo, coll’aria di chi domanda una spiegazione, ma le orecchie parevano due pezze rosse e la pelle fina e lucida del viso si stirò sugli zigomi irritati. La bocca gli si riempì di saliva amara.