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capitolo primo | 25 |
alla preoccupazione di poter ledere in qualche guisa i diritti della Chiesa e la intangibilità dei dogmi, la sua ostinata reluttauza a qualsiasi concessione di innovazione politica ai suoi sudditi. Il pontefice sopraffaceva in lui il principe. Forse egli aveva più di una volta affrontato, in mente sua, o nei segreti colloqui col Bernetti, o col Lambruschini, il problema delle riforme; forse aveva intraveduto la necessità di risolverlo, ma un po’ per iscrupolo fratesco di offendere gl’interessi della Chiesa, un po’ per l’indole sua neghittosa, egli preferì dondolarsi, immobile ed inerte, fra le figaresche blandizie del suo favorito cameriere e la barnabitica inesorabilità del suo segretario di Stato, brancolando nello statu quo, fermo a seguire la politica del carpe diem, risoluto ad allontanare da sè ogni grossa cura, ogni grave responsabilità, deciso a voler chiudere gli occhi tanto sui disordini amministrativi e sulle finanziarie dilapidazioni, quanto sul periglioso ondulamento del suo principato politico, corroso e minato nelle fondamenta, irremovibile nel turarsi le orecchie por non udire nè i reclami dei sudditi, nè gli alti lamenti dei prigionieri e degli esuli, saldo nel proposito di lasciare la soluzione dell’arduo problema alle cure del suo successore, beandosi nell’egoistico compiacimento di mormorare, fra un calice di Orvieto e un bicchiere di Bordeaux, l’antifona per lui, non meno che per Luigi XV di Francia, tanto comoda: après mai le déluge.
E cosi lasciava in eredità, a colui che verrebbe eletto a succedergli, rancori accumulati, odi moltiplicati. Stato più assai di prima disordinato e più che mai bisognoso di complete e radicali riforme, non reclamate soltanto dalla grande maggioranza de’ sudditi, ma dalla grande maggioranza altresì degl’Italiani e delle genti civili di Europa.
Se però tali erano le condizioni delle cose e degli animi nello Stato romano, non migliori o di poco differenti erano quelle di quasi tutti gli altri Stati d’Italia, sui quali la reazionaria onnipotenza austriaca, per mezzo della tenebrosa politica del principe Clemente di Metternich, allungava, un po’ con le lusinghe un po’ col timore, un po’ più, un po’ meno, gli artigli dell’aquila bicipite.
Peggiore, per molti riguardi, del pontificio e per la crassa e medioevale ignoranza in cui erano da esso tenute le popolazioni