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capitolo primo 13

nori in Ciro Menotti, nei Bandiera, in Mameli, in Manara, in Orsini, in Ciceruacchio, in Pisacane e in parecchi altri; e nella romana rivoluzione, nel 1848-49, un giornale politico di caricature, il Don Pirlone, ebbe l’abilità e la fortuna di riepilogare nelle sue pagine e nei suoi 234 numeri i desiderii generosi, i nobili ardimenti, le colpe involontarie, i gravi errori, le giovanili inconsideratezze di quell’epoca tempestosa e di quella convulsionaria, febbrile, eppure efficace, eppure gloriosa rivoluzione, la quale ebbe la più nobile sua intellettuale manifestazione in Giuseppe Mazzini, l’affermazione più alta del suo eroismo in Giuseppe Garibaldi, la sua più popolare e romana personificazione nella maschia e generosa figura di Ciceruacchio.

Ed è appunto perchè, fra Ciceruacchio e il Don Pirlone, si raccoglie e si, esplica, a giudizio mio, la parte importantissima che l’elemento propriamente romano sostenne nella rivoluzione ammirevole, per la quale il popolo italiano affermò in Roma, nel 1849, in mezzo alle più dure prove di abnegazione e di coraggio, con solenne e virile fermezza, i tre grandi principii della indipendenza nazionale, della unità della patria e delle civili libertà, proclamando dal Campidoglio, per voto della legittima rappresentanza popolare, la fine del potere temporale dei papi, è appunto perciò che ho impreso a tratteggiare i fatti del triennio, che dal giugno ’46 va al giugno ’49 e che in Roma si svolsero, con l’intento prefissomi di esaminarli in relazione più specialmente all’azione del tribuno popolare, all’opera del diffuso e influentissimo giornale umoristico.

Quali fossero le condizioni politiche e sociali dello Stato romano, dopo la restaurazione del Governo pontificio nel 1815, ormai tutti sanno.

L’edificio medioevale e feudale, scrollato in Europa, e specialmente in Italia, dal torrente impetuoso e fecondatore della rivoluzione francese e dall’impero napoleonico, fu, logicamente, per quanto era possibile, instaurato dalla violenta reazione della Santa Alleanza, dopo un quarto di secolo di asprissima e sanguinosissima lotta, trionfante, alla fine, della rivoluzione. I vincitori di Napoleone pensarono, e, naturalmente, nelle condizioni delle loro coscienze e nel giudizio loro dovevano pensare, che i popoli, vissuti per quasi venticinque anni, sotto la fascinatrice