Cara Speranza/Silenzi d'Amore
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SILENZI D’AMORE.
Lui si chiamava Fausto; aveva poco più di trentacinque anni, ed era artista di canto; tenore.
Lei era una di quelle signore eleganti di cui si dice sempre il casato ed il titolo, e si possono frequentare un mese senza saperne il nome.
Non si conoscevano. Fausto era stato a Pegli, dove un’altra dama di Milano gli aveva dato una lettera di presentazione per la contessa Floralio di Santigliano, che doveva trovare a Recoaro.
— Una donnina elegante, spiritosa, simpatica; una giovine vedova.
Fausto aveva incontrati a Recoaro molti conoscenti: aveva domandato della contessa:
— Aveva realmente le attrattive che gli avevano detto?
— Sì; Ma aveva delle timidezze da provinciale. Non osava stare all’albergo. Aveva preso alloggio da una famiglia ammodo; una mamma grassa e tre giovinette magre che si tirava sempre dietro come un’aureola di onestà.
Fausto rimise nel portafogli la lettera di presentazione.
Colla sua bella e florida gioventù, col suo carattere leale, il suo spirito sereno, il suo gran nome, e la fortuna che gli sorrideva, non aveva che a presentarsi per incontrare delle simpatie, non gli occorrevano lettere.
Da due, tre, dieci persone, la contessa s’intese dire che era arrivato Fausto, il più celebre dei tenori viventi, che cantava una sola stagione dell’anno al Covent-Garden o a Pietroburgo, ed in due mesi di trionfi e di gloria, si faceva una rendita da principe. Tutta Recoaro era agitata dalla speranza di udirlo.
— Canterebbe?
In società no. Era noto che non lo faceva mai. Ma se si fosse combinato il solito concerto a beneficio?...
Poi l’amica di Milano scrisse alla contessa:
“Come aveva trovato il suo raccomandato? Simpatico vero? Si vedevano spesso? Le faceva la corte?„
La contessa si meravigliò che non fosse comparso: se ne meravigliò al casino, se ne meravigliò alla fonte:
— Ma questo signore è un orso!
Fausto lo seppe, e, martire della cortesia, si mise i guanti e fece la visita.
Fu introdotto in uno di quei salotti borghesi che stanno sempre chiusi perchè il sole non abbia a sciupare i mobili, e di cui la serva apre le imposte quando ha fatto entrare un visitatore, lo abbaglia col riflesso del sollione che batte sul muro bianco di facciata, poi si volta, vede che si copre gli occhi colle mani, torna a chiudere un po’ più, un po’ meno, e lo fa assistere ad una serie d’effetti di luce, pittorici forse, ma punto comodi.
Fausto si guardò intorno, e fece una smorfia. Era un salotto freddo ed inospitale, senza il posto della signora, il suo angolo, la sua nicchia dove un amico può sederle accanto, presso il suo tavolino, e i suoi lavori, i suoi libri, i suoi giornali, i suoi albums e discorrere intimamente, sfogliando di quà, guardando di là, sgomitolando un filo di seta, disegnando un profilo colla matita, leggicchiando un’epigrafe, commentando, saltando di palo in frasca, mentre la signora continua a stare al suo posto a fare quello che stava facendo, senza aver l’aria d’essere là per riceverlo, di perdere il suo tempo per lui.
Era il salotto pretenzioso ed ingenuo delle famiglie che ricevono poco, e, per conseguenza, non sanno ricevere.
Un divano contro una parete, le poltrone in giro ed una tavola in mezzo su cui la vanità del proprietario mette in mostra tutti quegli oggetti, che la sua modestia considera troppo belli per farli servire al loro scopo.
Tazze in cui nessuno ha mai bevuto; servizi da thè e da caffè vergini d’ogni contatto colle bibite suddette; calamai che non conoscono neppur di vista l’inchiostro; e poi, fiori artificiali, uccelli imbalsamati ed i ricami più o meno scoloriti delle signorine di casa; e su tutte le spalliere dei mobili quadrati e dischi all’uncinetto per difendere la stoffa dal contatto dei visitatori.
La contessa entrò, salutò in piedi, sedette a disagio sul divano, colle mani in mano, impacciata di trovarsi là fuor di posto, con quell’aria di ricevimento che sembra misurare il tempo alle visite.
Fausto, che era avvezzo ad essere ricevuto fra gli intimi delle belle signore, rimase stonato anche lui.
Fecero i discorsi di circostanza:
— È da parecchio, che è giunto a Recoaro?
Poi un’occhiatina alla data della lettera che lo presentava, ed un sorriso dissimulato con ostentazione, ma senza osare di parlarne.
— E le acque le fanno bene? Io ne bevo tanti bicchieri, e lei? È poco. È troppo. Quanto tempo si aspetta alla fonte!...
Una conversazione da far dormire in piedi. La contessa cercò di metterci qua e là qualche parola spiritosa. Ma non si sentiva a suo agio, ed a Fausto fecero l’effetto d’una guarnizione di tartufi e d’un bicchiere di bordeaux introdotti improvvisamente nel menu di un pranzo casalingo. Non erano in armonia con tutto il resto, stonavano.
Uscì col fermo proposito di non ripetere la visita che alla vigilia della partenza, nutrendo speranza di non trovare in casa la signora, e di potersela cavare col laconico p. p. c., in margine di una carta da visita.
Ma, per quanto la speranza sia economica a nutrirsi, quella di Fausto non potè vivere a lungo.
Il giorno seguente incontrò la contessa alla fonte.
Era appoggiata colle spalle ad un albero, aspettando il suo turno per andare a bere.
Aveva intorno le solite signorine magre ed alcuni uomini.
Là in piedi, con quell’albero per tutto mobiglio, si trovava assai meno a disagio che nel salotto borghese.
Appena Fausto le si fece incontro, gli stese la mano mettendo un “Buon giorno„ tra due virgole del discorso, e continuò a parlare:
— Senza dubbio, ha sapore d’inchiostro, ma mi ci sono avvezza. Non fosse altro, a forza di dirlo; è la quarta volta che lo ripeto stamane.
— Lo ripeta anche a me, disse Fausto.
— Parlava dell’acqua?...
— Sfido! Dell’acqua, del sapore d’inchiostro della maggiore o minore ripugnanza che ci si ha... Qui si parla a rime obbligate.
— Ma le signore di spirito sapranno introdurvi qualche variante, ribattè Fausto coll’intenzione di fare un complimento.
— È una rima obbligata anche il fare dei madrigali alle signore, disse la contessa.
— Ed il presentarli anche quando non sono riesciti nevvero? soggiunse tutto umiliato il povero Fausto, che avrebbe voluto ritirare il suo.
— Come vede... rispose la contessa accennando a lui.
Ma lo disse ridendo per togliere l’amarezza a quell’ironia. Poi troncò lì quel discorso, presentò Fausto alle signorine Asting, agli altri conoscenti, e s’avviò per cercare il suo bicchiere.
Era davvero elegante, ben fatta; vestita bene; era giovine, allegra, cordialissima, entrava subito in confidenza. Era una di quelle signore, colle quali gli uomini stanno volentieri in compagnia, perchè sanno discorrere, tolgono di mezzo la soggezione senza mai perdere la loro dignità di contegno, e non annoiano mai; una di quelle donne di cui le altre dicono:
— Non si capisce che cosa ci trovino gli uomini di attraente. Non è bella.
— Non era al casino ieri sera? domandò Fausto.
E vedendo che la contessa lo guardava ridendo, soggiunse:
— È anche questa una rima obbligata?
— Ed anche questa è la quarta volta che si ripete, perchè lei è il quarto conoscente che incontro. No, al casino non c’ero. La signora Asting non ci andava, e non mi trova abbastanza vecchia per affidarmi le sue figlie. Non potevo andarci sola.
— Se potessi offrirmi di venire a prenderla io... disse Fausto.
— Sarebbe proprio il caso di dire: meglio sola che male accompagnata.
— Lei almeno non ci pensa affatto a fare dei madrigali.
— Ma li faccio senza pensarci.
— Dicendomi che con me sarebbe male accompagnata?...
— Se fosse vecchio e brutto, non glielo direi.
— Allora vorrei essere vecchio e brutto.
La Contessa lo guardò ridendo, ma non rispose. Si vedeva però che aveva qualche cosa da dire, e Fausto glielo domandò:
— Perchè ride? Pensa qualche cosa di male sul conto mio?
— Sì. Penso che è un po’ volubile.
— Può darsi, rispose Fausto.
Poi accorgendosi che aveva detto una fatuità, soggiunse:
— Non voglio contraddirla. Ma da che lo argomenta?
— Fino a ieri s’è tenuto in tasca una lettera a maturar la data, per evitare di vedermi; ed oggi vorrebbe essere vecchio e brutto per accompagnarmi.
— Fino a ieri non la conoscevo.
Fausto sarebbe andato lontano su quella via, ma lei si limitò ad inchinarsi ridendo al suo complimento, e parlò di altro.
Non insisteva mai sui discorsi, quando cominciavano a prendere una piega galante; li lasciava cadere, salvo ad intavolarne altri che seguiva fino allo stesso punto, per piantarli lì daccapo. È un gioco che piace molto alle belle donine; un gioco pericoloso. È come quella mezza ebbrezza che procura l’oppio, quell’esaltamento lieve che si attinge in un bicchiere di Sciampagna, un’ebbrezza, un esaltamento innocenti, ma terribilmente arrischiati. Un altro bicchiere di Sciampagna, un grano d’oppio di più, possono trascinare all’ubbriachezza e magari alla morte. Vi sono tante esistenze oneste che pericolano a questo gioco.
La sera, Fausto e la Contessa si rividero al passeggio, l’indomani alla fonte, e così via, come accade sempre alle acque ed ai bagni. Si fa vita insieme e si è presto amici.
Erano sempre contenti di ritrovarsi, si mettevano subito in allegria. Ma non erano mai soli. La Contessa giungeva inevitabilmente accompagnata dalle signorine Asting, e la conversazione era generale.
Fausto s’andava ogni giorno innamorando un po’ di più della Contessa, e lei sentiva crescere in modo inquietante la sua simpatia per lui.
Ma non si conoscevano abbastanza per abbandonarsi ad una fiducia che poteva essere ingannevole. Stavano in guardia tutti e due.
Fausto insinuava, quando poteva farlo, qualche parola tra scherzosa e seria, che turbava la Contessa: qualche volta era lei che la provocava ed era lui che si turbava.
Ma ogni volta che stava per affermare a sè stesso: “Sì, è innamorata di me„ si ricordava le notizie che gli avevano date della Contessa al suo arrivo a Recoaro: — “gentile, cordiale con tutti socievolissima, brillante, ma buona madre di famiglia ed onesta.„
Quanto a lei, vedeva quelle esitazioni, capiva che la sua onestà lo scoraggiava, e ci aveva rabbia.
Avrebbe voluto che fosse stato certo alla prima che non c’era nessuna speranza clandestina da fondare su di lei ma che l’amasse ugualmente. Non era libera? Non erano liberi tutti e due? L’idea che quel sentimento che l’agitava tutta non trovasse altro riscontro nel cuore di lui fuorchè la speranza ignobile d’un’avventura galante, l’offendeva.
Qualche volta si mostrava scettica per strappargli ogni illusione, e pensava:
“Meglio che disperi e non mi ami, che amarmi a quel modo.„
Un giorno che le signorine Asting parlavano di due innamorati da fatto diverso, disse:
— Se avessero preso del chinino, questa catastrofe non sarebbe accaduta. Il chinino è un calmante eccellente pei nervi; e l’amore non è che una malattia nervosa.
Pare che lei ne faccia uso del chinino, disse Fausto. Ne ha studiato molto gli effetti.
Glielo disse a mezza voce perchè gli altri non udissero, irritato da quella negazione fredda che lo scoraggiava.
Ma a lei quella parola sommessa, sussurrata come una confidenza fece l’effetto d’una carezza, malgrado l’insolenza che racchiudeva. S’indispettiva di non risentirsi di quell’insolenza, ma non si risentiva.
Tutto il giorno, tutta la sera, ripensò quella voce bassa, quella frase mormorata per lei sola, quell’atto intimo di parlarle piano. Le pareva che l’indomani e tutti i giorni dovesse sempre parlarle così.
Scrisse una lunga lettera a’ suoi due figli; una lettera di madre appassionata:
“Non aveva sulla terra altri affetti che loro due, s’era votata ad una vedovanza perpetua per non defraudarli d’una parte della sua tenerezza.
“Era impaziente di vedere la fine di quel mese, per andarli a prendere al collegio, e portarli con sè in villa, e vivere tutto l’autunno in famiglia. Le era penoso starsene sola a quel modo. Alle acque s’annoiava... s’annoiava...„
Voleva persuaderlo a sè stessa; ma invece alle acque ci aveva un interessamento troppo vivo. Aspettava con impazienza il mattino per andare alla fonte, e se per caso ne tornava senza una parola che l’avesse agitata, era triste.
E le accadeva sovente. Fausto s’annoiava di quella tutela che lei aveva sempre intorno. Gli pareva un’ostentazione di diffidenza, e si metteva in diffidenza anche lui.
La contessa invece avrebbe voluto svincolarsi da quelle soggezioni, ma era timida, non osava più.
Prima era andata parecchie volte alla fonte sola: ma, dacchè conosceva Fausto, le sarebbe sembrato di andare a cercarlo; si sarebbe vergognata di lui più che degli altri; e si circondava più che mai.
Avevano tutti e due uno strano modo di parlare fissandosi gli occhi negli occhi con un’intensità che pareva fatta per accompagnare dei discorsi appassionati. Invece sovente dicevano:
“Guardi quel cappellino. Sa chi è quella signora? Oggi le signore Asting sono più eleganti del solito„ e simili sciocchezze.
E poi, in mancanza di parole affettuose da ricordare, ricordavano gli sguardi; quell’occhio largo, intento, profondo, ritornava con insistenza alla loro mente nelle ore solitarie e lente della lontananza, esaltava la fantasia innamorata, che ne riscaldava, coll’intensità del desiderio, la muta eloquenza.
Un giorno qualcuno propose una gita sui somarelli; Fausto mise un grande impegno nel combinarla, se ne entusiasmò addirittura. Gli pareva che la campagna, l’allegria della circostanza, gli avrebbero fornita l’occasione di isolarsi colla contessa un po’ a lungo, di parlare con calma, senza soggezione.
Non aveva il proposito di precipitarsi a’ suoi piedi come faceva nei melodrammi nella sua qualità di tenore. Anzi, appunto perchè era un cantante, s’impuntiva a non far nulla di melodrammatico, e per evitare ogni atteggiamento teatrale, si mostrava prosaico fino all’affettazione. Ma nella sua anima d’artista sentiva potentemente la poesia della vita.
Quella donna vedova, indipendente che vedeva ogni giorno senza poter mai svincolarla dalle soggezioni da giovinetta di cui s’era circondata, quei discorsi nervosi in cui apparivano lampi di passione, e che, subito dopo, una nota di scetticismo o di puritanismo smentiva, gli avevano messa la febbre nel cuore.
Era risoluto a parlare, ad uscire da quell’incertezza ad ogni costo, a costo di fare una dichiarazione d’amore sul dorso di un asino.
Appunto in quel giorno il seguito della Contessa era al gran completo.
Oltre alla signora Asting, le figlie, i conoscenti soliti, c’era un giovine di Milano arrivato allora, che le portava una grande provvista di novità, e le faceva la corte anche lui.
Fausto non era geloso, e la Contessa neppure. Avevano troppo spirito per questo. Ma tutti i terzi che s’intromettevano fra loro li irritavano; d’altra parte, avevano abbastanza pratica di società per saper pigliare le cose con disinvoltura, e nascondere il loro malcontento.
Ma nascondendolo agli altri, se lo nascondevano anche a vicenda, e ciascuno interpretava come indifferenza la rassegnazione dell’altro, e si scoraggiava, e ci metteva della dignità a dissimulare ed a vincere un sentimento che non credeva più corrisposto.
Così non cercarono più di isolarsi.
Lui andò a far la corte alle altre signore, e lei si lasciò far la corte dagli altri giovinotti.
Soltanto tratto tratto si mandavano una parola al volo, si guardavano da lontano, ed erano sempre quelle occhiate profonde, intime, amorose che suscitavano una tempesta nel cuore di tutti e due.
Mentre mangiavano seduti in un prato, Fausto udì la Contessa discorrere col giovine milanese di una sua idea paradossale di andare in Terra Santa colla società della Propaganda Fide.
Era smaniosa di vedere quei luoghi pittoreschi tutti idealizzati dalla poesia del cristianesimo...
“— E non c’era obbligo di far propaganda, nè di associarsi a tutte le preghiere ed ai digiuni.„ Ciascuno era libero di agire come gli consigliava la sua coscienza; onestamente, ben inteso. Si pagavano mille lire e si era provveduti di tutto per sei mesi; viaggio, carovane, guide per essere accompagnati nei luoghi pericolosi; era anche un’economia...
— Quando partiamo? disse Fausto.
— Ma che! Lei crede di trovare sul Golgota codeste fette di roast-beef? rispose la Contessa.
Aveva sentita una scossa al cuore a quella parola, colla quale pareva che Fausto volesse dirle che si credeva unito a lei, che le apparteneva già tanto, da associarsi ad ogni suo disegno stravagante ed ineffettuabile, e voleva nascondere la sua commozione.
Lui dovette scusarsi del suo appetito; s’irritò di quella risposta prosaica.
Se l’avesse amato, se avesse desiderato di sapersi amata da lui, avrebbe potuto rispondergli: — Con che diritto, perchè vuol venire con me?
E lui le avrebbe sussurrato: “— Perchè l’amo.„
Invece l’aveva evitata quella parola: non voleva udirla. E più tardi, sola nella sua camera, anche la Contessa rimpiangeva la stessa cosa. Se avesse osato domandargli perchè si associava a quel suo disegno, egli le avrebbe risposto:
“— Perchè l’amo.„
Risentiva nel silenzio della notte quella parola sussurrata da quella voce; ne provava un fremito, una soavità infinita. Sperava che gliela direbbe il domani, e fantasticava la poesia dolce d’una confessione d’amore.
Ma i domani si succedevano tutti ugualmente delusori.
Sempre le stesse soggezioni da cui non osava svincolarsi; sempre la stessa timidezza, le stesse diffidenze; la stessa conversazione, a frizzi, scherzosa, paradossale, di cui avevano presa l’abitudine, e che toglieva ogni valore anche alle espressioni più amorose ed ardite.
Fausto ebbe ancora una speranza, una sera che la Contessa lo invitò a prendere il tè.
Si figurò uno di quei tè intimi, una cuccuma piccina piccina, due sole tazze, due mani che si sfiorano tremando nell’accendere un fiammifero e nel dar fuoco allo spirito, due cuori che battono forte forte, mentre stesi in due poltroncine, col capo abbandonato indietro e la tazza fra le mani, i due amici, uomo e donna, si mandano traverso il fumo del tè delle frasi brevi, un po’ nervose, colla voce convulsa, collo sguardo largo e fisso.
Poi posano le tazze, lui prende quell’occasione per alzarsi, per accostarsi a lei, le va dietro pian piano, si appoggia alla spalliera della poltrona, e col capo sul capo di lei, colle labbra che le sfiorano l’orecchio, coll’alito ardente che le brucia il collo le dice:
“— Lo sapete, Maria — lo sapete, Bianca — lo sapete, Teresa, che vi voglio bene?„
Fra le altre miserie Fausto non conosceva il nome della Contessa. Doveva mettere dei puntolini al posto del nome, nel suo sogno d’amore. Ma pazienza; purchè quel sogno si avverasse era anche disposto a chiamarla Contessa per l’ultima volta.
Aspettò quella sera commosso, felice, impaziente. Ci andò troppo presto; ma doveva essere un altro disinganno.
La Contessa era seduta sul divano colla signora Asting e la signorina maggiore. Le altre sorelle sonavano un pezzo a quattro mani!!!!
Se intanto avesse potuto sedere accanto alla Contessa, benedetto il pezzo a quattro mani che gli avrebbe permesso di parlarle piano. Ma i posti erano occupati a destra ed a sinistra. Bisognò sentire, assaporare, lodare il “tremulo„ perfettamente eseguito con tanta agilità, tanta forza, un pezzo così difficile...
Poi vennero i discorsi musicali. La Contessa era nervosa; voleva che le opere si musicassero su libretti in prosa. La poesia era una puerilità. Perchè misurare il pensiero sopra un metro, contarci le parole, fissarci le cadenze? Questo era ufficio della musica. Ed anche essa doveva essere semplice, naturale, senz’artificio; un lungo recitativo, filato, drammatico. Lì sui due piedi, ridusse in prosa da parodia, la Celeste Aida ed il Ciel o mar! della Gioconda, e volle che Fausto cantasse le sue arie così.
Lei aveva fatto la sua parte bene, però; e lui fece bene la sua, come faceva bene tutto. Aveva quel dono prezioso. Ci mise dell’umorismo.
Poi la Contessa gli strinse la mano per ringraziarlo, e quella stretta di mano lunga, espressiva, lo fece tremare di gioia.
— Ed ora basta, nevvero, di bandire la poesia? le disse. Ora torniamo poeti.
— Ma no. La poesia è una convulsione dei nervi, insistè la Contessa, che li aveva lei i nervi in convulsione, perchè era malcontenta dalla sua serata.
— Come l’amore allora? disse Fausto.
— Come l’amore.
— E si guarisce anche col chinino?
— Perchè lo domanda? È poeta lei?
— No, sono innamorato, rispose Fausto.
Ma lo disse stizzito. Quella scherma di frasi artifiziose, di paradossi, lo irritava.
Tuttavia la Contessa provò un sussulto al cuore a quella confessione. Ma le signorine Asting si mordevano le labbra come per reprimere una voglia di ridere che non avevano, e lei rispose:
— Ah! allora la compiango.
— Perchè? domandò Fausto.
— Perchè è capitato qui dove siamo tutta gente prosaica.
— Non credono all’amore?
— Sì; ci crediamo, come alla febbre; e consigliamo il chinino.
— Io se conoscessi una donna innamorata, le consiglierei le acque di Recoaro, disse Fausto stizzito.
— Per averla vicina?
— No. Non l’avrei vicina perchè parto domani. Per guarirla dell’amore come lei.
— La prego di credere che io non ho avuto bisogno di guarire. Non ne ero malata.
— Mai?
— Mai. Poi ripigliò: Forse, quando mi sono maritata... — Era un modo di troncare il discorso. L’annuncio di quella partenza l’aveva scossa tutta. Perchè partiva?
Quella sera si separarono amareggiati, irritati; si strinsero la mano convulsamente. E nelle lunghe ore d’una notte insonne, la Contessa si tormentò con pensieri sconfortanti:
“Dunque non l’amava, non l’aveva amata mai dacchè se ne andava così, senza rivederla, come un estraneo. Era venuto dopo di lei. Non aveva scritture che lo chiamassero altrove. Se ne andava per andarsene; perchè ne aveva assai, di Recoaro. La sua presenza non contava per nulla, non aveva influenza per trattenerlo. O Dio! E lei che s’era montata la testa!...„
La mattina si alzò dal letto scoraggiata, disillusa, ma calma come una donna ragionevole. Le faceva male di rinunciare a quell’ultima illusione. Era l’ultima. Aveva già creduto di non poter averne più. Poi sul suo orizzonte grigio di madre, di vedova, era apparsa quell’ultima striscia rosea di crepuscolo, quell’ultimo bagliore di luce, quell’ultimo saluto di sole.
S’era sentita ravvivare la fantasia, riscaldare il cuore. Ed ora bisognava rinunciarvi, ritornare al grigio, ritornare alla solitudine fredda, e alla sua età era per sempre!
Voleva pensare ad altro. A’ suoi figli; ad Alfredo che aveva bisogno dei bagni di mare: ed al suo villino sul lago di Como a cui si dovevano fare delle riparazioni importanti e costose. Come tutrice de’ suoi figli, queste dovevano essere le sue cure. Ed intanto le tornavano insistenti al pensiero due versi d’una romanza moderna che aveva cantata tutto l’inverno senza badarci.
La vita è solitudine
Senz’amor, senza sogni e senza Dei.
Si vestì coll’abito da mattina tutto bianco, che la faceva svelta e sottile. Poi andò al balcone irritata dalla penombra grigia che l’avvolgeva, assetata di luce, assetata d’azzurro, e spalancò le gelosie con un impeto nervoso, mormorando sempre
La vita è solitudine
Senz’amor, senza sogni e senza Dei.
Ma rimase là, colle braccia alzate, colla frase interrotta, paralizzata, immobile, bianca sul fondo scuro del balcone aperto, come una statua in una nicchia. Aveva ritrovata la poesia rimpianta, aveva ritrovato il suo amore, il suo sogno, la sua fede.
Giù nella via, appoggiato al muro di contro al balcone, aveva veduto Fausto, colla faccia alzata verso di lei, che l’aveva aspettata, che la guardava fissa co’ suoi grandi occhi innamorati.
Quella dichiarazione tanto aspettata, tanto invocata, che nessuna parola aveva potuto esprimere, che nessuna dimostrazione era valsa ad affermare, ora era detta, chiara, appassionata, irrevocabile. In quel momento ogni dubbio scomparve. Tutta la storia del loro cuore si rivelava in quello sguardo muto. Non si salutarono. Anche il saluto è una convenzione e loro erano fuori di tutte le convenzioni, di tutte le regole. Tra un grande artista e una gran dama, quell’amore dal balcone alla maniera degli studenti, per non essere ridicolo doveva essere solenne e grande come una vera passione.
Da parte di Fausto era un atto disperato.
Irritato con sè stesso di non poter dire quello che aveva nel cuore, irritato colla Contessa che non voleva comprenderlo, irritato più che mai con tutti i terzi e con tutte le soggezioni che si frapponevano tra loro, in un momento di dispetto si era lasciato sfuggire quella parola: “Parto domani.„ Non era un proposito, non ci aveva pensato, non aveva risoluto nulla. Ma omai l’aveva detto, e doveva partire per non suscitare commenti pettegoli. E tuttavia non voleva partire con quella spina nel cuore; non poteva tollerare quell’incertezza.
Un momento gli era venuta l’idea di scrivere alla Contessa; ma quando era stato lì per scrivere l’indirizzo di quella signora, di cui non conosceva neppur il nome, aveva esitato.
E se non l’avesse amato? Se fosse stata un’illusione la sua, e lei dovesse ridere di lui e della sua lettera? Se realmente non avesse creduto all’amore come diceva? E ad ogni modo, qualunque emozione le avesse suscitata nell’animo quella confessione scritta, se s’era proposta serbare il suo segreto, la lettera non avrebbe giovato a strapparglielo. E due ore dopo, Fausto l’avrebbe riveduta col solito sorriso sulle labbra, e se c’era stata una tempesta, non ne avrebbe saputo nulla. Ed egli voleva saperlo, voleva sorprenderla quella tempesta che rispondeva in un altro cuore alla tempesta del suo.
Quando mi vedrà, all’alba, fermo in istrada a contemplare la sua finestra, come un innamorato da romanzo, come un pazzo, non potrà pigliarlo per un complimento. Dovrà comprendere che l’amo, e confessare che lo comprende.
E la Contessa non esitò a confessarlo. Rimase affascinata, col cuore palpitante, cogli occhi fissi negli occhi di lui, bevendo a larghi sorsi la felicità, in quel lungo silenzio d’amore. Rimase senza misurare il tempo, senza contare le ore. Dopo la luce rosea dell’alba, venne un soffione che le ardeva il capo, che la avvolgeva tutta in un’aureola d’oro, che le infiammava il volto, che strappava raggi e scintille da’ suoi cappelli biondi. E Fausto dimenticava il tempo, la strada, la gente, non vedeva che lei in quella gloria di luce e d’amore.
E quando dovettero ritirarsi, riportarono nel cuore la gioia intensa dalla passione corrisposta. Non diffidavano più: erano certi l’uno dell’altra. La società abusa di tutto, toglie il valore ad ogni cosa. Le più calde proteste sono complimenti; una stretta di mano forte, lunga, amorosa, è un saluto; le assiduità più insistenti, sono cortesie. Ma quella corrispondenza muta di due sguardi, l’eloquente poesia di quel silenzio, non era registrata fra gli atti regolari della vita, non si poteva giustificare con un nome profano.
Era il linguaggio della passione.
Più tardi, quando s’incontrarono alla fonte, la Contessa non era più timida e peritante; colla sicurezza della felicità, si lasciò dietro un tratto la sua inevitabile tutela, e, per la prima volta, lei e Fausto, si trovarono liberi di parlarsi senza testimoni. Ma si erano detto tutto in quel lungo silenzio d’amore, si sentivano d’accordo. Si strinsero la mano; poi Fausto le offerse il braccio, e si avviarono lentamente inebbriati e felici, appoggiati l’una all’altro, come dovevano esserlo per tutta la vita.