Bonaventura Zumbini

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Al mare Jonio
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PREFAZIONE


I

In tempi così poco favorevoli alla poesia e alla vita dell’immaginazione, come venir fuori con una raccolta di versi che, scritti poco prima e poco dopo la metà di questo secolo, non possono produrre neanche quegli scarsi effetti che sono appena consentiti all’arte dei nostri giorni? Così, a un di presso, forse diranno molti in proposito di questa raccolta; ma, se mai, s’ingannerebbero davvero. Perchè il ritornar colla mente ai tempi in cui gli animi eran più vogliosi e più capaci di poesia che oggi non sembrino, è già esso medesimo l’effetto di un interno movimento poetico, ed è ancor segno che i problemi terribilmente seri che travagliano le generazioni presenti, non sono bastati a intepidire, non che a spegnere, i sentimenti di quella natura. [p. vi modifica]E veramente, promotori di questa pubblicazione sono appunto molti di coloro che, con l’ingegno e la dottrina e con l’esercizio de’ più alti uffici pubblici, oggi onorano maggiormente quella Lucania, che fu madre anche al poeta, di cui vogliono così rinfrescata la memoria. E poi, anche in mezzo alle cure e alle amarezze di cui ai nostri giorni è più che mai feconda ogni operosità civile, in mezzo alle esigenze incalzanti del presente, alle invitte preoccupazioni dell’avvenire, alle battaglie, insomma, che divengono ognor più intense, come dimenticare che i maggiori beni onde ora godiamo, derivano appunto da quei tempi che furono come l’alba della vita che oggi da noi si vive?

Nulla dunque di più bello e gentile che il ricordo di essi tempi, e il cercarne e raccoglierne le memorie gloriose. La storia dei rivolgimenti civili e politici che prepararono l’unità della patria italiana, non potrà essere degnamente scritta prima che in ogni regione della Penisola sia stato condotto a termine lo studio di tutte quelle forze che concorsero al magnifico effetto. La letteratura poi ha tra esse un posto altissimo. Grande la sua efficacia [p. vii modifica]in tutte parti d’Italia; grande più specialmente in quelle dove, soppressa ogni altra operosità della vita, gli ingegni migliori non si potevan quietare che nelle lettere e nella poesia: e tali appunto erano le condizioni morali e politiche del Mezzogiorno. Or uno degli spiriti più eletti che allora vivesse e che maggiormente potesse sulle menti dei propri concittadini, fu appunto Nicola Sole. E già i suoi versi, in qualunque modo si voglia giudicarli, non c’è anima gentile che possa ancor oggi leggerli senza vivissima partecipazione a tutti quegli affetti onde furono ispirati. La poesia ch’ebbe strette attinenze colla storia, non muore mai del tutto; e, anzi, la storia, pur col farne ricordo, ridesta qualche parte almeno dei moti, onde quella era stata cagione.


II


I versi del Sole, nato in Senise nella Basilicata, il 31 marzo del 1821, e quivi morto l’11 dicembre del 18591, si [p. viii modifica]possono considerare come divisi in due parti: quelli, scritti nel 1848 e negli otto o nove anni precedenti, e gli altri composti dal 49 sino agli ultimi giorni di sua vita. Questi sono due brevi, ma importantissimi periodi della nostra storia; ricchi, l’uno di grandi avvenimenti e di gioie e di speranze, l’altro, anche di speranze, ma insieme di angosce ineffabili e or più or meno forti di quelle: periodi ch’ebbero tante nobili interpretazioni nella letteratura e nell’arte italiana contemporanea. Or senza tener conto qui di altri versi di vario argomento, scritti in sull’entrare della giovinezza, fra cui va ricordato, perchè molto piacque, il «Menestrello»2, noterò che il primo di quei periodi [p. ix modifica]interpretò il Sole nell’«Arpa Lucana»3; il secondo, nelle cose che scrisse poi.

La maggior parte dei canti che compongono quella raccolta, fu fatta, come disse l’autore medesimo, nella continuata successione de’ miracolosi avvenimenti che in pochi mesi avevano cangiata la faccia dell’Europa4. È qui come uno scoppio di affetti giovanili, lungamente compressi nel profondo del cuore; come una procella di [p. x modifica]pensieri che escano all’aperto, impazienti di luce, di moto e di rumoreggiare in mezzo alle genti. È qui un’anima che si affaccia per la prima volta alla festa della vita, e saluta tutte le bellezze che ci vede, tutte le armonie che ci ode, accresciute per lei smisuratamente da quella che le parve improvvisa redenzione dell’Italia. Che tripudi, che sogni e che esultanze! L’«Arpa Lucana» si potrebbe considerare come una storia versificata di quei tempi: storia in cui il poeta, per entro gli affetti e le idee comuni ad un intero popolo, fa balenare i pensieri solitari, natigli da lungo tempo nel cuore alla vista del suo mare e dei suoi monti.

Questi segni, questi interventi del proprio io nella rappresentazione della gran festa italiana talvolta prendono per loro una parte di qualche componimento, tal altra un componimento intero. Essi ci sembrano il meglio di tutta questa prima poesia giovanile: ritraggono immediatamente l’affetto che premeva il cuore dell’autore stesso, e sono come il grido che distingue lui da mille altri pur generosi. È vero che in coteste manifestazioni del proprio io manca ancora [p. xi modifica]una piena consapevolezza di sè e un’idea sovrana da cui esse tutte procedono; è chiaro, anzi, che lo spirito, ondeggiando tra forme e visioni di bellezze contrarie, talvolta si avvicina ai classici, tal altra ai romantici, e qui più particolarmente al Monti, e là al Berchet e al Rossetti, e ora comincia col Manzoni e finisce col Leopardi, a ora, dopo gli echi del Petrarca, fa sentire quelli del Byron e del Lamartine. Me questi ed altri simili ondeggiamenti derivavano da un immenso fervore interno che sforzava il nostro poeta non tanto a mutar di affetti e di simpatie, quanto ed amar quelle varie forme di bellezze, a vagheggiarle e a volerle far tutte sue nel tempo stesso. Condizione dello spirito certamente inferiore a quella cui pervengono coloro che, pur volendo e potendo amare molte cose insieme, e pur ammirando un’infinità di bellezze nella vita e nell’arte, riescono a dar forma tutta propria ai loro amori e a segnarne ogni manifestazione della propria stampa. Me era pur sempre una condizione poetica questa del giovane lucano, il quale, ardendo di mille brame, pativa come per troppo amore, come per un conflitto di [p. xii modifica]passioni che sembravano eccedere le sue forze; e intanto, della sua impotenza a dominare tali tempeste interne e ad affermare vittoriosamente se stesso, ci porgeva quasi un compenso in quegli affanni della lotta, in quella volontà che non gli dava mai tregua e lo incalzava da ogni parte, pur sospingendolo sempre più in alto.


III


Tutto ciò, chi sappia interpretare col cuore un nobil cuore giovanile, si sente nell’«Arpa Lucana», e si sente insieme che per il Sole il tempo di una maggior consapevolezza di se medesimo e di un pensiero e di un’arte più sua, non era molto lontano. Ma di questa prima raccolta non daremo più di quattro componimenti, volendo poi largheggiare nella scelta di quegli altri che, per essere stati fatti in età più matura, sono di maggior pregio: daremo dunque i canti intitolati: «Ai Siciliani»5, «La Guerra»6, [p. xiii modifica]«Al Rosignuolo», «Al mare Jonio»7. Nei primi è facile avvertire quel calore tutto suo, onde il poeta esprimeva gli affetti che agitavano un intero popolo. Così facendo, egli talvolta ravvivava felicemente anche quelle reminiscenze petrarchesche abusate e rese inefficaci dalla fredda imitazione di tanti nostri scrittori, che, senza passioni vere, presumevano di potere appropriarsi il linguaggio più gentile che abbiano mai avuto l’amore e la carità patria. Ma il Sole, ardendo veramente dell’una e dell’altra fiamma, dagli esempi del sommo Italiano imparava a significar meglio se medesimo. Seppe trovar poi quelle parole semplici insieme e sublimi con cui si ottengono spesso i maggiori effetti dell’arte. Rivolgendosi ai Siciliani, che, sollevatisi in arme, parean volersi staccare da Napoli, interpreta così il cuore della patria comune:

             La vendicata Ausonia
             Che a nuovo onor si desta,
             Non oserà recingere
             Il manto della festa,

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             Non oserà riprendere
             La gioia dei conviti,
             Finchè non vegga uniti
             Tutt’i suoi figli a sè.

Ma poesia di ancor più alta ispirazione e maggior vigore di pensieri è «L’Jonio»; e gli stessi difetti della forma e persino qualche inesattezza o anche errore di storia non c’impediscono di considerar questo componimento come la prima testimonianza di un vero ingegno poetico. Le memorie della nostra civiltà antica, il disdegno generoso dell’ignobile presente, le speranze di un più lieto avvenire e le più belle immagini della poesia greca e dell’italiana, tutto qui concorre a dare sfogo all’affanno del giovane solitario, che, errando per le rive della nativa marina, fa come una consacrazione del pensiero, dell’arte e di tutto se stesso alla grande e sventurata sua patria.

Non ho mai dimenticati gli effetti che in me giovanetto faceva questo componimento, quando potevo ripetermelo errando per le rive di quello stesso mare, sul quale navigavo intanto con gli occhi e col pensiero. Si dirà che ci vuole ben poco per accelerare col [p. xv modifica]verso i palpiti di un adolescente che si creda poeta nato anche lui! Ma il vero è che ancor uomini già adulti ed alti di mente e di animo ebbero da quella medesima poesia forti e nuove impressioni. «Facendomi leggere (scriveva Gino Capponi) quel componimento sul mare Jonio, che tra gli altri è grave di molto pensiero, mi pareva essere tornato ai miei 25 anni, quando io pure in una barchetta e sotto il più bel cielo del mondo, ma non però senza qualche avventura di burrasche, mi andava correndo il mare di Puglia e quel di Calabria e traversava il golfo di Taranto, bellissimo sopra tutti e di aspetto e di memorie, e ambiva di radere la spiaggia dove fu Metaponto ed Eraclea, cercando se fosse in un di quei luoghi la tomba di Erodoto e passando qualche di beato nella patria di Milone, la quale ha Sibari troppo accosto. Ma questi sono ricordi vecchi, ed è grazia sua se a me vennero ringiovaniti»8. Lo svegliare nuovi moti e nuove immagini negli spiriti gentili è stato sempre [p. xvi modifica]uno dei segni più certi che possa dare di sè la virtù poetica.

Degno poi di particolar ricordo mi sembra il fatto che la canzone «All’Italia», con la quale si chiude l’«Arpa Lucana», fosse scritta circa due soli mesi prima del giorno in cui doveva cadere così eroicamente Luigi La Vista9. Per tal modo la generosa Lucania, fra le molte testimonianze del vigore intellettuale e morale a cui era pervenuta, ce ne porgeva una nuova e più che altra eloquente, in queste due vite giovanili così ricche di quei pregi che tanto onorano l’umana natura e più particolarmente la patria!


IV


Ai giorni dell’esultanza seguirono ben presto quelli del dolore. Quali dopo il 48 divenissero le condizioni politiche di tutto il Regno di Napoli, non è necessario che io [p. xvii modifica]dica. I vecchi se ne ricordano dolorosamente per propria esperienza, e le nuove generazioni ne hanno avuto, ai nostri giorni, dipinture vivaci in parecchie opere storiche10. Alle condizioni politiche è naturale che facessero perfetto riscontro quelle della letteratura e, in particolare, della poesia. Nei nuovi caratteri dell’una e dell’altra c’è qualche cosa che ci fa pensare allo stato della nostra cultura negli anni che seguirono al 1815. In tanta persecuzione della parola e perfino del pensiero, in tanta compressione d’ogni libero moto, lo spirito fu costretto a cercar nuove vie, o almeno a mostrare di cercarle per nascondere al possibile il suo perdurare in quelle da lui tenute sin allora. Non più di quella patria, donde gli erano venuti i più forti impulsi all’opera, non più la visione di cose grandi e liete oltre ogni ricordo della storia. Quel mondo era scomparso d’un tratto, e non si poteva neanche ripresentarlo nelle [p. xviii modifica]dipinture storiche o poetiche agli occhi delle nuove generazioni perchè si sforzassero a riconquistare il bene perduto!

In tanto contrasto fra il volere e il potere molti cuori gentili languirono a morte o si spensero del tutto. Ma i più fervidi e forti seppero resistere, procurarsi i modi di una nuova operosità; e gli scrittori, in ispecie, si volsero a trattar soggetti che contenessero quasi virtualmente quelli interdetti alla parola. Or tutto ciò che in qualsivoglia modo è bello e grande, porta con sè l’idea della patria; idea la quale in nessun’altra parte più splende che in quella donde s’era voluto sbandirla. Codesta assenza, che pur suscita una ancor più chiara visione dell’oggetto amato, è manifesta nelle cose dei nostri migliori, fatte durante quella grande oppressione politica, e specialmente nei versi che il Sole scrisse dopo il 1848, cioè negli ultimi undici anni di sua vita. Oh come avvertiamo che il suo canto s’interrompe proprio quando più gli palpitava il cuore! E come ci è facile di vagheggiare nella nostra fantasia tutto ciò che nella sua doveva far parte di molte dipinture non compiute!


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V


Ma se manca l’espressa rappresentazione dell’idea politica e delle sorti della patria infelice, vi abbonda invece quella di altre idee grandi. La miglior parte della nuova poesia del Sole ha per argomento qualche fatto contemporaneo d’universale importanza, e risale alle regioni supreme della scienza e dell’arte, accennando ai più insigni effetti che dall’una e dall’altra vennero alle genti. Cotesta poesia nei tempi nostri predilessero i migliori ingegni, anche perchè, quand’era interdetto ogni argomento nazionale e politico, essi trovavano, nelle molte relazioni che il proprio soggetto poteva avere con tutte le altre parti della vita e della storia, di che appagar le loro brame. Il nostro autore, dopo i primi saggi di siffatta poesia, pubblicati nell’«Arpa Lucana», ne diede parecchi altri di maggior valore: tali sono, ad esempio, quelli intitolati: «Pensieri poetici sull’eloquenza del foro penale», «Addio a Giuseppe Verdi», [p. xx modifica]«La fanciulla e l’artista»11 «Pel filo elettrico dei due mondi»12.

Vi è altezza d’intonazione e nuova copia d’idee e d’immagini; ma se i singoli componimenti non sempre hanno quella perfezione che si conviene alla profondità del soggetto, mostrano già nel loro complesso che il poeta sapeva oramai vincere non [p. xxi modifica]poche delle difficoltà che sono proprie di cotesto genere d’arte. E anche mostrano come, per abbondanza di vena, per ricchezza d’immagini e per squisita fattura di verso, il Sole già sovrastasse a tutti gli altri poeti che allora fiorivano in Napoli.13 Con che ardente desiderio vagheggiava nei «Pensieri poetici» gli antichi esempi dell’eloquenza forense, e come ci fa intendere la sua segreta ammirazione per un’altra specie di eloquenza, caduta poco avanti nella nostra patria con tante altre non meno nobili cose! Quanti e quali affetti eccitava per tal modo nei cuori giovanili! In proposito poi del «Filo elettrico», tenta un inno alla grandezza del pensiero [p. xxii modifica]umano: non si leva certo all’altezza di Victor Hugo, ma egli è già uno che, come i ricordi di quel tempo ne fanno fede, poteva comunicare il suo entusiasmo ad un intero popolo, e dir parole che mille e mille dovevan ripetere col cuore stesso onde egli le aveva dette.


VI


Anche a qualche cosa di universale si leva parlando di musica al maggior musico che oggi viva nel mondo; pur nondimeno quell’alto sentimento è temperato e quasi vinto dal dolore. Il Verdi, col quale alla vista di questo golfo e di questo cielo aveva passato ore divine, lasciava Napoli; e al poeta, che ne accompagnava collo sguardo la nave, l’eden si cangia in un deserto, il mare in un abisso che lo dividerà per sempre dall’amico. E veramente, dagli ultimi versi del suo «Addio»14 si direbbe che nelle stesse [p. xxiii modifica]note di quel Grande, che gli avevano ispirato un inno alla divina arte dei suoni, finisse col trovare come l’interpretazione del suo interno affanno.

Un altro nobile ricordo del Verdi abbiamo nella stanza: «La preghiera del poeta»15, che egli stesso volle mettere in musica. E la cosa andò così. In una di quelle notti di estate, che in ben pochi altri paesi del mondo sono così deliziose come a Napoli, passeggiavano insieme, lungo le rive di Santa Lucia e del Chiatamone, il Verdi, il Sole e Domenico Morelli, dal quale, appunto, mi fu raccontato il fatto. È facile intendere quali fossero i discorsi di quei tre spiriti così naturalmente ricchi d’ideali bellezze e di armonie, e quante nuove immagini, parlando in quell’ora e in quei luoghi, l’uno dovesse svegliare nell’altro. Già il nostro poeta avea più volte improvvisato innanzi al Verdi. Il quale, là, in quell’antico e quasi solitario «Albergo di Roma», che ora non esiste più, soleva sedere al pianoforte, destando ognuno può immaginare quali armonie; [p. xxiv modifica]ed egli, l’ardente lucano, era stato visto impallidire, e con gli occhi al mare, alle isole lontane e al Vesuvio, prorompere in versi degni di quelle armonie. Or, durante la passeggiata di cui narravo, il Sole, concitato da quei discorsi tutti arte e poesia, compose d’un tratto quell’ottava, a cui il Verdi, col vivo della voce, fece seguire le sue note. Le compose, anche egli, li per lì; e, tornati insieme all’albergo, le scrisse, dandole per ricordo all’amico poeta. Or quella musica, con tutte le altre cose del Sole, è posseduta dai suoi eredi; e noi saremmo stati lietissimi di poterla stampare coi versi pei quali fu fatta, se gli eredi medesimi, per ragioni che pur sempre rispettiamo, non ci avessero negato il loro consenso. Ma chi sa se oggi il più glorioso fra gl’Italiani viventi si ricorda ancora del giovane poeta che gli fu sì caro, e a cui morte precoce doveva da lì a poco troncare d’un tratto il canto e la vita!

L’ammirazione ad un’altra grande arte, la scultura, gli detta il componimento «La fanciulla e l’artista»16, ch’ei chiama idillio, [p. xxv modifica]ma ch’è forse qualcosa di diverso e di più alto. Anche qui dal particolare sale all’universale, dall’opera dell’amico scultore a certi momenti supremi di ogni vero artista, ch’egli era al caso d’intendere meglio che altri. Notevole quel luogo dove ritrae il Busciolani che, ispirandosi alla vista del golfo di Napoli, ideava la sua «Immacolata»:

Al di là di quei cieli una raggiante
    Forma ei segue rapito, una divina
    Visïon, cui non giugne uman sembiante.

Ben può l’alma ispirata e peregrina
    Il suo trepido vol mover più lieta
    Per quel riso di cieli e di marina;

Ma ben altra, oh ben altra è la segreta
    Luce che ride al giovinetto artista;
    Altra de’ suoi pensosi occhi è la meta.

Così mentre talora il citarista
    D’armoniosi accordi empie le sale,
    Più lena il vate poetando acquista,

Benchè fatto straniero a la vocale
    Onda che intorno gli ricorre e freme,
    Verso ignoti paesi agiti l’ale.


Il poeta, interpretando qui con piena consapevolezza l’intimo dello scultore, descrive insieme ciò che tante volte era avvenuto, lui più o meno inconsapevole, dentro se stesso. [p. xxvi modifica]E paragonando l’efficacia delle bellezze naturali sullo spirito, nel momento dell’ispirazione, agli effetti che sopra lo stesso fa la musica, viene a significare con nuova e lucente immagine la strettissima parentela che lega fra loro i cultori delle arti sorelle.

Ed anche alle supreme regioni dell’arte egli si leva narrando la «Storia di una perla»17. Se non che, qui l’idea è meno profonda e più indeterminata, e quasi svanisce nella rappresentazione; la quale supera poi per certe qualità estrinseche gli altri componimenti della stessa specie, di cui ho sin ora discorso.


VII


Non tutte però le nuove poesie hanno soggetti di tanta altezza; molte, anzi, sono di argomento vario e più o meno pregevoli, secondo la natura del medesimo, e, ancor più, secondo il tempo in cui furono scritte, essendo evidente il continuo avanzar dell’autore nel magistero dell’arte. In alcune, è precipua [p. xxvii modifica]bellezza quella del verso, come parmi sia il caso delle liriche: «La Vita»18, «Le nozze e la tomba»19, «L’Orfano e il cielo»20, «Il Cocchio»21, «La Pescatrice»22; in altre, il medesimo pregio è congiunto a gran gentilezza di affetti e di immagini, come si vede segnatamente nell’idillio «Le due madri»23. Migliori poi fra tutte mi sembrano quelle che cantano l’amore: un amore potente che al poeta faceva tremare le vene e i polsi e che derivava nuovi ardori e nuovi stimoli dalla vista di quei monti, di quei paesaggi e di quel mare stesso, onde solevano venirgli tante altre ispirazioni. Così nulla di convenzionale, nè d’imitato, ma tutto è verità nel sonetto: «Rivederla», e verità insieme e passione nella saffica: «Un’ora»24. Qui, dal [p. xxviii modifica]paesaggio medesimo esce come un caldo soffio di voluttà; e intorno al giovane e alla fanciulla, con la quale, abbracciato dentro una barchetta, egli percorre il mare, tutto par che frema di amore e alle interne fiamme aggiunga nuovo alimento. Ne rimase come una visione divina al poeta, che la ricorda poi alla stessa donna amata:

    Io del mio braccio ti cingea la vita,
        Tu su l’omero mio ti abbandonavi,
        E tutta in vaghe fantasie rapita,
                    Cieli ed acque miravi.

    Dei tuoi capelli il fulgido tesoro
        Scotean, come per vezzo, a ciocca a ciocca
        L’aure marine, e mi velavan d’oro
                    Profumando la bocca.

Non ci sembra poi che abbiano lo stesso pregio di questa poesia amorosa quegli altri [p. xxix modifica]canti dove sono descritti affetti di diversa natura. Manca loro sovente quella novità d’immagini e freschezza di tinte che abbiamo sin qui ammirate. Se si restringe a significare immediatamente le proprie angosce, il poeta desta sempre qualche moto nei nostri cuori: così, per esempio, gl’interviene nella saffica: «Ad una stella»25, dove, con presentimento che pur troppo doveva esser verace, esclama:

    Ma poco, il sento, fermerò le piante
        Di qua dai cieli peregrin romito:
        Fra poco solcherò l’onda sonante
                    De l’infinito.

Ma quando dell’umano dolore cerca il significato universale, allora egli rimane non di rado inferiore a se stesso. Talvolta, contristato dai propri affanni, chiede soccorso alla fede cristiana, contrappone anzi questa al dubbio e alla negazione, onde tanti cuori gentili piansero ai nostri tempi; ma non sempre ottiene gli effetti sperati. Il [p. xxx modifica]vero sentimento religioso par che gli manchi: gli manchi e come palpito di un cuore a cui basti amar senza fine ciò che non vede e non intende, e come amore intellettuale che, penetrando nei misteri della vita e del mondo, sublimi e acqueti insieme lo spirito. Di fatti, in parecchi componimenti di cotesto genere, la fede ch’egli rappresenta come consolatrice suprema dei grandi infelici, non è, per mio giudizio, se non un’idea astratta e scevra di quanto le sarebbe occorso per entrar vittoriosa nel campo dell’arte. Ah! la fede «ai trionfi avvezza», ne aveva già avuti, ai tempi nostri, di così memorabili anche nei regni della poesia, che non ci è più possibile ammirarla in quelli, quando la sentiamo in noi men gagliarda, men ricca di umanità e men fortunata ispiratrice di cose grandi che non siano le altre forze della vita da essa diverse.

Così, quasi tutti questi componimenti di argomento religioso sono forse i men buoni di quanti altri il Sole ne abbia mai scritti.26 In essi c’è il più delle volte quella [p. xxxi modifica]specie d’arte che le proprie forme deriva non tanto dalla natura medesima del proprio soggetto e dalle potenti impressioni che questo abbia fatto nell’ispirato poeta, quanto dalle forme tradizionali e convenzionali del genere preso a trattare. Per tal guisa c’imbattiamo qui di continuo in quelle immagini della Bibbia, che in questa del nostro autore, allo stesso modo che in altre poesie moderne, stanno talvolta come piante non attecchite in terra straniera.

Se dovessi poi indicare un’altra specie di poesia dove il nostro autore neanche ottiene i maggiori effetti, ricorderei quella di argomento orientale, che, sugli esempi principalmente del Byron, fu tentata allora da molti, e quasi sempre con infelici risultamenti. Di fatti, nella novella, rimasta incompiuta, di «Selim Bey»27, benchè [p. xxxii modifica]leggiadrissima di forma e ricca dei colori più accesi, manca il vero Oriente, e gli amori e i caratteri umani e tutti i loro atteggiamenti sono poco o punto diversi da quelli veduti e descritti dal Sole in Napoli e nella sua nativa provincia.


VIII


E spesso tutto ciò è bello, ma non è precisamente quel bello che s’intendeva ritrarre. Ciò che gli splendeva allora nella fantasia, non era stato mai visto sensibilmente dal poeta, non mai potentemente sentito. E qui dunque la sua arte, benché mirabile per alcuni rispetti, non ha quelle medesime radici, onde la vedemmo crescere rigogliosa nei molti componimenti dov’egli cantò le proprie passioni e quelle grandi idee civili ch’ebbe comuni coi cuori più generosi del suo tempo.

[p. xxxiii modifica]Di cotesto ultimo genere recai già alcuni esempi insigni; ne recherò ancor un altro che fa testimonianza dell’amore che il Sole portò alla Grecia: amore non dissimile da quello che condusse il Byron ad una morte, la quale, non meno dei canti sublimi, ne perpetua e fa cara la memoria in ogni parte del mondo. Alla Grecia pensò fin dalla sua prima giovinezza; ad essa ritornò sempre con la mente quando le tempeste della vita gli rugghiavano intorno; e anche ad essa, non molto innanzi di morire, indirizzò nuovi bellissimi versi. E di questi io mi rammentavo testè, respirando appunto quelle sacre aure e ammirando quei luoghi e quei monumenti che fanno ricordo della più grande storia umana. Nessun maggior diletto che il sentirsi ridestar nel cuore gli accenti della più bella poesia antica e moderna, nei luoghi medesimi da esse celebrati. Oh il ripetere quegli accenti mentre lo spirito vede rivivere innanzi a sè ciò ch’è morto da secoli! Nè, fra i numerosi miei ricordi poetici, mi parevano i meno eloquenti questi del Sole; che, anzi, per certa conformità dei suoi sogni con quelli della mia prima giovinezza, io potevo [p. xxxiv modifica]dar forma al mio pensiero coi medesimi suoi versi:

             Oh Grecia! Oh come
     Altra volta esultai nella speranza
     Di vagar su’ tuoi monti e consolarmi
     De’ tuoi limpidi soli! Oh come forte
     Il cor batteami al desolato carme
     Del britanno cantor, che lamentava
     Te fortissima donna estinta e bella!
     E quante volte dalle bruzie rupi
     Con insania d’amante il guardo intesi
     Lontan lontano oltre i cerulei campi
     Di questo mar come a vederti28.

Lo stesso mi accadde vedendo sorgere dalle acque, ancor più luminosa che non me la fossi mai figurata nel pensiero, Zante; quella Zante che si specchia nell’onde

     Del greco mar, da cui vergine nacque
     Venere, e fea quell’isole feconde
     Col suo primo sorriso.29


Oh nido di pace, a cui il Foscolo, esule e [p. xxxv modifica]stanco e senza più speranza di rivederti, volgeva come l’estremo addio!

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra: a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura30.

E anche qui, interpretando insieme il dolore del poeta zacintio e di quanti italiani rammentano l’errante ed affannosa sua vita, ripetevo col Sole:

                  Nè di te mi prese
Men fervida vaghezza, Isola d’oro,
Fior del Levante. S’io mertassi ancora
La triste gioia d’esular dal mio
Fosco Appennino e mendicar straniera
Libera tomba, a te, bella Zacinto,
L’ossa darei. Questa speranza invano
Sorrise alla fremente anima d’Ugo
Che dalle nebbie di Britannia antica
Ai tuoi fiori anelava e ai tuoi vigneti,
Difensor delle tombe egli una tomba
Nel suol non ebbe ove sorti la culla,
Nè sulla terra del suo lungo amore.31


Nicola Sole ebbe da natura ingegno fervidissimo e mirabilmente atto a reiterare in [p. xxxvi modifica]sè e rendere nell’ispirata parola tutte le impressioni che gli venissero dalla vita e dal mondo. Ma le facoltà fantastiche e pittoriche sovrastarono in lui a quelle più propriamente creatrici; e della disuguaglianza sono evidenti i segni nella maggior parte dei suoi scritti. Il più delle volte l’artista prevale al poeta; ma poiché si tratta di un artista veramente insigne, così le sue dipinture riescono sempre di grande efficacia sui nostri cuori. Circa le varie attitudini di quell’ingegno e dei suoi primi ondeggiamenti tra idee e maniere poetiche diverse, ho già discorso poco avanti. Qui, considerandone l’arte nei suoi caratteri più generali, aggiungerò che ad essa furon proprie le forme più ampie, più splendide e più ricche di armonie e di colori. Tali forme eran quelle che meglio potessero corrispondere ad un ingegno così ardente e bramoso di manifestarsi al mondo con tutte le sue estasi e tempeste interne, di versare in ogni suo canto tutta la piena che gli ferveva dentro. E, chi ben noti, ravviserà tali forme anche in mezzo a quegli ondeggiamenti del Sole fra tipi diversi, che, nel suo primo periodo, [p. xxxvii modifica]parrebbero avergli dovuto impedire una maniera tutta propria di ritrarre i moti del cuore e gli aspetti della natura.

Ma qui mi accorgo che, così dicendo, mostro di non concorrere del tutto nell’opinione del De Sanctis, a cui non parve che il nostro poeta avesse avuto un contenuto e una forma di arte tutta sua32. Certo il grande Maestro fu in questo un po’ troppo severo. Dal solo fatto che quasi tutte le liriche del Sole furono di occasione e quasi tutte ritrassero impressioni varie, rapide e mutabili, non si potrebbe davvero inferire ch’esse non fossero poesia vera e altamente ispirata. Tanta parte dei più sublimi componimenti poetici di ogni tempo, dalle odi pindariche al «Cinque maggio», furono di occasione; e, in ogni modo, la mutabilità di concetti e di forme non esclude che per entro gli uni e le altre si possa trovare qualche cosa di proprio e di costante onde il poeta abbia [p. xxxviii modifica]sempre continuato ad affermare se stesso. E già nella maggior parte dei versi del Sole, specialmente in quelli scritti dal 1848 in poi, è manifesta, e, direi, viva e parlante una perfetta fraternità di affetti e di sembianze, che non sarebbe possibile se nel loro autore non ci fosse stata unità di coscienza poetica. I criteri qui tenuti dal De Sanctis sono tali che, applicati a rigore, varrebbero a toglier pregio anche a quei poeti non sommi, ma sempre insigni, i quali, pur non arricchendo di nuove immortali creazioni il regno dell’arte, poterono e seguono a potere non poco sul cuore degli uomini.

Del resto, nel sommo interprete della nostra letteratura la teoretica severità fu come vinta in questa occasione da un finissimo sentimento d’arte, per il quale egli giunse ad affermare che il Sole ha pur brani di vera e nuova poesia. E anche così, non sarebbe poco. Perchè, di quanti altri che abbiano scritto versi potrebbesi dire altrettanto? A quanti, anche fra i più celebrati in vita, è poi consentito di lasciare al mondo una pur piccola orma di se stessi? Nè inutile è il notare che il De Sanctis medesimo avrebbe, [p. xxxix modifica]secondo ogni probabilità, conceduto al Sole anche più che non concesse, se di lui avesse potuto legger tutto; il che non mi pare gli venisse fatto, poiché non vedo ricordate nelle sue lezioni parecchie delle più belle liriche, di quelle specialmente d’indole amorosa e tutta personale, che fu uno dei generi appunto in cui il nostro poeta si mostrò più ispirato e più vero.

Tornando alle osservazioni interrotte sulle qualità proprie del Sole, dirò che in tutte le sue cose e segnatamente nelle migliori, egli ha non poco del Monti; e al Monti si rassomiglia anche non imitandolo a dirittura e non prendendone concetti ed immagini particolari: il che conferma essere stata in lui naturale quell’ampia maniera di concepire e rappresentare, a cui ho accennato. E a tutti è facile accorgersi come egli, pur facendoci ricordare spesso del Monti, splenda di luce propria e ottenga i più egregi effetti con quelle onde d’immagini e di armonie, che s’inseguono e s’insinuano l’une nelle altre, e soprattutto con quel non so che di giocondo, di festivo e di giovanile che echeggia da ogni sua parola. [p. xl modifica] A cotesta sua nativa disposizione sono del tutto conformi quelle teoriche di arte che mise fuori in parecchie occasioni. Dedicando a sua madre la novella «Selim-Bey», diceva: «Narro poco, e tento di descrivere molto; persuaso che nella novella poetica la tela degli avvenimenti debba essere semplicissima e di larga e facile trama, per lasciar luogo ai ricami, per così dire, della poesia»33 Probabilmente scriveva in tal modo avendo innanzi gli esempi dei poemi del Byron, senza però avvertire che quivi l’intrinseco non è meno ampiamente ritratto dell’estrinseco, e che la duplice descrizione è volta anch’essa a crescer forza al movimento drammatico di tutto il componimento. In ogni modo, quello che più importa di notare al nostro proposito, si è che la norma ch’ei dice voler tenere nella novella, è, a un di presso, quella medesima che tenne in ogni altro genere di componimento.

Descrisse sempre quanto più largamente e splendidamente potè; spesso anzi finì coll’abbandonarsi ai flutti delle immagini [p. xli modifica]che l’oggetto della sua ammirazione gli suscitava dentro, e quasi col dimenticar questo per quelle. Le non poche volte che si tenne stretto alle immediate impressioni delle cose belle e grandi, riuscì potente non meno sul cuore che sull’orecchio; quando, invece, volle dar forma a tutte le altre innumerevoli impressioni rampollanti da quelle prime, non schivò i difetti propri della poesia descrittiva, non potuti schivare neanche dal Monti, che pur fu il maggior maestro che ne abbia avuto l’Italia nei secoli moderni.


IX


Il Sole con tutti quei difetti che si possano trovare nei suoi versi, lascia non soli brani, ma interi e ampi e numerosi documenti di vera poesia, degni di essere ricordati per sempre. Ricordati più specialmente in quella parte d’Italia, che si vanta di avergli dato i natali, e che egli amò d’insuperabile amore. Pochi scrittori ebbero così costantemente nel cuore e sulla bocca la contrada nativa, come vediamo aver fatto [p. xlii modifica]il nostro poeta. La Lucania fu per lui come il centro dei suoi pensieri; da lei pigliava sempre le mosse, a lei, per quanto se ne fosse dilungato, assiduamente tornava. E ne traeva lena e coraggio per ogni nuovo ardimento, e vi cercava la pace e l’oblio di ogni nuovo dolore. Di così nobil patria cantò il glorioso passato, poi il breve risorgimento; e all’ultimo, nei tristi tempi che a questo seguirono, le predisse il più lieto avvenire.

E come la storia gloriosa, così volle ritrarne le bellezze e gl’innumerevoli doni onde l’era stata larga natura; per tal modo i monti, i fiumi, le rive, le pianure e le balze native passano e ripassano incessantemente per entro tutte le sue visioni. Quanta nuova dolcezza di affetti e di suoni egli ha per i luoghi dove nacque e dove godè e patì come amante, come patriotta e come artista! Di che bei nomi onorò e di che nuova luce rivesti tutto ciò ch’è terra lucana, cielo lucano, monti lucani e spettacoli lucani! E spesso, quando nei suoi versi sono introdotti personaggi o storici o ideali a significar un tanto amore, è pur sempre lui, in fondo, che parla. È lui quell’angelo del passato [p. xliii modifica]che, come aquila offesa, raccoglie il volo sul «Vulture fatale» e «a larghe ruote» esplora i colli e i piani d’Agri e di Sinno!34 È lui il «Viggianese»35 che, dopo il terremoto del 1857, erra per varie genti, sospirando le balze native, come nel suo proprio nome il poeta le sospira nel bellissimo «Salmo» sul medesimo flagello!36 Benedetto quel cuore, benedetto quell’immenso amor patrio, da cui viene alla sua figura come una luce e alla sua poesia come una virtù di cui nessuna critica, nessun mutamento di gusto, nessuna moda letteraria presente o futura potrà privarla giammai.

Una vera sintesi di tutti i suoi pensieri è quell’apostrofe al suo paese:

                  Come sei bella,
Terra de’ forti, or che distende il cielo
Un manto azzurro su le tue montagne,
E nel suo riso la recente luna
I tuoi boschi inargenta! A me diletta
Ride ogni itala zolla: eppur le tue
Aure bebbi vagendo, e nel tuo seno
Dormono i padri miei. Tutto a te diede

[p. xliv modifica]

Clemente il cielo: le montagne e i mari,
I vulcani e le nevi, il fosco abete
E l’aureo pomo orïental, franati
Brulli dirupi ed ondulati piani
Ricchi d’alberi e d’acque e di verzura,
E pampinosi poggi, e lauri, e tutto!
Ed i tuoi figli, rispondenti al suolo,
Ne la battaglia eroi, soavi al canto,
Ed atti al grave meditar profondo.

E ancor io con questi versi saluterò quella terra che oggi ha tanti figli fra coloro che più onorano la comune patria italiana: nobile terra che, come sento dal mio cuore stesso, infonde un particolar amore anche ai figli di quell’altra non men gloriosa regione che le siede a mezzogiorno e che l’Jonio abbraccia con essa, quasi due sorelle, in un medesimo amplesso.

Portici, novembre 1895.


Il numero delle poesie di Nicola Sole, che volevamo pubblicare da principio, era alquanto minore di quello che or viene alla luce. Ma fummo poi indotti a largheggiare sempre più nella scelta da due ragioni: l’affetto ognor crescente verso il [p. xlv modifica]poeta che seguitavamo a studiare, e il pensiero di far cosa maggiormente grata ai generosi promotori di questa pubblicazione. Due ragioni codeste che i lettori cortesi ci meneranno buone. Certo, ciò che pur di soverchio si potesse trovare (ma non crediamo sia questo il caso nostro) nell’amore verso quelli che, senz’aver mai fatto alcun male, fecero invece molto onore al proprio paese, non dovrebbe parer davvero ai nostri giorni una delle colpe più imperdonabili! Piuttosto vorremmo scusarci di ciò che, aggiungendo altri componimenti a quelli scelti da principio e già stampati, non abbiamo più potuto continuare in quell’ordine cronologico che, cominciando, ci eravamo proposto. Ma l’inconveniente non è grave; perchè di ciascuna poesia, salvo di quelle pochissime per cui non ci riuscì di trovarla, segnammo con tutta precisione la data o nel testo o nella nostra prefazione. Gli avveduti lettori faranno il resto e si ciberanno da sè medesimi, come pur d’ordinario sogliono fare badando più alla sostanza delle cose che non a molte di quelle piccole cure e industrie, con cui spesso autori ed editori credono accrescere smisuratamente il pregio dei loro libri.

Note

  1. Qui non posso indugiarmi a narrar la vita del nostro poeta, anche perchè spero che fra non molto sarà scritta da altri con quella larga e compiuta conoscenza delle cose, che a me manca e che non potrebbero dare i cenni, per quanto importanti, che parecchi ne hanno fatto sin ora. Cito, ad esempio, gli articoli di Achille de Clemente: Della vita e delle opere di Niccola Sole, che l’Omnibus riprodusse dal Paese nei suoi numeri degli 8, 11, 15, 18 e 22 febbraio 1860, e la brevissima notizia che se ne legge nella: Nuova Crestomazia italiana per le scuole secondarie... compilata tenendo presente quella di Giacomo Leopardi da Carlo M. Tallarigo e Vittorio Imbriani. Napoli 1885, vol. IV, pag 887 e segg.
  2. A pag. 195 di questo volume. Venne alla luce in una strenna pel capodanno del 1842, intitolata appunto il «Menestrello», e che, oltre ai componimenti di molti scrittori, ha in principio una lettera dedicatoria a Basilio Puoti e la risposta del medesimo. — Come ora del Menestrello, così daremo, anche in questa prefazione, la data di molti altri canti che non l’hanno nel testo. Ne rimangono pochi pei quali non ci è stato facile trovarla.
  3. L’Arpa Lucana: canti di Nicola Sole, Lucania, stabilimento tipografico di V. Santanello, 1848. Contiene, oltre una prefazione Ai generosi figli della Lucania, i seguenti canti: L’Arpa lucana, Al mare Jonio, Alle Donne lucane, Ai Siciliani, Alla Guardia nazionale, La Guerra, Il Tramonto, L’Alba, La Guida, Amore e destino, Il Fiore del cimitero, Ad Alfonso Lamartine, Il Rosignuolo, Il Veterano patriota, Le Nozze, I Crociati, La Patria e l’Amore, Perdono e pace, La Bolognese, Il Gondoliere veneziano, Il Beccaio di Padova, Dante a Pio nono, Gentilesimo e Cristianesimo, Il Bello, A re Carlo Alberto, Al cittadino Alfonso Lamartine, A Vincenzo Gioberti, All’Italia. — Per la qualità del soggetto e dei sentimenti ed anche per il tempo in cui fu scritta (dicembre 1848), può considerarsi come appartenente a questa prima famiglia di poesie anche quella: Sulla tomba di Alessandro Poerio (pag. 244).
  4. Prefazione all’Arpa Lucana, pag. iv.
  5. Pag. 22.
  6. Pag. 28.
  7. . Questo canto (pag. 1) e l’altro Al Rosignuolo (pag. 150) li abbiamo dati, com’era giusto, quali l’autore li ripubblicò nella raccolta del 1858.
  8. Lettera del 25 settembre 1859, indirizzata al nostro poeta.
  9. Cadde, come ognun sa, in quella famosa giornata del 15 maggio 1848. Nella fine di questo volume abbiamo ristampata in appendice la prima commemorazione che a noi medesimi toccò l’onore di farne a Napoli nel 1884.
  10. Notevole fra queste è quella intitolata: Memor, La fine di un regno dal 1855 al settembre del 1860, con prefazione di Raffaele de Cesare, Città di Castello, 1895: opera ricca di nuove e importanti notizie storiche e scritta con rara serenità e temperanza di giudizi.
  11. Fanno parte dei Canti di Niccola Sole, Napoli, pe’ tipi del cav. Gaetano Nobile, 1858. Questa seconda raccolta, con pochi canti della prima, corretti o rifatti, ne contiene parecchi altri nuovi, pubblicati parte separatamente sino a quell’anno, e parte qui per la prima volta. Eccone l’indice: Prefazione, All’illustre economista comm. Lodovico Bianchini, Pel Tremuoto in Lucania, Al mare Jonio, La Storia di una perla, La Tomba del Poeta, Al Rosignuolo, Ad un ramo di mandorlo, La Vita, La Donna e l’Amore, A Psiche, L’Orfano e il Cielo, Le Due Madri, Al Sepolcro di un Amico, Pensieri poetici sulla eloquenza del Foro Penale, Addio a Giuseppe Verdi, Rivederla, Le Nozze e la Tomba, Per l’Albo di Vincenzo Baffi, A G.S.V., Ad un illustre Ecclesiastico, A S. Luigi Gonzaga, La fanciulla e l’Artista, Selim Bey, Il Viggianese.
  12. Stampato separatamente nel 1858, e dedicato alla nobil donna Eugenia Monnier, sorella di quel Marco il cui nome suona sempre così caro ad ogni figlio dell’Italia nostra, ch’egli amò e onorò come una seconda patria. Anche quella breve dedicatoria è degna di essere qui ricordata: «A voi, gentilissima figlia delle Alpi; a voi, giovane e bella peroratrice di ogni concetto che si riferisca alla nobiltà delle umane fortune; a voi consacro, con lieta e timida riverenza, questi poveri versi, nei quali io mi proponeva salutare vittoriosa la più sublime audacia del pensiero dell’uomo».
  13. In questa, ch’è pure l’opinione comunemente accettata, mi piace veder concorrere un così fine conoscitor di poesia, qual fu lo Zanella, il quale accennò anche all’imitazione dell’Aleardi, non avvertita ancora, ch’io sappia, da nessun altro. «Nicola Sole (egli scrisse) supera di gran lunga tutti gli altri (poeti napoletani) per certa elaborata eleganza di verso, che piacque all’Aleardi di imitare. Il suo canto al Mare Jonio e i Pensieri poetici sulla eloquenza del foro penale hanno tratti stupendi di novità e di splendore. Il Sole nato nell’antica Lucania ha cantato con vigore dantesco l’ultimo tremuoto che sconvolse quella infelice provincia». (Storia della letteratura italiana dalla meta del settecento ai giorni nostri per Giacomo Zanella, Milano, 1880, pag. 253).
  14. A pag. 90 del presente volume. Il canto che vien poco dopo (pag. 96) A G.S.V., è indirizzato, come dagli accenni che vi si fanno al Verdi s’intende facilmente, alla gentil signora del famoso Maestro.
  15. Pag. 288: è del 1858.
  16. Pag. 102: è del 1857.
  17. Pag. 39.
  18. Pag. 157: del 1856.
  19. Pag. 160: del 1857.
  20. Pag. 166: del 1852.
  21. Pag. 232: dalla Strenna Vulture, 1850.
  22. Pag. 283: dalla Strenna Mergellina, 1855.
  23. Pag. 57: del 1857.
  24. Questa poesia, (pag. 168) e l’altra Sorrento o Torquato Tasso, (pag. 177), dovevano far parte (dice il De Clemente) d’un poema intitolato il Golfo di Napoli, che il Sole aveva cominciato a scrivere negli ultimi cinque mesi di sua vita. Ci pare probabile, per il suo soggetto e per la natura dei sentimenti ond’è informata, che dovesse farne parte anche la poesia: Torre del Greco, che qui abbiamo posto fra quelle due (pag. 175). — Aggiungiamo che i componimenti citati in questa nota, come quasi tutti gli altri non compresi nelle due raccolte del 1848 e del 1858, li abbiamo avuti, parte stampati in vari giornali e parte in copia manoscritta, dal bravo giovane Paolo De Grazia, già studente della Facoltà di filosofia e lettere nell’università napoletana, ed ora insegnante nel Ginnasio di Acerenza in Basilicata. Anche dal De Grazia ci vennero molte notizie bibliografiche che ci occorsero per il presente lavoro; ed ora di tutto ciò vogliamo cordialmente ringraziarlo.
  25. Pag. 192: scritta nel 1859. Del medesimo anno sono, anche secondo il De Clemente, alcune altre poesie che abbiamo ristampate nel presente volume, cioè: Il Negro (pag. 189), Il primo cadavere (pag. 200), Al mio salice (pag. 205), Ad Emma (pag. 225).
  26. Ricorderò, fra le poesie di questa specie, Il Carmelo (Napoli, tipografia Raimondi, 1844), che forse è la migliore di quante il Sole ne abbia scritte nei primi suoi anni; l’inno a S. Luigi Gonzaga (1857); l’altro inno a Maria Immacolata, preposto alla versione del Cantico dei Cantici, e cotesta versione medesima (Napoli, stamperia del Vaglio, 1855). Tali poesie si leggono, rispettivamente a pagg. 161, 273, 279 e 313.
  27. Come ci pare evidente dalla copia manoscritta che ne abbiamo avuto sott’occhio, l’autore, anche di ciò che aveva composto, non corresse altro che quella parte che diede quasi del tutto rifatta nell’edizione citata del 1858; e noi, com’era nostro dovere, ci siamo ristretti a pubblicare questa soltanto. È dedicata, con un’affettuosissima lettera del giugno 1857, a sua madre Raffaella Dursio.
  28. Epistola a Giuseppe De Blasiis, pag. 209. Fu scritta il settembre del 1857, come si rileva dallo stesso autografo.
  29. Foscolo, Sonetto: A Zacinto.
  30. Son. cit.
  31. Epist. cit.
  32. Lezioni sulla Letteratura in Napoli, fatte l’anno 1873 in questa Università, raccolte con molta diligenza dal chiaro prof. Francesco Torraca, e pubblicate in appendice del giornale Roma. Nei numeri 2, 3, 9 e 10 marzo dell’anno medesimo sono le lezioni XII e XIII che riguardano il nostro poeta.
  33. Canti di Niccola Sole, Napoli, 1858, pag. 118.
  34. Al mare Jonio.
  35. Pag. 138.
  36. Pag. 33.