Canti (Sole)/Pensieri poetici sulla eloquenza del foro penale
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PENSIERI POETICI
sulla
ELOQUENZA DEL FORO PENALE
epistola a federico castriota scandenberg
Per le vaghe colline, ove perenne
Sorride aprile e degli aranci al rezzo
L’aure Flegrèe la voluttà respira;
In riva al mar, già periglioso albergo
D’incantatrici eterne, oggi tranquillo5
Lavacro e specchio a fuggitive, è vero,
Ma più care sirene e più gentili;
Sotto codesto ciel sparso d’amore
E di luce infinita, ove che movi,
Federico, ti arrivi il mio saluto.10
Nè solo il mio; chè di gagliardi affetti
Spontanea messe ti ricresce in queste
Balze Lucane da quel dì che forte
Perorator qui nel forense agone
Invocato scendevi, a la sventura15
E a la calunnia contrastando i giorni
Di bennato captivo ed innocente.
D’inique ombre involuto avean quel capo
La menzogna e l’error; comminatrice
Di quadrilustre affanno, omai sfrenate20
Le vindici saette avea l’accusa.
Ma come franca progredia la tua
Voce possente, resolute in giro
Ivan quell’ombre riperdendo il campo:
Per che, rorida ancor d’immeritato25
Pianto ed effusa di pudica gioia,
Trïonfatrice l’innocenza apparve.
Così quando l’acuta aura serena,
Che vola innanzi al dì, per l’eleganti
Ville i vapori della notte investe,30
Splendida e bella d’immutabil riso
Marmorea Ninfa da le nebbie emerge
Sul suo candido stallo, e rugiadosa
Vagamente balena incontro al sole,
Che d’un roseo pudor tempra le nevi35
De le nitide forme. Un prolungato
Plauso trascorse le propinque sale,
Precessor de la gioia, onde rifulse
La magion di colui che non indarno
Confidò nel tuo senno. Oh non per anni,40
Nè per eventi obblïerò quell’ora,
Che te, fervido ancor de la durata
Tenzon, contenni fra le braccia, e ardenti
Baci al tuo labbro aggiunsi, ove peranche
Quasi in arpa che cessi, ivano gli echi45
De la vittrice concïon fremendo.
Nè valse il suon de la benigna lode,
Di che degnavi confortar fra gli estri
De la ringhiera il mio rimesso ingegno,
Ch’io te d’invidia generosa e casta50
Non proseguissi in quell’istante: eppure
Fra le poche memorie, onde talora
Mi consola il passato, al pensier mio
Più ricorre quest’una, o Castriota!
II
Sublime, umano, e glorioso aringo55
È l’aringo che tieni, ed onoranda
È la corona che recinge il crine
Del forense orator. Che se d’immonda
Polve soventi ne bruttò le foglie
L’irreverenza de’ maligni, or quale60
Arte tant’onta non sostenne? Ed anco
Le sante aule del Foro avida invase
Barattiera genia, che, dissacrando
Quanto v’era d’augusto, esca profferse
A l’ironia de’ petulanti; e dessa65
D’ogni umano instituto è la vicenda.
Ma quel prisma vocal, che del creato
Riflette il vario interminabil riso,
Ma quel tesor d’innoverati suoni,
Quella misteriosa eco ispirata70
Che de l’affetto e del pensier seconda
A le arcane armonie, ma la parola,
Ma l’umana parola oh! di che vera,
Di che viva virtù sfolgora allora
Che dai rostri prorompe! Agitatrice75
Ed agitata insiem, più che sonante
Effusïon d’un cor, cui nieghi il fato
Rivelarsi ne l’opre, opra sublime
Viene allor la parola, e alteramente
Fra l’ire alterne del conflitto esulta.80
Semplice e mesta da la bocca emerse
Del colpevol primier, quando i chiomati
Boschi e le rupi balenár dinanzi
A l’offeso Jehòva: e disperata
E selvaggia scoppiò da le frementi85
Labbra del fratricida, allor che il sole
Mirò da l’alto impallidir la prima
Umana vita, e de la morte i regni
Vïolò giovinezza. E sì per lunga
Serie di tempi da la mente inferma90
De l’accusato la difesa uscia
Sola, tremante e scapigliata, e spesso
Convulsa e fioca tramortia nel pianto.
Ma come la crescente alba del senno
Investendo venia l’are inclementi95
De la Nemesi umana, ivan benigni
Riti ai severi sottentrando, e parve
Oltraggio al dritto e a la natura insieme
Indir pacata signoria di mente
A chi travolto da spavento estremo100
Fra gli ergastoli ondeggi e la bipenne.
Peroratrice la pietà fraterna,
Per man traendo il catenato, assurse
Sovra i banchi del foro, e a l’infecondo
Ululato de’ rei chiara, potente,105
Affettuosa sorvenia la voce
Degli oratori. Sospirò pensosa
La punitrice Dea sulla ricurva
Curule eburna: ne la man divina
Talor si spenser le saette, e quando110
Necessitata folgorò, men dure,
Perchè pugnate in generoso campo,
Parver le pene; e de le genti il grido
Di terra in terra salutò la luce
De l’Eloquenza che dal foro ha nome.115
III
Pura, come le dive arti sorelle,
Che sull’Ilisso radïar d’eterno
Ingenuo riso, la facondia Greca
Divinamente scongiurò gli strali
De l’assidua e severa Attica Temi.120
Nuda in mezzo ai plebei tumulti errante
Pericle la rinvenne, e di modesto
Candido peplo la velò. Quel grande
Maturator di secoli civili
Ad ogni allor concittadin preferse125
Le caste fronde che la patria intreccia
Alla facondia de’ suoi figli. Esperto
De’ più gentili e de’ più maschi affetti,
Ei lungamente dubitar fu visto
Pria che fra gli aspettanti archi del foro130
I suoi riposti ammonimenti aprisse.
Ossequïoso il popolo traeva,
Come a pubblica festa, in sull’arena
De’ banditi Comizi: e la fanciulla
Atenïese con intenti sguardi135
Parea seguisse i fulmini cadenti
Da la tribuna: i rapidi risalti
Del colmo sen, le immote labbra schiuse
In lieve arco di porpora, e le nari
Irrigidite di gentil fierezza140
Rivelavan l’ardor de la rapita
Ascoltatrice; e, se parola alcuna
Mal redolente d’Attica fragranza
La venisse a ferir, le balenava
In un vezzoso corrugar di ciglia145
L’ira segreta. Oh begli anni di Atene!
Oh perchè, Federico, oh perchè mai
Chi bruscamente il limitar del foro
A le Grazie contende, a quei felici
Anni un guardo non dà? Se la moderna150
Ricrescenza del senno e la superba
Virilità de’ tempi indi ogni vezzo
Volgono in fuga, ove ragion si accampi
Rigida e sola, or non ha forse il Vero
Le sue splendide forme? E forse il sole,155
Perchè tante propaga onde di luce,
Men bello pe’ celesti archi vïaggia?
E i deserti e le rupi e i nembi or forse
Non hanno anch’essi una beltà natia,
Parte di quella, onde al creato arrise160
L’Artista eterno, e che diversa move
Pe’ circoli degli astri, in su i fecondi
Verdi pianalti, e i petali inazzurra
De la pudica violetta, ond’ebbe
Molli corone la feconda Atene?...165
Ai bei giorni d’Atene il Bello e il Vero
Reggean concordi la scïenza e l’arte
Di quel popol mirando; ed una idea
Semplice e pura circolò ne’ marmi
Del Partenon, fra codici vegliati170
Degli Attici pensanti, entro la lira
De’ rapsodi e sul tripode inaccesso,
Onde lanciava le saette ultrici
L’austera Diva a cui fu tempio ed ara
L’Areopago. Ivi, com’oggi, ancora175
Venian disdetti i teneri responsi
De l’oracol del cuore, e di più salda
Egida mai non si coperse il petto
La giustizia de l’uomo: e nondimanco
Come splendida allor movea la voce180
Degli oratori! Eran di noi men saggi
Quei vetusti divini? E ov’è chi vanti
Di Demostene il senno? A chi fu largo
Di così poderosa anima il Cielo?
Ed ei, simìle a Focïon, simìle185
Ad Eschine rival, venia tremando
De la Tribuna appiè; nè mai la cima
Tenerne osava, che le forme a lungo
Idoleggiate non avesse in pria,
Di che vestito irromperebbe il chiuso190
Suo maturo consiglio. Egli i falliti
Primi trionfi (onde cotant’ingegni
Mancan, per sempre!...) e gli organi vocali,
Mal concedenti al facile governo
De la parola, ei vinse, ei pertinace195
Idolatra de l’arte; e scoscendendo
Urlante ai venti le Mopsopie balze,
I suoi fianchi allenia. Correa soventi
Lungo la procellosa onda del mare,
E d’iterati gridi iva lottando200
Col tonante ocean. Fra l’odorate
Veglie d’Aspasia Socrate apparia
Frequente alunno, e da un purpureo labbro
Sorridendo apprendea le leggi arcane
De la facondia, onde riesca il vero205
Più amabile!...
IV
Così quegl’immortali
Sentian de l’arte; di cotanto affetto
La proseguìr! Fra noi, miseramente
Fastiditi di tutto e sol corrivi
A disertar d’ogni ultima dolcezza210
Questa pallida vita, ove più fieri
Conflagrano gli affanni, indi rimota
Ogni provvida vuolsi onda soave
Che da l’arte derivi: e, come or poco
Squallido fosse il foro, avvi chi tenta215
Le poche rose inaridir, che pure,
Se non felice, renderian men aspro
Questo campo di triboli. Se scevri
Breve schiera di eletti, o Federico,
Che di nobile culto ite onorando220
La diserta parola, oggi rissosa,
Più che pugnante, e, più che savia, astuta
Rifrugatrice d’indici gualciti,
Arida macra ed inamabil passa
L’eloquenza del foro Italo; ed ove225
Alcun memore brivido l’assaglia
De l’avito decor, tumida e impura
Esorbita, e le sale ampia dilaga
Romoreggiando; perocchè de l’arte
Sparver le dighe. Non dirò già come230
La dignità del porgere incurata,
Quasi per vezzo, or sia. Deh come ad essa
Tenean quei grandi, e in che minute prove
Spendean gli ozi solinghi! Allor sì fino
E verecondo era de l’arte il senso,235
Che s’ebbe a colpa, perorando, il braccio
Svolger dal manto. Così calmo e grave
Aristide vedrai sorger fra’ marmi
Partenopei: con una man sul petto
Contiensi il pallio, che girando a manca240
Su per la spalla il ravviluppa, e cade
In finïenti pieghe, onde traspira
Serena e mite maestà. Beato
L’occhio che il vide in quell’augusta posa
La tribuna occupar! Corporea luce245
De l’alma è il gesto; musica visiva,
Che di cadenze indefinite, e tanto
Più vëementi, le armonie feconda
De la parola: varïar con questa
Ben può per climi o per età, ma l’arte250
Ne dura eterna, com’eterno è il Bello.
V
Quando l’Attico Genio i rosei vanni
Battea fuggiasco dal materno Imetto,
E ad una ad una le Cecropie valli
Fallian di sotto al profugo celeste,255
L’Arpinate orator movea dal Tebro
A visitar, lungo l’Ilisso, i templi
De l’esulante Iddio. Postumi incensi
A la Greca Facondia ardeano ancora
Sugli altari di Rodi: ivi a dilungo260
Stette il latin visitator, gli arcani
A meditar de l’Eloquenza Achea.
Non fascinato dai recenti allori,
Di che Roma compiacque ai suoi novelli
Passi nel foro, ei ricorrea solerte265
Per le Greche città, nova cercando
Lucentezza d’accento e di pensiero
Sotto l’Attico ciel; chè inappagato
Ne’ grandissimi sempre arde il disio
De l’eccellenza. E la Romulea lingua270
Stupendamente risonò per lui
Di Doriche melodi e di profondi
Spondaici accordi; e sospirando il Greco
Pianse rapita l’ultima corona
A la gloria natal. Diversi intanto275
Volgeano i tempi, e tutto era venuto
Romano il mondo. Somiglianti a’ fiori,
Hanno i popoli anch’essi una caduca
Natia fragranza: e il popolo di Marte,
Per tanti mari e tante terre effuso,280
Quel profumo smarria, quella gelosa
Casalinga freschezza, onde odorava
Ne la sua cerchia il popolo di Palla.
Grandïosa, magnifica, superba
Sotto l’Italo allor sedea la stirpe285
Capitolina: imaginosa e svelta
L’Atenïese gioventù vagava
Sotto l’Attico ulivo: ampio, rotondo,
Maestoso e velato iva, siccome
La fulva onda del Tebro, il Tiberino290
Idïoma: versatile, fremente,
Limpido, terso, armonioso il greco
Idïoma rompea, pari a le curve
Del Cefiso correnti e dell’Ilisso.
Quindi se ben l’ausonia Arte sul tronco295
Greco tallisse, consentia fedele
Al secol novo. Arte novella a novi
Tempi conviensi, arte pur sempre, e amore,
Industre amor d’ingentilir le rudi
Spontanee gemme, onde natura amante300
L’umana vita rallegrò. Diversa
Quindi di Roma la facondia uscia
Dai sette colli, e sul Pireo diversa
Fremea la Greca.
VI
Con guerriero incesso
Demostene si avanza erto a la meta,305
Ei di quell’arte, che gli val cotanto,
Moderator possente. Indi ispirata,
Più che pensata, la sua maschia appare
Disdegnosa parola, onde tu nulla
(Sì parca sona) minuir potresti.310
Che se troppo al suo grido altri resista,
Come fiumana impetuoso insorge
Contro le dighe, gli argini sormonta,
E spumeggia, e detuona, ed è sublime
Terribilmente: ei l’anima t’investe315
Di procelloso entusïasmo, e credi,
E discredi con lui, speri, disperi,
Abborri, ami, contendi, invidi, e fremi
Di terror, di pietà: da le sue labbra
Tal aura spira che ricorda i campi320
Di Maratona, e rapida, lucente,
Fecondatrice la sua voce arriva,
Come il sol che feria le porticate
Mura d’Atene.
VII
Discoperta splende
L’ arte di Tullio, e sè medesma esalta325
D’attiche grazie circonfusa: in vaste
Dolcissime volute ondeggia, e inoltra
Blandïente ed obliqua; e se per via
In qualche scoglio inopinato offende,
Magnanima non ponta incontro ad esso,330
Ma callida il declina, o circuente
Le radici ne scalza: a volta a volta
Il sorriso o il sospir scoppiano in vaghe
Neviganti faville, e la sottile
Disperante ironia leggiadramente335
Su quei periodi trabeati aleggia:
Ma raro arde l’affetto in quel diffuso
Uniforme seren; raro, o non mai,
Nel sublime ti avvieni: ella somiglia,
L’arte di Tullio, a la ricolma luna,340
Che d’armonica luce empie le valli
I monti e il cielo.
VIII
E il popolo di Roma
Le blandizie dilesse e la concinna
Soavità di Ciceron, che seppe
Per lungo studio divinarne il gusto.345
Il mare e l’Alpi ripetean concordi
Il fragor degli applausi, onde la gente
Togata al grido rispondea del suo
Fortunato orator, che, strenuo in campo,
Sofo e Console ed Augure e Statista,350
Non disdegnava parteggiar gli umili
Studi di Roscio. Pe’ fiorenti colli
Di Tuscolo vagando iva solingo,
E ne la pace degl’irrigui clivi
Le splendide temprava auree saette,355
Ch’ei lanceria su Roma. Allor gran parte
Fu l’Eloquenza fra’ dïurni studi
De la patrizia gioventù, pugnante
Nella curia e nel campo: anch’essa un tempo,
Come la greca, errò discinta e rude,360
E i suoi giorni di gloria ebbe, e le sue
Cadute, e i suoi risorgimenti; e come
Dai sofistici filtri avvelenata
Peria la greca, così fiacca e rotta
Ne l’amplesso de’ Retori lascivi365
La facondia latina immiseria:
Fin che, travolta dall’Unnico mare,
Che dilagò l’Esperia, in mezzo agli urli
De’ barbari traenti a le vendette,
Mandò spregiata il gemito supremo.370
IX
Cupa ai soli di Roma era successa
Notte di ferro, e interminabil selva
Sconsolata dal verno era l’Occaso.
Su le rovine del sovverso Impero
Salian moli turrite, onde sdegnando375
Torser le generose aquile il volo;
Però che truce dagli aerei merli
L’avoltoio rotava occhi bramosi
Giù pe’ campi cruenti. Entro le fosche
Tombe de’ padri ricovrâr, bandite,380
L’arti latine, e sgominati i rostri
Cadeano innanzi all’Unnica labarda.
Fuor de’ suoi templi profanati errava
La giustizia polluta, e una feroce
Terribil Dea le vote are ne invase:385
Terribil Dea, che rapida, fra l’ombre,
Senz’accusa feria. L’ irte castella
Cupamente sonàr d’urla e di rauco
Sotterraneo lamento, e su nefande
Notturne stragi inorridìr le stelle.390
Così per lunga tenebrosa etade
Si tacque il foro. Senonchè segreta
In quel provvido buio ardea, covando,
Portentosa virtude. Omai rimonde
La vandalica falce avea le terre395
De l’ingombro pagano, e vigoroso
Da la riversa ed ozïosa gleba
Il fior de l’arte cristïana emerse.
Le tombe e i chiostri esposero l’occulta
Mente degli avi, e la novella stirpe400
Avidamente a le risurte fonti
Del prisco senno, giubilando, attinse;
E l’Italia seconda emula venne
Dell’Italia primiera, anzi gran tratto
L’entrò davanti. Ma restia, nè manco405
Da’ popoli invocata, ultima apparve
L’eloquenza del foro; ultimo il foro
Risurse a’ rai del redïente albore,
Che da le medïane ombre raggiava.
X
Dirò fors’io come precorsa e come410
Deprecata dagl’Itali prudenti,
Sull’Appennin la nov’alba spuntasse
Degli aperti giudici, e quanto al grido
D’un giovane Lombardo ed al soave
Apostolato d’un Sebezio Sofo,415
Giovane anch’ei, l’umanità dovesse?...
Altrove io miro. Rediviva effuse
I primi lampi sull’avel di Vico
L’eloquenza dell’Itala ringhiera,
Ed a sublimi e glorïosi voli,420
Risorgendo, accennò. Non altrimenti
Irrequïeta per l’aerea culla
Tenta la giovinetta aquila i vanni,
E il sol vagheggia, ed invida le nubi
Medita e i venti. Armonizzati insieme425
Come le corde de l’Eolia lira,
Quattro di varia tempra incliti spirti,
Del nostro foro, per diverso calle,
Corser lo stadio nuovamente aperto.
Splendidamente Lauria movea430
In sandalo romano, idoli e vezzi
Da le ricche traendo arche degli avi.
Fiero talor, mite soventi, e sempre
Morbido e troppo, ei recingea l’antica
Forma latina d’un amabil velo435
Di mestizia tranquilla: era la sua
Luce di stella che mesta vïaggi
Per entro al vel di nuvola serena.
Agitator d’idee, più che di affetti,
Solenne e calmo procedea Borrelli,440
Quasi fiume che in cupo alveo devolga
L’acque profonde; e se crescea talora
Per subita procella, eran fecondi
Gl’inondamenti suoi, sì ricca vena
Deponea, decrescendo, in sulle rive.445
Oh il difensor di Longobucco! In miro
Sodalizio conserti erano in lui
Vigoroso intelletto, anima ardente
Ed aquilina fantasia. Stringato
Di Demostene al par, splendea soventi450
Di certo Attico piglio, onde avvenia
Ai più ritrosi. E piano argenteo lago,
Fra le chete giacente ombre d’un bosco,
Talor parea, talor candido rivo,
Che mormori per via, talor mugghiante455
Vaporosa cascata, in cento aspetti
Riscintillante a la purpurea luce
Del dì che nasce. Oh quante volte io piansi
Su quelle sue carte faconde! Eppure
Che son mai desse appetto a la parola460
Allor che viva e impetuosa balza
Dal suo trono di luce, e d’armonia?...
Ed or polve è quel trono! Alta quïete
Ed eterno silenzio occupa il labro
Di quei tre grandi! Oh lungamente intorno465
All’urne loro, come suol, si aggiri
L’emulo amor de’ succedenti ingegni!
XI
Ma lungamente de la vita il sole
A lui sorrida, che fra tanta cima
D’intelletti fu primo! Ad uno ad uno470
Caddero intorno al generoso i grandi
Suoi consorti di gloria, ed ei rimane
Ancor nel campo, principe onorando
De’ Sebezi togati. In sul fiorire
Degli anni a le natali aure commise475
De la bruna Maiella il repentino
Spontaneo carme, onde stupîr gl’intenti
Figli del Sannio: giovinetto ancora
Il ben sortito animo addisse a lunghi
Profondi studi, ed orator sublime480
Nel foro apparve. Infaticato alunno
Di Tacito e di Vico amò gagliarda
Breviloquenza, lucida e vibrata,
Quasi una lama di brunito acciaio;
Se non che spesso in matronal decoro485
La sua movea forte parola, sparsa
D’alterezza sannita: e se per via
Soventi ai fiori ei dichinò la mano,
Come per lui s’illeggiadrian quei fiori,
E in che facil concordia allor vedevi490
Strette per lui la sapïenza e l’arte!
Indi le gemme, che brillâr divise
Ne’ suoi coevi, in unica ghirlanda
Gli cerchiaron la fronte, ed il Francese
Aquila il disse del Sebezio Foro.495
Oh lungamente, oh lungamente arrida
A lui la vita! Oh le vaganti aurette
Di Mergellina aleggino soavi
Su quella chioma veneranda! Oh tardi
Codesto glorioso astro tramonti500
Dal nostro cielo, e la nascente prole
Raggi d’avita sapïenza impetri
Dal vivente pensier di Nicolini!
XII
Te fortunato, che fiorir vedesti
Quell’aurea scuola, o Federico, e in essa505
Ne’ tuoi primaverili anni potevi
Altamente ispirarti! Indi quel dritto
Movimento d’idee, quella virile
Sobrïetà di gesto, e quei fugaci
Scoppi d’affetto, che ti fan sì caro510
E potente orator. Perchè sì pochi
La nuova ed ammirata orma seguiste
Di quei sublimi? E perchè mai codesta
Arte divina i suoi veglianti annali
In Italia non ha? Già da gran tempo515
Sul Tamigi se gli ebbe e sulla Senna.
Perchè l’Italia gli esteri trionfi
Anche in quest’arte non sorvanza? Or forse
Qui primiera non surse, o qui non sona
Fra’ viventi idïomi il più gentile?520
In questo campo, ove sì larga e nova
Messe di palme ai generosi ondeggia,
La nostra gioventude entri secura.
Chè tutte altronde divorò le vie
Della gloria l’Ausonia, e chi pensasse525
Rivalicarle, incontreria giganti
Immortalmente, come l’Alpe, immoti.
Ed or che tanto per le sorti umane
Amor fatica i generosi ingegni,
Onde più chiare ei gitteria faville,530
Che dalla barra clamorosa, eretta
A difesa de l’uom? Se la severa
Età, che volge, ama congiunti il Buono
Il Bello e il Vero in un potente amplesso,
Ove più mai che sulle labbra ardenti535
Del penale orator convergeranno
Questi tre raggi del divin pensiero?
Oh come bella e generosa è l’arte
Ne’ perigli del foro! Oh di qual sacra
Luce balena! Di sè stessa oblita540
Per la difesa altrui, quasi ella ignora
Onde profusamente escan quei lampi,
Che le scoppiano intorno, allor che balda
Rompe contro l’accusa. In simil guisa,
Allor che presa da terror sul primo545
Unico nato perigliante irrompe,
Madre animosa e giovinetta, ignora
I mille vezzi, onde le raggia il volto,
La tunica ondeggiante e le diffuse
Chiome a le spalle. Di severi studi,550
O valorosa gioventù, ti allena,
E sii proba! Che nulla è la parola
Senza il nerbo del senno, e passa irrisa,
Ove da petto intemerato ed alto
Limpida non promani. Iscolorati555
Da le dotte vigilie, o giovinetti,
Genuflettete de le Grazie all’ara,
Sacrificando; e fra’ proffert’incensi
Ripregate alle Dee labbro pudico,
Onde discorra verecondo e puro560
L’idïoma natio. Quindi verrete
Non intrusi ministri a la severa
Musa del Foro! I circoli vegliati
E i fulgidi teatri ella non ama;
E non s’ispira nei diffuso azzurro565
Di notti estive, nel fragor del mare,
O nel riso de’ campi. Al chiaror lene
Di sue dorate lampadi sedendo
Le notti immota, le sciagure umane,
E gli umani misfatti agita e libra570
E commisera; e tutte ad una ad una
Svolge le pieghe, quante son, del cuore,
E più pallida spesso indi le torna
La guancia, e pia silenzïosa stilla
I nerissimi e grandi occhi le vela575
Sulla pagina intenti. E allor che il sole
De la Curia le cupole rindora
Del suo riso orïente, ella aspettata
I curvi templi ne rïentra e tuona
In difesa de’ miseri. Dal mesto580
Labbro, cui pure d’un sorriso abbella
La speme, in recrescenti echi prorompe
La vindice parola, e in quel tenore
Che la sua concitata aura trascorre,
Infoscarsi o chiarir mille vedresti585
Fronti pensose, come fanno i laghi,
Quando la peregrina ala del vento
Gl’increspa e spiana. A questa Dea rendete
Inni e profumi, o giovinetti, e sia
Tal che a la nova età facile avvenga590
Il vostro culto. Rapida baleni
Dunque l’idea; semplice sì, ma schietta
La parola secondi; e sia virile,
Non scompigliato il gesto. Onde la toga
Più squallida non veli alme restie595
A quanto avvi di bello e d’esquisito,
E il forense orator splenda di luce
Cavalleresca, come dee. Rendete,
Giovinetti d’Ausonia, inni e profumi
A questa Diva, e di non vacui beni600
Dolcezza ampia trarrete. Avvi chi pure
Ad altre muse giovinetto offerse
Le primizie dell’alma, e le frequenti
Sale blandia d’estemporaneo canto;
E seppe in una i rapimenti e l’ire605
De la ringhiera: ed ei fra le più caste
Nobili gioie del pensier prepone
L’intima ebbrezza, che serena invade
L’orator tenzonante, e l’affannosa
Quïete che tien dietro alla sudata610
Pugna forense. Ha le sue spine anch’egli
Questo togato artista, i suoi fatali
Pallid’istanti e i fremiti seguaci.
Ma ogni acre ingegno ne trarrà conforto
A militar nel faticoso aringo;615
Ove combatton, federate, a l’ombra
D’un sol pennon l’umanitade e l’arte.
XIII.
Queste, che strinsi in disadorno carme,
Idee per l’alma mi ricorser quando
A la barra Lucana, o Federico,620
Te perorante udii; quando a la tua
D’un altro egregio1 succedea la voce,
Splendida e degna di trionfi. Oh a lui,
Che sì amabile e prode uscia del Foro
Partenopeo, de’ miei fraterni amplessi625
Riferirai gran parte. Un dì, se i fati
Mi consentano ospizio, ozi e sereni
Studi (mio lungo amor!) presso la tomba
De la Sirena, correrò con voi
Lungo i campi de l’arte, e forse allora630
Svolger potrem fidatamente insieme,
In libero sermon, quant’or mai volli
Credere a la ritrosa indol del verso.
Ed anco in gravi e inopinate angosce
Il cor mi geme, e in tetre ombre declina635
La poca luce del mio stanco ingegno:
Nè mai quant’oggi io disïai l’aspetto
De le poche alme franche e generose,
Onde onorata è la famiglia umana.
XIV
Or dunque addio! Negl’infiniti incanti,640
Che a’ suoi gentili abitator dispensa
Codesto de l’occaso Eden felice,
Ti riconforta, o Federico: ed ove
Il cor con mesta voluttà rivoli
Ai dì mancati, rammentar colui645
Non sieti grave, che t’amò cotanto
Da che ti udia; che spesso entro il perenne
Cittadino romor segue i tuoi passi
Dal silenzio de’ suoi monti natali.
Lucania, luglio 1855.
Note
- ↑ L’ avvocato Gennaro de Filippo.