Trattato completo di agricoltura/Volume II/Dell'Uva
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dell’uva.
§ 929. Noi dal §482 al §526 abbiamo considerata la vite come una pianta campestre, ed abbiamo indicate le norme per ottenere buone uve da vino. Ora invece ci proponiamo di conoscere quelle viti che danno il miglior frutto per esser consumato fresco, e d’indicare le regole colle quali deve essere educata nel frutteto.
Generalmente le buone viti da vino non sono quelle che danno la miglior uva per la tavola (fig. 269), e queste non sono quelle che diano il miglior vino quando vengano a ciò convertite. Per tavola, ossia pel consumo allo stato fresco, richiedonsi uve primaticcie, e d’un sapor aggradevole, il quale non è dovuto tanto alla quantità di zucchero contenuto, quanto ad un aroma speciale e sensibile immediatamente al palato. Epperò ben si vede che la precocità è già un indizio per giudicare che l’uva contiene minor quantità di zucchero, in confronto di altra più tardiva. E l’aroma del vino, od etere enantico, si sviluppa durante la fermentazione, e non è palese nel frutto fresco: che anzi l’aroma sensibile nell’uva avanti la fermentazione indurrebbe nel vino un sapore che, per quanto fosse aggradevole sulle prime, coll’uso finirebbe a nauseare.
Dalla destinazione adunque affatto distinta di queste viti, ben si può arguire che eziandio il metodo di coltura dovrà essere diverso, e perciò credetti di doverne parlare a parte. Così pure i limiti meteorologici assegnati alle viti da vino, non sono quelli della vite per uva, poichè questa ordinariamente si alleva in pergolati presso i muri ben esposti delle case o che cingono i giardini; circostanza per la quale una vite, che all’aperto non potrebbe maturare il frutto, potrà invece portare uva mangereccia collocata in simili circostanze.
§ 930. Le varietà più comunemente coltivate pel frutto fresco sono le seguenti, che io accennerò coi nomi usati nel Milanese. L’uva di Sant’Anna e l’uvadica, che sono bianche, la moscatella bianca o rossa, il moscatello di Spagna bianco e rosso, e la malvasia.
§ 931. La forma, ossia l’eguale e regolare distribuzione dei tralci, è una condizione indispensabile alla coltivazione della vite a spalliera addossata ai muri; e tutte le maniere di tendere le viti che noi già indicammo al § 503 non servono a tale scopo. Epperò, la forma generalmente adottata per la spalliera è quella a cordone orizzontale rappresentata dalla fig. 270, siccome quella che meglio si presta ad un’eguale distribuzione d’umore fra i tralci. Ciononpertanto a raggiungere questo risultato è necessario osservare alcune norme, cioè:
1.a Che i due bracci o cordoni (C) devono essere della medesima lunghezza, altrimenti il cordone più lungo attirerebbe a sè la massima parte dell’umore a scapito di quello più corto. La divisione dei gambo nei due cordoni deve farsi a quella stessa altezza cui voglionsi distendere orizzontalmente i detti cordoni. Le suddivisioni di ciascun cordone esigono fra loro una distanza non minore di 0m,20.
2.a La lunghezza dei cordoni non deve oltrepassare certi limiti, sebbene questi possano variare per la qualità più o meno vigorosa delle viti, cioè da 1m,30 a 1m,80. Una maggior lunghezza tende a far vegetare più vigorosamente le estremità di ciascun cordone a scapito aella porzione più vicina al ceppo. Val meglio quindi moltiplicare i gambi presso i muri, che non distenderli di troppo nei loro bracci.
3.a Così pure ogni gambo non dovrà portare che un sol ordine di cordoni orizzontali, perchè l’ordine superiore assorbirebbe quasi tutto l’umore, e quello inferiore rimarrebbe dopo qualche anno intristito.
4.a La vite non deve sorpassare l’altezza del muro, acciò si trovi tutta nelle stesse condizioni; nè si dovranno mai educare altre piante in promiscuità o vicinanza.
Una sola divisione di cordoni orizzontali è adottata nei climi meno che temperati, quali sarebbero quelli della Svizzera, nelle vicinanze di Parigi, allo scopo di tenere bassa la vite ed il meno ombreggiata che sia possibile. Ma nelle migliori esposizioni o nei climi più caldi di quelli, si possono adottare muri più alti ed applicarvi un maggior numero di cordoni orizzontali sovrapposti gli uni agli altri. Questo maggior numero di cordoni non è già proveniente da un sol gambo, ma da più gambi, formati come l’antecedente, e disposti in modo che l’uno si distenda sopra d’un altro, alla distanza di mezzo metro, stabilendo il primo a 0m,16 da terra. La distanza fra i gambi sarà poi determinata dalla lunghezza che vogliasi dare ai cordoni orizzontali, e dal numero dei cordoni sovrapposti. Suppongasi un muro alto 2,66, e capace di cinque ordini di cordoni distanti fra loro 0m,50, cominciando il primo a 0m,16 da terra, e che vogliasi dare ai cordoni una lunghezza complessiva di 3,00; si dividerà per cinque questa lunghezza e si otterrà 0m,60. La distanza adunque fra un gambo e l’altro sarà di 0m,60. Se l’altezza del muro fosse minore risulterebbe una maggior distanza fra i gambi, ma allora gioverà tenere i cordoni più corti e ridurre ancora a 0m,60 questa distanza; se all’incontro il muro sarà più alto i gambi resterebbero troppo vicini fra loro, ed allora conviene allontanarli allungando alquanto più i cordoni orizzontali. A miglior spiegazione veggasi la figura 271. Il primo gambo A forma il primo cordone inferiore, il secondo B il cordone del secondo ordine, C il terzo, D il quarto ed E il quinto; F torna a costituire il cordone inferiore e così di seguito.
Invece di formare i cordoni orizzontali si possono anche fare verticali (fig. 272). I gambi sono distanti fra loro 0m,80, e si innalzano verticalmente lungo il muro. A ciascun gambo, sui lati, a 0m,25 vien conservato in modo alterno una suddivisione che porta due tralci in modo che queste suddivisioni abbiano una distanza di 0m,50 l’una dall’altra. Non si dovranno però stabilire più di sei suddivisioni, tre per ciascun lato, poichè un maggior numero nuocerebbe al vigore delle prime.
Queste sono le due maniere più convenienti per la vite a spalliera, e l’altezza del muro che meglio si presta è quella che permette cinque ordini di cordoni orizzontali, o sei suddivisioni nel cordone verticale. Avvertasi che il muro deve avere una sporgenza a gronda sulla vite, e che questa starà più bassa di 0m,50 dalla detta sporgenza. L’intelajatura della spalliera sarà disposta in modo che i traversi siano distanti fra loro 0m,50 orizzontalmente; fra mezzo ai quali ve ne siano altri di minore grossezza, onde attaccarvi i tralci. L’intelajatura in filo di ferro, ove il legname sia costoso, serve assai bene, quando il traverso superiore e l’inferiore siano robusti, e che gli uncini che lo sostengono al muro sieno distanti fra loro non più di 1m,50. Il complesso dell’i ntelajatura sarà tenuta lontana dal muro 0m,15.
§ 932. La vite a spalliera si propaga quasi sempre per barbatelle, poichè il solo magliuolo posto in vicinanza de’ muri, il cui sottoposto terreno è ordinariamente piuttosto asciutto, difficilmente metterebbe le radici. Ottima poi è la margotta fatta in un cesto di vimini alto 0m,25 e largo altrettanto (fig. 273); perchè in questo modo le radici non soffrono menomamente il trasporto, piantandosi unitamente al detto paniere.
L’innesto si usa di rado, poichè si ha molta cura nella scelta delle talee da formarne barbatelle, o dei tralci che servono alla margotta; solo può essere utile quando per qualche noncuranza a vite non risulti della desiderata qualità, o quando la si voglia espressamente cambiare, approfittando della vigoria del vecchio gambo.
L’impianto delle viti si fa in primavera, se il terreno è alquanto umido, o nell’autunno se fosse asciutto. All’epoca opportuna si cava una fossa larga 0m,50 e profonda un metro, alla lontananza di circa 0m,80 dal muro, più o meno secondo la maggiore o minor possibile aridità del suolo: la terra della fossa si dispone un poco per parte, mettendo ad un sol lato la superficiale e migliore. Nel fondo della fossa si spande terriccio, o terra mista a concime ben scomposto, e sovra vi si dispone la barbatella o la margotta nel cesto; vi si rimette dapprima la terra superficiale, indi si riempie colla restante. La barbatella, od il tralcio della margotta, si piega verso il muro, restando sotto terra sino a 0m,40 di distanza; si fissa ad un paletto, indi si taglia in modo che un sol occhio resti fuori della terra. Il germoglio di quest’occhio si lega esso pure mano mano al paletto, e quando abbia raggiunto la lunghezza di 0m,50 lo si cima, come pure si tengono cimati a 0m,10 tutti i germogli anticipati, ossia quelli che escono dalle gemme più basse del germoglio, all’intento di rafforzare questa prima porzione del gambo e favorire lo sviluppo delle radici lungo tutta la porzione interrata. Così pure, se per caso si mostrasse qualche grappolo dovrà essere levato. Durante l’estate si praticano tre zappature, possibilmente dopo una forte pioggia e quando la terra sia già divenuta scorrevole. Se il terreno fosse eccessivamente arido, avanti che arrivi l’estate, sarà bene coprire di foglie o di letame tutta la parte sovrapposta alla fossa; lo stesso si farà se temasi un inverno troppo rigido. Insomma alla fine del primo anno la vite si presenterà come la figura 274.
Verso la fine di febbrajo del seguente anno (secondo dell’impianto) il tralcio vien tagliato in A (fig. 274), sopra i tre bottoni più ravvicinati della sua base. Quando i germogli sono lunghi 0m,15, si levano quelli inutili, come indicheremo più avanti, per conservare solamente quei tre occhi che furono lasciati col taglio. Questi tre germogli si fissano a tre diversi paletti, alti fuori terra un metro; si cimeranno i germogli quando siano giunti a quest’altezza, e si continuerà a levare tutti i germogli laterali anticipati a 0m,10 dal nuovo tralcio.
Nel marzo del terzo anno, od anche nell’autunno del secondo se il clima è caldo, si tagliano via tutti i nuovi tralci ad eccezione del migliore, e preferibilmente del più basso; si scalza la pianta con precauzione sino alle prime radici, indi si fa un fossetto profondo 0m,50 che dalla parte scalzata arriva fin sotto il traverso inferiore dell’intelajatura. In questo fossetto vi si adagia la giovane pianta, si ricopre con buona terra, e se ne rialza l’estremità del tralcio in corrispondenza dell’intelajatura, fissandola ad un paletto e tagliandola tre occhi sopra terra. Questo rifondere la pianta, spesso fatto in tre volte, serve a ricoprire i primi tagli inferiori, ed a favorire l’uscita delle radici; poichè, quanto più il gambo avrà di tralcio sotterrato a 0m,50 circa di profondità, altrettanto acquisterà in vigore, perchè nutrito da numerose e buone radici. Si dirà perchè non potrebbesi a bella prima collocare orizzontalmente un magliolo, una barbatella od una margotta, lontano dal muro in modo che rimanga interrato 0m,80 od un metro di tralcio, lasciando un sol occhio all’estremità sollevata e legata al traverso inferiore? Il motivo sta in ciò, che questa lunga porzione di tralcio nel primo anno avrebbe forza di mettere radici soltanto da due o tre nodi, e che negli anni successivi, le radici uscite per le prime continuerebbero ad allungarsi togliendo agli altri nodi interrati il vigore di poterne mandare: ed è per ciò che giova interrare soltanto 0m,33 circa di tralcio per ogni volta.
Ora che abbiamo il tralcio fissato al traverso inferiore dell’intelajatura, ed abbastanza vigoroso per poterne dirigere e moderare la vegetazione a nostro talento, vediamo quali cure siano necessarie per formare il cordone orizzontale e per preservare i primi germogli dal guasto degli insetti. Epperò, appena che i tre germogli abbiano raggiunta una lunghezza di 0m,75 si terranno mondi, cimando, dai germogli anticipati, ossia da quelli che nascono sulle loro gemme laterali. Quando poi siano lunghi 0m,30 si toglierà il germoglio inferiore che venne conservato per rimpiazzare qualche altro che per avventura si fosse guastato; si toglieranno tutti i viticci, mentre sono ancora erbacei, ed i due germogli conservati si legheranno a due paletti quasi verticali, avvertendo di non legar troppo stretto, onde non impedir l’aumento tanto in lunghezza quanto in grossezza; e riservandosi a legarli più strettamente al momento del secondo laccio, cioè quando siano lunghi un metro. Durante questo aumento si continuerà a levare i germogli anticipati ed i viticci.
Finalmente, quando i germogli siano della lunghezza che vuolsi dare al cordone orizzontale, si cimano, l’uno prima dell’altro se occorre, acciò ambedue acquistino un egual vigore. Questa cimatura ha per iscopo di rafforzare i due bracci, ed i loro bottoni. Ciononpertanto dopo alcuni giorni veggonsi uscire all’ascella delle foglie dei germogli anticipati, e specialmente verso l’estremità del tralcio cimato, i quali devonsi togliere, diligentemente. Spesso i due germogli principali nella parte inferiore portano un pajo di grappoli, dei quali se ne deve lasciare uno solo per non ispossare la vite, conservando il superiore, poichè il primo essendo troppo vicino al suolo, facilmente resta imbrattato di terra quando cadano forti piogge. Sarà poi bene cimare o tagliar via con una forbice in A l’apice o punta del grappolo (fig. 275), onde la restante porzione possa meglio ingrossare e maturare: come pure quando l’uva comincia a prendere colore, colla forbice si taglieranno le foglie che stanno verso il muro, preferibilmente le meno sviluppate, avendo cura di lasciarne il picciuolo, e di non togliere quelle che stanno sul davanti, le quali difendono l’uva dalla forza dei raggi solari. Quando poi l’uva sia matura, allora soltanto si levano le foglie che coprono i grappoli; quest’ultima operazione si farà in giorno nuvoloso, acciò gli acini non risentano un improvviso e forte ardore del sole, il quale li farebbe indurire. L’ultima sfogliatura arresta del tutto la vegetazione, fa maturare completamente i grappoli, e dà maggior consistenza al tralcio, restando esposto al sole. La sfogliatura fatta troppo presto, o troppo abbondante fin dalla prima volta, invece di accelerare la maturanza, ne la ritarderebbe e farebbe restare gli acini più piccoli.
Fatto il raccolto dell’uva si tolgono tutti i legami, e la spalliera rimane disposta come la figura 276. E nel seguente febbrajo, in giorno sereno e che non geli, si fa il taglio, servendosi della tanaglia già indicata ove parlammo della potatura delle viti in campagna. Dei due tralci che presenta ogni ceppo, si sceglie il più vigoroso, e l’altro si taglia ben presso il gambo, conservando anche in questo caso di preferenza il più basso A. Tutti poi, ad eccezione del tralcio B del primo gambo destinato a formare il primo cordone, si tagliano appena sopra il bottone più vicino al traverso inferiore dell’intelajatura ed ogni anno lo si allungherà di 0m,25, finchè siasi ottenuta quell’altezza cui vuolsi stabilire il cordone, in modo che, una spalliera di cinque ordini, soltanto al decimo anno potrà essere completata. Volendo si potrebbe far più presto, stante il vigore col quale vegetano le viti, ma l’umore non essendo rattenuto nel suo corso dalle numerose cicatrici e nodosità, si porta troppo facilmente alle estremità e lascia languenti le parli inferiori o più vicine al gambo; finalmente, soltanto nel caso eccezionale di qualità assai vigorosa di vite, si potrà dare un allungamento di 0m,50 invece di 0m,25.
Il gambo N. 1 della figura 276 che deve formare il primo cordone, dovrà disporsi nel secondo anno a prendere la forma di T onde ottenere i due cordoni. Perciò, dei due tralci si sceglie quello che abbia i nodi inferiormente più ravvicinati, e lo si taglia a 0m,06 circa al dissopra del primo traverso, in modo che il bottone inferiore sia alla stessa altezza di quello. Indi si piega e si lega il pezzetto di tralcio in guisa che formi un angolo di 45° gradi col gambo, come alla figura 277. Il germoglio del bottone B darà origine al cordone destro, e quello del bottone A al cordone sinistro. Il germoglio del bottone E serve soltanto a produr uva. Nell’estate il germoglio del bottone A si lega in direzione obliqua, quasi parallela al traverso inferiore, e quello del bottone B si fissa quasi verticalmente. Nel taglio jemale o di primavera il tralcio del bottone E viene tagliato via, e gli altri due sono disposti orizzontalmente sul traverso inferiore dell'intelajatura.
Da quanto vi ho detto risulta che una bella formazione del T dipende quasi interamente dalla buona posizione delle gemme che devono produrre i tralci dei futuri cordoni. Così, quando i bottoni A e B della figura 277 siano mal disposti, si sceglie un bottone collocato a 0m,02 o 0m,03 dal punto cui voglionsi far dipartire i cordoni, e si taglia il tralcio al dissopra (fig. 278). Nell’anno seguente i tralci D ed E, conservati per la produzione d’uva, sono tagliati via; ed il tralcio A del bottone lasciato in primavera è tagliato a 0m,01, allo scopo di costringere a germogliare i numerosi bottoni che sono in questa breve porzione della sua base. Di questi se ne conservano i due più belli e meglio disposti, si fissano nella direzione B e C (fig. 278), e nell’anno seguente si abbassano sino al traverso.
Questa seconda maniera di formare il T fa perdere un anno, e vi si può rimediare col cimare nel primo anno il germoglio A (fig. 279) quando sia lungo da 0m,06 a 0m,08, al dissopra delle due foglie inferiori che siano ben ripartite. Dalle gemme, di questa porzione di germoglio escono germogli anticipati che si legano nella direzione di B e C, onde essere abbassati nell’anno vegnente a formar cordone, tagliando via parimenti i tralci D ed E che servirono soltanto a portar uva. — Invece di cimare il germoglio A, si potrebbe anche piegarlo sul traverso nella direzione CD (fig. 280), quando però abbia di già una lunghezza di 0m,35, e ciò allo scopo di forzare il bottone E a sviluppare un germoglio anticipato A, come vedrebbesi alla figura 281, il quale vien legato quasi verticalmente onde acquisti uno sviluppo pari al primo germoglio che venne inclinato. Gioverà poi in questo caso di togliere gli altri germogli che nascessero più in basso, o quelli anticipati che sorgessero dal germoglio di già inclinato.
Allorchè tutti i gambi della spalliera (fig. 276) siano stati tagliati, e che i germogli siansi allungati di 0m,15 circa, si levano i germogli inutili, cioè sui gambi 4, 2, 5, 3 non si conservano che i tre della cima; si tolgono in seguito i viticci ed i germogli anticipati che nascono sui germogli principali, i quali pure si cimano quando siano lunghi 1m,50 circa. In questo secondo anno si eseguirà la sfogliatura e la cimatura dei grappoli nei modi e nelle epoche già indicate più sopra.
Fatto il raccolto si slegano i tralci e la spalliera offre ciascun gambo monito di tre tralci. Al N. 1 (fig 276) si conservano soltanto i due tralci più centrali e meglio divisi, tagliandoli a 0m,10 o 0,12 di lunghezza dopo tre occhi, ed in modo che, fissando questo pezzo di tralcio al traverso, due bottoni (il primo ed il terzo) siano rivolti in basso, ed uno (il secondo) guardi in alto, destinato a formare la prima diramazione o suddivisione del cordone. Il terzo bottone è destinato a prolungare il cordone. Ai gambi 4, 2, 5 e 3 si conserva soltanto un tralcio, il più vigoroso e possibilmente il più centrale, e questo si taglia in corrispondenza del 2.° traverso, posto a 0m,25 dal 1.° inferiore, e vi si lega.
All’epoca del levare i germogli inutili, al cordone del primo gambo si lasceranno i germogli dei secondo e terzo bottone; quello del secondo, posto in alto, si cima ad un metro di lunghezza si lega verticalmente; quello del terzo bottone all’incontro si abbassa legandolo al traverso inferiore, cimandolo esso pure ad un metro di lunghezza. Agli altri gambi si conserveranno soltanto i germogli superiori, che poi si legano verticalmente.
Dopo il raccolto del terzo anno si slegano tutti i tralci, e la spalliera rimane disposta come alla figura 282.
Questa continua slegatura dei tralci, da farsi dopo il raccolto, giova alla vite perchè dovendosi rinnovare il laccio, difficilmente va soggetta a strozzature che intercetterebbero il corso degli umori; ed inoltre durante il verno più presto asciuga dall’umidità, la quale potrebbe stagnare fra il tralcio ed il sostegno.
Alla primavera del quarto anno adunque, si tagliano a 0m,12 circa i due prolungamenti A (fig. 282) di cordone del primo gambo, in modo da conservare tre bottoni. I due tralci B, che devono formare le prime due suddivisioni si tagliano al dissopra dei due bottoni più ravvicinati della base, compreso il primo bottone A appena visibile, come vedesi alla figura 283. Alcuni tagliano più lungo, per esempio in D (fig. 283), ma in allora i bottoni della base non si sviluppano, germogliano soltanto i bottoni C e D, e nel vegnente anno questa suddivisione si mostra come la fig. 284. E, siccome non voglionsi conservare più di due occhi per suddivisione, e che queste non devono allungarsi troppo rapidamente, nell’anno seguente si taglia in A il tralcio superiore, ed in B l’inferiore. Tagliando invece come si è indicato dapprima, nell’anno seguente la diramazione si mostra come alla figura 285. Si toglie il tralcio superiore A e si taglia in B l’inferiore; e così di seguito ogni anno, in modo che l’allungamento diviene lentissimo.
Succede però che in alcune varietà di viti assai vigorose le gemme della base non portino uva, ed allora abbisognerà tagliare in D (fig. 283). Ciononpertanto di quando in quando si potrà abbassare la diramazione, favorendo lo sviluppo delle gemme della base, col cimare continuamente, al dissopra dei grappoli, i germogli dei bottoni superiori; e così quando siasi ottenuto un germoglio vigoroso alla base, si recide tutta la parte superiore.
Gli altri gambi della figura 282 vengono tagliati come nell’anno precedente; ed il gambo N. 2 (fig. 282) che deve formare il secondo cordone, e che fu tagliato a 0m,25 più alto del primo, si allunga di altri 0m,25 e si regola come si è indicato colla fig. 279 onde avere il T, ossia la biforcazione dei cordoni. Sui ceppi 4, 5 e 3 pure allungati di 0m,25 non si lasciano che tre germogli. Sul primo cordone non se ne deve lasciare più di cinque (fig. 286), cioè i due A che servono al prolungamento dei cordoni, i due B del primo occhio inferiore della prima suddivisione, ed i quattro germogli C e D. I due germogli E, si levano in ogni caso. I germogli D sono poi destinati a stabilire la seconda suddivisione del cordone. Le altre cure durante la vegetazione sono sempre le medesime; finchè nell’autunno dopo il raccolto la spalliera è disposta come alla fig. 287.
Sulla prima suddivisione del primo cordone non si lascia che un tralcio, sempre l’inferiore, e questo si taglia a due bottoni come nell’anno antecedente; così se il tralcio D ottenutosi sull’allungamento del cordone dell’anno scorso è troppo ravvicinato alla suddivisione B, si taglia via interamente, per poi approfittare d’altro tralcio nell’anno seguente. I due tralci E sono allungati di 0m,12 circa di lunghezza, onde continuare il cordone orizzontale, tagliando presso il bottone inferiore F. A questo proposito bisogna avvertire che negli allungamenti orizzontali, importa tagliare un anno presso un bottone inferiore, ed altro presso un bottone superiore, onde mantenere possibilmente la giusta direzione dei cordoni; e nei cordoni verticali si taglierà un anno presso un bottone a destra, ed un altro presso un bottone a sinistra, sempre per lo stesso motivo. Se si continuasse a tagliare sempre dopo un bottone superiore, o sempre dopo un bottone inferiore, o di destra o di sinistra, si avrebbe una specie di arcatura, che dovrebbesi forzare, a rischio di romperla, onde mantenerla in linea retta. — Il bottone G (fig. 287) serve a formare la seconda suddivisione nel caso che il tralcio D fosse stato troppo vicino al tralcio B. Il T del gambo N. 2 (fig. 287) si regola come quello del gambo N. 1; e gli altri si allungano di 0m,25. Al momento di levare i germogli inutili non se ne lascerà che uno o due sulle due prime suddivisioni del cordone, secondo l’abbondanza dei grappoli: sui due tralci E se ne lasceranno due, quello del bottone F e quello del bottone G. Il gambo N. 2 si regola come lo fu il N. 1 nella stessa epoca.
Alla primavera del sesto anno la spalliera si presenta come la figura 288. Allora si forma il T del gambo N. 3, poi nel 7.° anno quello del N. 4, indi nell’8.° quello del N. 5. Le regole per gli allungamenti verticali, per la formazione dei cordoni e delle suddivisioni, sono sempre le medesime di mano in mano che arriva il momento opportuno. Le suddivisioni si formano ogni due anni, ed anche ogni quattro. La cimatura dei tralci e dei grappoli, la soppressione dei germogli inutili, e la sfogliatura si eseguisce sempre colle istesse norme. I germogli verticali B C D della figura 287, che si disse di cimare ad un metro, si cimeranno invece a 0m,50 quando siasi stabilito il cordone del gambo N. 2 (fig. 288) e così di seguito. Lo stesso si farà anche pei germogli che servono di prolungamento del cordone, che dapprima erano cimati essi pure ad un metro di lunghezza.
In questo modo una spalliera capace di cinque ordini, non sarà intieramente ricoperta che verso il 22.° anno.
La base poi delle suddivisioni (fig. 289), pel continuo mantenere gli occhi della base, e pei continui tagli che ivi si addossano, difficilmente col tempo lascia passare liberamente gli umori, ed importa rimediarvi. E perciò, al momento della soppressione dei germogli si conservano quelli della base, e si cimano continuamente al dissopra dei grappoli i germogli dei due tralci dell’anno antecedente. L’anno che segue poi si taglia tutta la vecchia base in A, ed il tralcio B si taglia ai due occhi più bassi, per formare una nuova suddivisione.
Talvolta bisogna rinnovare anche i cordoni, andati in deperimento pel difficile accesso degli umori sino all’ultima porzione, per effetto dei tagli d’allungamento e per quelli prodotti dal rinnovamento delle suddivisioni. In tal caso il rinnovamento si fa abbassando uno dei tralci delle suddivisioni, scegliendone uno più o meno lontano dalla base del cordone, a seconda della porzione più o meno lunga di cordone da rinnovare.
§ 933. Ora passeremo alla formazione della spalliera a cordoni verticali, la quale è più facile della precedente. Suppongasi ridotto il tralcio al traverso inferiore, munito di due occhi; questo alla fine del primo anno si presenterà come la figura 290, praticando la cimatura dei tralci ad un metro di lunghezza, e facendo tutte le altre operazioni indicate più sopra. Nel 2.° anno per ciascun ceppo si sceglie il miglior tralcio, quello che applicato verticalmente al muro, offra un bottone laterale C verso la parte interna, ed in corrispondenza al primo traverso. Sotto il tralcio lo si taglia in B, ossia dopo il bottone superiore a quello C. L’altro tralcio è tagliato rasente il gambo. Nell’annata non si conservano che i due germogli dei bottoni B e C, ed alla primavera del terzo ogni ceppo si mostra come la figura 291. Il tralcio A forma la prima suddivisione, tagliato dopo due bottoni dalla base; il tralcio B è tagliato in modo da conservare all’infuori un bottone C a 0m,25 d’altezza, ossia in corrispondenza del 2.° traverso, ed un altro D verso l’interno, destinato ad allungare il cordone. Durante la vegetazione si conservano due germogli alla prima suddivisione, e due sul prolungamento, ossia quelli dei bottoni C e D, in modo da presentarsi nel terzo anno come la fig. 292. Allora il tralcio di prolungamento A si taglia come nell’anno precedente, e quello B serve a formare la seconda suddivisione dalla parte opposta alla prima, tagliando come già si disse. Nel sopprimere i germogli se ne lasciano due alla prima e seconda suddivisione, e due al prolungamento. Nel terzo anno però invece di cimare questi tralci a 1m,20 circa, si cimano a 0m,40, e, ad eccezione di quello destinato al prolungamento, si fissano con un angolo di 45 gradi, per modo che in fin d’anno la spalliera rimane disposta come la figura 293. Così si continua ogni anno finchè la spalliera sia ridotta come già indicammo alla figura 272.
Finalmente, tanto nel caso di cordone orizzontale che nel verticale, non si lasceranno mai più di due grappoli per germoglio, se la vite è robusta, altrimenti se ne lascerà un solo, preferendo l’inferiore che è quasi sempre il più vigoroso. La cimatura dei grappoli non deve poi mai dimenticarsi se desideriamo d’ottenere bei grappoli con acini bene sviluppati.
§ 934. Le viti a spalliera richiedono due zappature all’anno, cioè una in primavera, ed un’altra in autunno, da eseguirsi fino alla distanza di 1m,30 circa dal muro, procurando di non guastare le radici, ed usando perciò una zappa stretta, oppure quella a due punte. Oltre a queste due zappature, che s’approfonderanno non più di 0m,10, durante l’estate si faranno altre due o tre leggieri zappature dopo le piogge, per mantenere soffice il terreno e per togliere le erbe.
Queste viti, siccome sono molto vicine fra di loro e ben fornite di radici, presto dimagrano il terreno delle sostanze opportune. Qui non trattasi d’aver buon vino, ma uve ben nutrite con acini ben sviluppati, e si possono usare i concimi che favoriscono la vegetazione, quali sono i concimi ricchi d’azoto o di acido carbonico: opperò ogni due o tre anni gioverà coprire il suolo, sino a 1m,30 dal muro, con buon concime minuto, ed interrarlo col lavoro autunnale.
§ 935. Le condizioni sfavorevoli tanto alla vite nei campi quanto a quelle in ispalliera sono le intemperie, alcune malattie ed alcuni insetti.
Il gelo che arrivi d’autunno prima della maturanza dell’uva è dannoso perchè arresta la vegetazione; se all’incontro l’uva è matura gli riesce vantaggioso. In quanto ai tralci, soffriranno pel gelo quelli che fossero ancora in vegetazione, e quelli il cui legno non fosse abbastanza consolidato. Il gelo jemale talvolta può far perire l’intiero gambo fino alle radici, ma nelle viti a spalliera questo fatto è raro, perchè sono in condizioni da risentir meno il freddo, e di mantenersi asciutte. Tutt’al più un poco di foglie secche o di concime grossolano da stalla sparso al piede, per 1m,50 di lontananza dal muro, basta a preservare le radici dal freddo più rigoroso. Dannosissimo all’incontro è il gelo di primavera, ed irreparabile per le viti coltivate all’aperto quando arrivi in momento che abbiano di già germogliato. Nella spalliera invece le viti sono in parte difese dalla piccola tettoja sporgente, ed in parte dal calor ricevuto e tramandato dal muro, il quale impedisce l’abbassamento forte di temperatura. Le spalliere formate con viti di precoce vegetazione possono essere difese ancor meglio da tele appese e stirate sul davanti, le quali s’oppongono ad una corrente troppo forte di aria, ed al primo vibrare dei raggi solari.
Le piogge fredde e continuate, al momento che i germogli mettono i grappoli, sono funestissime, poichè gran parte di questi scompare e si converte in viticci. Di grave danno sono pure le piogge prolungate e fredde, o le nebbie durante la fioritura, o poco dopo lo sviluppo degli acini, i quali facilmente si macchiano in nero, intristiscono, disseccano e cadono. Le piogge troppo frequenti nell’estate ritardano la maturanza, e quelle d’autunno rendono l’uva troppo acquosa, insipida e facile a screpolare e marcire. Le viti a spalliera però riescono meno danneggiate da queste cause sfavorevoli, che non quelle coltivate all’aperto. — Il vento poi arreca maggior guasto alla vite in spalliera, che a quella posta all’aperto, poichè può svellere alcuno di quei germogli che voglionsi conservare per l’anno successivo, per il che è cosa importantissima il legarli attentamente mano mano che si sviluppano.
Fra le malattie che affliggono la vite, ve n’ha una detta il crepaccio, la quale si appalesa con fenditure che comprendono tutta la corteccia mettendo a nudo il legno. Finora non si sa come rimediarvi, e sembra una malattia particolare ad alcune varietà; epperò val meglio cambiare affatto il gambo coll’innesto fatto sotto terra.
La mora, o bruseccio, più sopra accennata è un effetto delle nebbie e delle piogge prolungate, cui prontamente sussegua un sole cocente.
La muffa comincia coll’attaccare la pagina inferiore delle foglie, le quali si gonfiano leggiermente fra le nervature; indi attacca i teneri germogli ed anche i grappoli, la vegetazione si arresta finchè non si sviluppi qualche bottone anticipato, o della base del germoglio attaccato. Se la malattia prende la pianta quando siano già formati gli acini, allora anche questi ne sono presi, induriscono, anneriscono, scoppiano e cadono disseccati. Questa malattia siccome è accompagnata da una muffa, può ricomparire più anni di seguito, singolarmente se la primavera si mantiene piovosa.
La lebbra, o farinella, che abbiam veduto attaccare il pesco, è pure una delle malattie della vite, assai affine all’oidio, e che finora non riconosce rimedio sicuro.
L’oidio, nome generico a tant’altre muffe, e che per distinguere questa che di preferenza invade la vite, venne detta Oidium Touckeri, da Toucker che pel primo nel 1845 l’osservò nelle serre inglesi. Oidio assai ingrandito.
A. Ramificazione delta muffa.
B. Filamenti che sostengono le spore.
C. Spore.
D. Spore maggiormente ingrandite.Dall’Inghilterra passò l’oidio nelle serre francesi pel mezzo del commercio di piante, e di là si sparse nei campi e nei dipartimenti viticoli del mezzodì. Da queste località, per le comunicazioni marittime si è portato in Italia, ed i primi luoghi a provarne i danni furono quelli vicini ai porti di Livorno e di Genova. In Lombardia comparve dal 1850 al 1851.
Questa muffa, come lo dimostra la figura 294, ha gli steli serpeggianti ed intrecciantesi sui tralci, sulle foglie e sui grappoli della vite, sorgendo ritti soltanto quei filamenti che sono destinati a portare le spore, o capsule nelle quali contengonsi minutissime granulazioni che sono i frutti della pianta.
Il primo comparire dell’oidio, poichè si convenne di chiamare tal muffa con questo sol titolo, ordinariamente si mostra nel mese di giugno quando la temperatura atmosferica si porta verso la media di +19°. Se la stagione è precocemente calda si mostra prima, e se invece continua temperata ritarda anche sino al luglio ed al principio di agosto. Il primo suo apparire si riconosce facilmente dal diverso colore che prende il fogliame, il quale perde il suo bel verde oscuro lucente per assumere un colore verde cinereo, specialmente alla pagina inferiore. Le parti infette per le prime sono le più tenere, siccome quelle che meglio si prestano a dar nutrimento alla muffa, lasciandosi facilmente trapassar l’epidermide e la corteccia. Da queste parti l’infezione si distende ramificandosi come una rete anche alla prima porzione del germoglio, ed al tralcio dell’anno antecedente; avvertendo che sulle parti che hanno già la corteccia indurita la muffa si distende soltanto per ramificazioni, ma non già impiantandosi nel tessuto, come avviene nelle porzioni più tenere, per il che nelle anzidette parti riesce meno sensibile che nelle parti tenere. Queste parti verdi sono subitamente invase mano mano che vanno germogliando, in modo che il tralcio, succhiato e malconcio all’estremità, vegeta meschinamente, le foglie esistenti si raggrinzano, le nuove riescono piccolissime e finalmente la vegetazione può dirsi che cessi affatto nella vite, per andare ad alimentare la muffa.
Così continua a svilupparsi la muffa finchè, o per l’abbassamento della temperatura, o perchè essa pure stentatamente può ritrarre ulteriore nutrimento dalle parti invase indurite e disorganizzate, cessa dal vegetare lasciando la vite in uno stato deplorabile a vedersi. I grappoli anch’essi vengono presi dall’oidio alla stessa epoca delle foglie andando soggetti alle stesse variazioni di colore; la muffa impiantata sugli acini ne succhia l’umore, epperò impiccioliscono invece di aumentare di volume; s’induriscono per la minor proporzione d’acqua ch’essi contengono; la buccia loro, verso la stagione che l’oidio tende a scomparire, si copre di macchie nerastre, o si fende perchè il nuovo afflusso d’umore, che più non è intieramente succhiato dalla muffa, non potendo distendere l’indurita buccia, la fa scoppiare. Quando poi gli acini siano screpolati, o disseccano per effetto del sole e della ventilazione, od ammuffiscono se sopravvengono le piogge.
A questo proposito mi pare di poter far osservare che se una certa temperatura caldo-umida è necessaria al primo svolgersi dell’oidio, la mancanza specialmente di questo calore e del nutrimento che più non possa ricevere dalle parti guaste ed indurite, sono la causa della scomparsa della muffa, non dovendosi già credere che abbia, come si suol dire, terminata presto la propria vegetazione annuale perchè vada scomparendo. Questa credenza è contraria ai principj scientifici, pei quali sappiamo che tutte queste muffe continuano incessantemente a vegetare finchè le condizioni climatologiche il comportano, o finchè non abbiano intieramente distrutto il soggetto a spese del quale esse vivono.
Una vite presa dall’oidio riesce sul finire dell’autunno coi nuovi tralci corti ed anneriti per tutto quel tratto che fu infetta mentre era ancor verde, e per conseguenza soltanto quel primo tratto che germogliò avanti la comparsa della muffa avrà potuto maturare il legno, in modo da poter resistere ai freddo jemale. Ma anche questo primo tratto invece d’avere il suo bel colore giallo oscuro, trovasi esso pure cosparso di macchie nerastre. Durante il verno tutta la parte annerita perisce e dissecca, ed alla primavera o non si hanno affatto tralci da tendere, o brevissime porzioni. Meschina dunque riesce la vegetazione del nuovo anno, e non mai in proporzione della quantità delle radici: e se al sopravvenir dell’estate nuovamente ricompare la muffa a rinnovare i guasti dell’anno antecedente, e che ciò ripetasi per uno o due anni di seguito, la vite si rende languida, la corteccia indurisce, nè più screpola nè si rialza perchè più non ingrossa il tronco, epperò finisce poi ad impedire, col suo indurimento, anche l’ulteriore ingrossare dei gambo, e finalmente perisce.
Accade alcune volte che la muffa lentamente scompare, lasciando soltanto alcune macchie nerastre sugli acini, i quali tornano ad aumentar di volume, e prendono il lor colore naturale. Ma anche in tal caso, l’uva arrestata nella sua vegetazione, perde tempo e non può arrivare alla giusta maturanza. E questo fatto pure non devesi ascrivere all’avere l’oidio compita per quell’anno la sua vegetazione, ma piuttosto a condizioni sfavorevoli al suo progresso, quali sono le già accennate, e soprattutto un rapido abbassamento di temperatura.
Nè voglio dire che la malattia non possa mai scomparire, asserendo che la sua scomparsa autunnale è dovuta piuttosto alla mancanza delle necessarie condizioni alla sua esistenza, che ad un vero termine di vegetazione. L’oidio potrebbe durare indefinitamente, potendo ogni anno ricomparire durante l’estate, ma vi ha una legge naturale che si oppone al costante dominio di enti esotici e stranieri ad un dato clima. Questi enti coll’indigenarsi, ossia col mettere la loro esistenza in accordo colle nuove condizioni di clima, cambiano in parte la loro essenza e perdono a poco a poco il loro primo modo di esistere, finchè divengono innocui, o scompajono affatto per l’assoluta mancanza di condizioni loro favorevoli. La peste, il cholera, la febbre gialla, non che tante altre malattie contagiose ed epidemiche, subiscono le stesse leggi, come la subiscono in parte attualmente anche il calcino ne’ bachi da seta, e la malattia de’ pomi di terra. Sperabile è dunque che pure l’oidio sia di passaggio, cioè, che d’anno in anno la sua riproduzione riesca meno nociva, finchè la vite possa riprendere il proprio suo modo di vegetare, come pare che il fatto ce lo provi mostrandoci i tralci in stato sempre migliore dell’anno antecedente.
Intanto le conseguenze dedotte dalle osservazioni degli scorsi anni possono ridursi alle seguenti:
1.° La causa prima della malattia non è ancor ben conosciuta. Sembra però che avanti tutto abbia agito una causa meteorica, poichè il solo contatto non spiegherebbe la rapida ed estesa diffusione del male, come non spiegherebbe certe eccezionali immunità. Qualunque muffa suppone un’alterazione preesistente del corpo sul quale primitivamente si sviluppa.
2.° La malattia si mostra per mezzo di una alterazione particolare dei tessuti esterni della vite. Ogni anno si mostra singolarmente e primitivamente sulle parti verdi: tutte le muffe ed altre anomalie riscontrate alle radici sono effetto d’altre cause, e specialmente del deperimento della pianta, e non possono confondersi coll’oidio. Esenti ne sono gli umori della vite, esente insomma tutto l’organismo della vite, tranne le parti esterne.
3.° L’esposizione, la qualità del terreno e la diversità nelle sostanze concimanti non influiscono gran fatto sul contrarre o no la malattia. Ciononpertanto le esposizioni soleggiate furono le prime ad essere invase, e per conseguenza le prime ad esserne libere. Nei terreni poco fertili e sciolti la vite soffre assai dippiù che nei terreni buoni, profondi e ben concimati.
4.° La diversa qualità delle uve sembra invece avere un’influenza maggiore. Cioè le viti estranee ad un dato clima vanno esenti nei primi anni d’invasione del male, ma col tempo esse pure ne sono prese, quando le proprie del paese vanno, si può dire, liberandosene. Volevasi che le viti americane, e soprattutto la così detta Isabella, ne andasse immune; questa asserzione infatti si avverò per alcun tempo, ma io posso assicurarvi che nel 1856 anch’essa ne fu presa, come vennero invase dall’oidio alcune viti di Bordeaux che sino a quell’anno erano rimaste illese.
5.° Non si conosce finora nessun mezzo preventivo di cura, e molto meno alcun sicuro mezzo curativo. Tutti i rimedi di preparazione più o meno segreta rimasero finora senza alcuna efficacia generale, sebbene, come avviene d’ogni cosa consimile, tutti vantino i loro miracoli. Sembra però che i mezzi tendenti a far perire le muffe in genere (profumi, lavature ed aspersioni caustiche) come anche quelli che impediscono l’ulteriore diffusione (soluzioni gommose, gelatinose, bitumose) abbiano di tempo in tempo, quando casualmente vennero applicati in epoca opportuna, prodotto qualche benefico effetto. — Il rimedio che più d’ogni altro ebbe il suffragio universale in Francia fu l’aspersione coi fiori di solfo, o collo solfo polverizzato, fatta sulle uve a tre diverse epoche della vegetazione, cioè quindici giorni avanti la fioritura, durante la fioritura, e quindici giorni dopo di essa; altri invece la praticano in epoche più avanzate delle precedenti, cioè poco dopo la fioritura, quando gli acini hanno la grossezza d’un grano di melgone, e quando cominciano a prendere il color proprio dell’approssimarsi della maturanza. Il mezzodì della Francia consuma quantità immense di solfo, essendosi estesa la persuasione della sua efficacia; ma in Italia chi ne sperimentò gli effetti ne rimase deluso. Ciononpertanto non è a credere che il mezzodì della Francia spenda tanto tempo e denaro senza aver ottenuto qualche buon effetto, se forse il miglior stato delle viti non è da attribuirsi al lento scomparire della malattia.
Ciononpertanto, lontano dall’attribuire effetti sull’oidio al taglio fatto tardi o presto, ritengo che sarà sempre ottima cosa il liberare avanti l’inverno le viti dai sarmenti guasti, non che dalle parti vecchie e malconcie, quando queste abbiano in basso qualche tralcio nuovo. Infatti, se il primo sviluppo dell’oidio si mostra poi sulle parti verdi, pure tra la corteccia delle parti vecchie potrannosi celare le granulazioni delle spore dell’anno trascorso, e queste servire alla futura riproduzione. Gioverà eziandio la concimazione abbondante, siccome quella che ha per iscopo di mantener vegeta la vite e farle superare le cause sfavorevoli al di lei sviluppo. Utile sarà pure il levare, raschiando, la vecchia corteccia e tutte le parti secche e guaste lungo il gambo e lungo i tralci; così pure non sarà cosa mal fatta raccogliere e portar fuori della vigna avanti l’inverno tutte le rimondature della vite e le foglie secche, e tutto ciò infine che può servire ad aumentare la successiva riproduzione della muffa per mezzo di vecchi germi.
L’oidio, è poi una malattia affatto nuova, oppure si conobbe in altri tempi? A quanto pare questa muffa, od altra ben consimile, visitò altre volte i vigneti italiani. Alcuni vecchi campagnuoli dicono d’averla veduta circa ottant’anni sono, e che durò cinque anni. Negli archivj di Genova esistono documenti dai quali risulterebbe che una muffa devastò i vigneti più d’un secolo fa. Nella Valtellina sembra che siasi mostrata nel secolo XVI; ed in alcune scritture d’affitti di fondi nel Luganese del secolo XVII trovasi un capitolo esprimente un compenso nel caso che nelle uve si manifestasse il morbo farinella. Dante nel canto XII del Paradiso, a proposito di San Domenico, dice:
In piccol tempo gran dottor si feo, |
Plinio nel libro XVII, capo XXXVII, § 11 si esprime come segue: «Nascitur hoc malum tepore humido et lento fit et aliud vitium ex eodem, si sol acrior insecutus inussit ipsum vitium ideoque mutavit. — Est etiam peculiare olivis et vitibus (araneum vocant) quum veluti telae involvunt et absumunt». Cioè che vi ha una malattia che si sviluppa dietro un calor umido, e che si dice ragno, perchè al pari di quello involge il frutto con una ragnatela e lo consuma.
Epperò se la malattia, ora detta oidio delle viti, non è cosa nuova, giova sperare che al pari d’altre volte se ne andrà e lascerà libere nuovamente le nostre viti.
§ 936. Fra gli animali nocivi alla vite, e specialmente alla vite in ispalliera, vi sono gli uccelli che stanno presso l’abitato, come i passeri, i quali poggiandosi sui teneri germogli in primavera, li schiantano; oppure li cimano, o li sfogliano per far materiale pel nido. Le lumache e lumaconi danneggiano pure rodendo i teneri germogli delle spalliere, singolarmente quando il tempo è umido, o che minacci la pioggia. Il chermes, simile a quello che fu già descritto parlando dell’ulivo, si nasconde nel verno tra gli strati sollevati della corteccia della vite (fig. 295), oppure sui rami dalla parte che guardano il muro. Vi ha pure la caruga comune (vedi fig. 245); la caruga verde della vite (fig. 296) che a numerosissimi sciami in breve ora rode le foglie d’intieri vigneti; ed il punteruolo il quale, come ambedue le citate carughe, passa dapprima per lo stato di verme, piccolo, bianco, liscio, con testa gialliccia; la crisalide è bruna, e l’insetto perfetto, rappresentato dalla figura 246, è color azzurro lucente o verde dorato. In primavera questo piccolo coleoptero esce a rosicchiare i germogli del pero, del pesco, e di preferenza quelli della vite; la porzione superiore alla parte rosicchiata avvizzisce, si piega in basso, le foglie si accartocciano ed in quest’accartocciamento la femmina depone le uova, che non sono mai più di quattro. In poco tempo da queste uova nascono i piccoli bruchi che rodono le foglie, e che divenuti anch’essi insetti perfetti, vanno a continuare il guasto dei loro genitori. L’unico mezzo per rimediare al danno di questi insetti è la caccia, come fu già indicato parlando d’altre piante, e pel punteruolo il miglior mezzo è quello di levare i cartocci, mano mano che si vedono, e di abbruciarli.
La pirale della vite è un altro insetto che fa grandissimi guasti alla vite. Compare due volte l’anno allo stato di larva (fig. 297). La prima comparsa avviene all'epoca della fioritura, ed allora rode le foglie ed i teneri grappoli, i quali avviluppa con molti sottilissimi fili. Nell’autunno, fra i grani di questi grappoli si osserva nuovamente la larva. Nell’inverno nascondonsi nei piccoli bozzoli aderenti ai muri od alla vecchia corteccia dei gambi, o nelle fessure dei pali. Nell’aprile o nel maggio escono le farfalle (fig. 298) bianco-giallastre, le quali nel principio di giugno depongono le uova sui fili serici che rivestono i grappoli. Per rimediare ai danni di quest’insetto alcuni levano ed abbruciano quelle parti ove trovano la ragnatela, passano ai forno i pali onde distruggere le uova che vi si annidassero, e levano le vecchie corteccie che stanno per istaccarsi. Altri passano con acqua bollente tutti i gambi della vigna.
§ 937. L’uva allo stato fresco può essere conservata anche per cinque o sei mesi, quando vengano usate le precauzioni che andrò accennando. Avanti tutto importa che l’uva sia ben matura, epperciò è d’uopo lasciarla molto tempo sulla vite, ancorchè il termometro segni il gelo, ed anche qualche grado al dissotto, purchè il tempo sia bello e ventilato; a tale scopo l’uva della spalliera, e singolarmente quella piuttosto alta da terra, può essere difesa da tele e pagliate. Quando però l’umidità della stagione, od il gelo, possano far temere che l’uva abbia a soffrire sarà bene farne il raccolto, procurando di scegliere una giornata serena e piuttosto ventilata, aspettando dopo il mezzogiorno perchè l’uva riesca più asciutta.
Le varietà d’uva che meglio si prestano alla conservazione sono quelle ad acini rari, a lungo picciuolo, e buccia piuttosto dura; ed in qualunque modo deve essere ben monda da qualunque parte od acino guasto od ammuffito.
Il locale dove intendasi di conservare l’uva sarà asciutto, ed in posizione di tramontana acciò non risenta le pronte variazioni di temperatura, ma nello stesso tempo sarà disposto in modo che non vi penetri il gelo; insomma si allestirà come le fruttiere di cui vi parlerò più avanti. L’uva in questi locali si può disporre sui graticci ricoperti di foglie secche o di paglia, collocandovela in modo che un grappolo non tocchi l’altro; si tien monda dagli acini che si guastano, e se l’ambiente si facesse troppo umido, in bella giornata e ventilata si aprirà perchè vi circoli aria, o meglio ancora si userà il cloruro di calce, come dirò in appresso. Alcuni usano cogliere l’uva alquanto acerba credendo che meglio si conservi, ma avviene che non essendo ben costituita e proporzionatamente molto acquosa, col tempo, evaporando, si raggrinza soverchiamente e scapita di pregio, oltre che per sè riesce meno zuccherina ed aggradevole. Questo raggrinzamento, oltre il convenevole appassimento, succede anche quando si lasci troppo di frequente un libero accesso all’aria.
Chi commercia in grande di uva conservata per l’inverno, costuma anche di riporla ben asciutta e monda in ceste di vimini, disposta a strati divisi da foglie secche, felci od altra materia soffice e ben secca; indi collocano le ceste in buche fatte nel terreno asciutto ed al coperto, ricoprendole con un palmo di terra ben unita acciò non vi passi aria. Venuto il momento di servirsene si estraggono le ceste e si pongono immediatamente in vendita pel consumo, poichè dopo 12 o 15 giorni l’uva comincerebbe a guastarsi. Con tal mezzo l’uva conserva maggior freschezza e non si raggrinza. A tal uopo potrebbero servire anche appositi ripostigli situati nelle cantine e poi riempiuti con fina sabbia ben asciutta.
Chi voglia conservare l’uva in poca quantità e soltanto pel proprio consumo potrà usare del seguente metodo. Appenda i grappoli capovolti ad un uncinetto in filo di ferro fatto ad S, e questo parimenti appendasi ad uno o più cerchi concentrici (fig. 299) tenuti sospesi in un locale, come abbiamo detto dapprima: oppure faccia costruire un telajo quadrato di circa 1m,20 di lato; a questo siano appoggiate, senz’essere fisse, tante asticelle distanti fra loro 0m,10 (fig. 300), e sulle asticelle si appendano gli uncinetti portanti i grappoli. Con tal mezzo si occupa minor spazio e si può togliere anche una asticella co’ suoi grappoli senza rompere l’equilibrio del telajo.
L’uva si commercia anche secca, e nei climi caldi facilmente se ne ottiene il disseccamento stante la grande quantità di materia zuccherina che contiene, come vediamo in quella di Malaga, di Corinto, dell’Egitto, della Calabria, della Sicilia ed anche della Provenza.
Il modo più usitato per disseccare l’uva consiste nel torcere il peduncolo o picciuolo dei grappoli alquanto prima della perfetta maturanza e nel levare le foglie che li ricoprono. Raccolta poi l’uva ben matura la si espone al sole su dei graticci, almeno per un giorno. Indi si prepara un liscivio bollente fatto con ceneri di legno di viti, cui s’aggiungono alcune piante aromatiche od odorose. Per provare se questo liscivio è preparato convenientemente vi si tuffa un grappolo tre volte, e se gli acini sono un poco screpolati è segno che va bene, ma se queste fenditure saranno numerose vi si aggiungerà un poco d’acqua, poichè sarebbe forte. Assicuratici che il liscivio sia ben composto, lo si lascia raffreddare e si passa per un pannolino ben fitto; indi lo si rimette al fuoco, e quando bolle vi si tuffa ciascun grappolo per tre volte, e si pongono sopra graticci ad asciugare al sole, ritirandoli al coperto di notte. Con ciò in tre a quattro giorni l’essicazione è completa.