Tragedie (Eschilo-Romagnoli)/Prefazione
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Chi voglia accingersi con opportuna disposizione alla lettura di Eschilo, deve innanzi tutto scancellare dalla sua mente ogni immagine della tragedia cosí detta classica: dal Trissino, giú giú, sino a Corneille, a Racine, all’Alfieri. Col dramma greco, dal quale presumerebbe derivare, questa tragedia non ci ha proprio nulla che vedere, né per il contenuto, né per le forme. Meno sviati, se mai, saremo, affissandoci al dramma inglese o al dramma spagnuolo.
Scancellata la falsa immagine, vediamo di sostituire la giusta. E cominciamo dalla scena. Quale fu la scena di Eschilo?
Intendiamoci, non parlo della reale, materiale attuazione della scena. Ne fanno un gran discutere gli archeologi e i filologi. Ma, in verità, mancano i monumenti, mancano i documenti: ed estremamente difficile, se non addirittura impossibile, sarà sempre giungere a risultati sicuri.
Fortunatamente, possiamo farne a meno. Ai fini dell’intelligenza artistica, importa pochissimo sapere qual fu il reale allestimento scenico. Tanto, per eccellente che fosse, sarà certo rimasto inferiore a quello vagheggiato da Eschilo. Questo solo importa; e questo lo vediamo senza ombra e senza lacune, nello studio dei drammi1.
Ecco, dunque, le scene di Eschilo. Ne Le Supplici, un clivo, su cui sorgono, adorni dei loro simboli pittoreschi, gli altari di tutti i Numi; e, nello sfondo lontano, un’ampia distesa di mare, nella quale si vedono avanzare le bianche vele degli Egizî. — Ne I Persiani, un’antica piazza di Susa, dove sono le ricche tombe degli antichi re di Persia. — Ne I Sette a Tebe, il bastione d’una città assediata, contro il quale viene a battere insistente l’urlo e l’urto nemico. I simulacri dei Numi protettori, dinanzi ai quali si prostrano le fanciulle, si levano, come a schermire il pericolo. — Nel Prometeo, orride impervie giogaie alpestri, dove possono giungere solo creature soprannaturali. — Nell’Agamènnone, la piana dinanzi alla reggia del re; e, dinanzi alla reggia, seggi, are, idoli di Numi. — Ne Le Coefore, prima una località del suburbio, dinanzi alla tomba d’Agamènnone, poi la piazza dinanzi alla reggia. — Ne Le Eumènidi, prima l’esterno del tempio di Delfi; poi l’interno, con l’orrida visione delle Furie; infine, la luminosa Acropoli d’Atene.
Quanto apparve in realtà, di queste visioni, sul primitivo teatro di Diòniso? E ci fu un serio tentativo di attuarle materialmente, oppure furono semplicemente suggerite, come nelle figurazioni ceramiche, mediante qualche simbolo? Non sappiamo. Ma se riguardiamo alla generica loro impronta grandiosa e pittoresca, e alla quantità di luoghi del testo onde Eschilo suggerisce tutti i particolari del quadro scenico2, facilmente collocheremo Eschilo fra i poeti di teatro che diedero grande importanza agli sfondi, elementi anch’essi, e quasi vivamente partecipi all’azione. Nessun dubbio che se egli vivesse ai nostri giorni, si servirebbe con gioia di tutte le macchine che noi possediamo per creare l’illusione scenica. Come fece Wagner, che nella sua drammaturgia tanto deriva da Eschilo. Me ne dispiace per quelle dottissime persone che si ostinano a immaginare tutte le azioni di Eschilo, e, dunque, anche il Prometeo, proiettato sullo sfondo anodino del palagio regale a tre porte.
E fin qui, nulla che distingua essenzialmente la drammaturgia d’Eschilo dalla moderna. Ora incominciano, invece, le divergenze profonde.
Allo squillo di tromba che annunziava il principio dello spettacolo, o subito dopo un breve monologo, si avanzava nella orchestra, lo spazio circolare tenuto sgombro fra la scena e gli attori, e in mezzo al quale fumigava l’ara di Diòniso, un corteo di persone che indossavano tutte il medesimo vestito. Era il coro. Elemento anch’esso costitutivo ed essenziale, non solo della costruzione drammatica, ma anche della parte spettacolosa. Era allestito con ogni cura. E nell’ideare l’azione scenica, il poeta o almeno, Eschilo, lo sceglieva tale, che suoi vestiti súbito ammaliassero gli occhi e i cuori degli spettatori, per la ricchezza, per la novità, per l’originalità.
Le vesti egizie, smaglianti, versicolori, delle Danaidi. I manti persiani anch’essi ricchi e fulgenti, dei vecchioni di Susa. I pepli svolazzanti delle supplici fanciulle di Tebe. Gli aerei veli delle Oceanine. Le lunghe tuniche elleniche dei vecchioni d’Argo, poggiati ai lunghi bastoni, quasi come favolosi animali di tre gambe. I bruni pepli delle Coefore. I vestiti delle Eumènidi, tanto orridi a vedere, che la leggenda favoleggiò di luttuose paure suscitate fra gli spettatori. Dunque un vivo, ricchissimo fregio. E un mobile fregio, che con le continue evoluzioni ritmiche, conteneva, separandoli dal pubblico, gli episodî scenici, come i rabeschi perenni che i flutti innumerabili compongono e scompongono al limite estremo della spiaggia, fra la terra e il mare infinito.
Questi coreuti entravano dunque, cantando e sfilando, lentissimi, su una melodia di ritmo anapestico, cioè di marcia. La sfilata era in genere lunga. Nell’Agamènnone, per esempio, di 63 versi, quasi tutti tetrametri trocaici — corrispondenti ciascuno a 4 battute di tempo 2/4. Siccome erano, dicemmo, di movimento lentissimo, anche supponendo che non fossero interrotti mai da pause occupate da semplici movimenti o da interludî strumentali, non potevano durare meno di 10 minuti.
Compiuta questa evoluzione — si chiamava pàrodos — che dunque doveva percorrere piú volte l’orchestra, i coreuti si aggruppavano d’intorno all’ara di Diòniso. E qui, compiendo una nuova serie di evoluzioni, di ritmo piú vario e piú ricco, cantavano una serie di strofe e di antistrofe. Anzi, in origine, a ciascun gruppo di strofe e di antistrofe dové seguire un epodo (formandosi cosí altrettanti sistemi, come negli epinicî e in tutta la lirica corale). E, secondo ogni verisimiglianza, la strofe era accompagnata da una evoluzione a destra, l’antistrofe a sinistra: nell’epodo, tutti raccolti di nuovo intorno all’ara.
Il tempo impiegato in queste evoluzioni d’intorno all'ara — si chiamavano stàsimi3 — non era breve. Il primo stasimo dell’Agamènnone pur ripetendo per esso le considerazioni già fatte per la pàrodos, non poté durare meno di 25 minuti. Sommandoli ai 10 di prima, abbiamo mezz’ora e piú di musica. Dirlo, è nulla. Ma in realtà, questo solo primo ingresso del Coro durava quanto un lungo atto d’un nostro melodramma.
Rimanendo sempre nell’Agamennone, a questo primo corale segue un breve episodio drammatico, il racconto, fatto da Clitennestra, del sacco di Troia, e dei notturni segnali di fuoco che ne hanno recato l'annunzio sino ad Argo. Noi non sappiamo precisamente qual carattere avesse la recitazione degli attori greci. Ma, per solenne e strascicata che s'immagini, questa scena non poteva durare piú di 10 minuti. Poi, tre altre coppie di strofe e di antistrofe, nuovamente cantate ed accompagnate da evoluzioni. Dai quindici ai venti minuti.
Altro episodio drammatico, l’arrivo e il racconto dell’araldo, e poi quattro nuove coppie strofiche. Altro episodio, l'arrivo di Agamènnone e la sua discussione con Clitennestra. Due nuove coppie strofiche, e poi, dopo la brevissima scena in cui Clitennestra invita invano Cassandra ad entrar nella règgia, la terribile scena fra la profetessa ed il coro; che in tutta la prima parte, di ben 120 versi, era cantata, e doveva occupare un lungo spazio di tempo. Dopo l’uscita di Cassandra, ancora un canto del coro. L’urlo mortale d’Agamènnone. Esce dalla reggia la regina omicida, e dopo la breve esaltazione del suo delitto, incomincia la lamentazione del coro, che si estende per 118 versi (dal 1449 al 1596). Le sarcastiche interpunzioni di Clitennestra non erano cantate, bensí declamate sopra un accompagnamento di flauti o di lire4. Ma questo particolare, né alterava il carattere musicale del brano, né diminuiva la lunghezza, che davvero era qui notevole. La declamazione d’Egisto, che seguiva súbito dopo, durava 73 versi trimetri giambici. Poi, sino alla fine, subentravano i tetrametri trocaici, 25. La ragione del mutamento ritmico mi sembra palese. La musica, interrotta durante l’uscita d’Egisto, riprendeva, nella forma di accompagnamento strumentale alla declamazione. Nella concitata vibrazione del trocheo, ben cònsona alla violenza dell’azione, accompagnava il dramma, qui, come nell’Edipo re, alla sua conclusione.
Non costringiamo piú oltre i risultati di questa disamina in cifre, che d’altronde non potrebbero essere se non molto approssimative. Ma è certo che non solo dobbiamo tenere ben distinto, dal lato formale, il dramma d’Eschilo dal dramma moderno; ma dobbiamo anche guardarci dal piú facile equivoco di considerare le parti corali, o meglio musicali, come intermezzi. Queste costituiscono la parte principale della tragedia. Sono come un gran fiume, che corre lento e maestoso dal principio alla fine; e lungo il suo corso ci arrestano qua e là, come isole, gli episodî drammatici. E la struttura, precisa, perché musicale, delle parti corali, influisce anche sulla struttura degli episodî, i quali sono costruiti spesso con simmetrie ed esatte rispondenze, che giungono dalle piú ampie linee alla precisione dei dibattiti che si svolgono verso contro verso (sticomitíe), come un incrociar di spade, e sono confusi in cento varî intrecci con le parti cantate dal coro o dagli attori. In conclusione. il dramma eschileo, per la sua costruzione, somiglia piuttosto ad un oratorio, nella forma in cui non parla il narratore, ma agiscono, autonomi, i personaggi; oppure ad un melodramma, in cui gli episodî siano un po’ come sommersi in un corale continuo. Insomma, non ad un moderno dramma recitato, bensí ad un melodramma, con i suoi tagli precisi, e con le infinite risorse del canto e degli strumenti.
***
Da ciò che si è detto, emerge chiaro quanto debba riuscire insufficiente ogni traduzione in prosa, ed anche ogni traduzione in versi che in una omogenea serie di endecasillabi confonda e cancelli ogni maggiore o minore divisione e variazione ritmica. Tanto piú che queste variazioni, se in parte rimanevano affidate alla fantasia e al gusto del poeta, in parte erano anche obbligate, e servivano a caratterizzare certe parti comuni a tutti i drammi. Cosí, come abbiamo veduto, il primo canto d’ingresso era in ritmo anapestico, cioé di marcia, perché doveva guidare il passo dei coreuti. Se però l’entrata era movimento rapido e concitato, gli anapesti potevano essere sostituiti da ritmi trocaici o giambici (6/8 in battere e 6/8 in levare). Poi, in genere, il ritmo seguiva docilmente e si mutava secondo le vicende dell’azione. A questo principio, i poeti greci ubbidivano tanto, da giungere a formular norme teoriche.
Per fortuna tutti i ritmi schietti ed omogenei si possono trasportare integralmente da lingua a lingua. I dubbî sollevati con insistenza, provano soltanto la minor lucidità di chi li esprime.
Altro è invece il problema per i miscugli di ritmi, ossia per gran parte dei gruppi strofici degli stàsimi. Qui non abbiamo più membri ritmici integri. bensí pieni di lacune, riempiute una volta dalle note musicali, e delle quali non sempre — sebbene spesso — possiamo determinare la durata5. Un calco di questi monconi non potrebbe riuscire che un mostricino. Ricostruire, al lume di principî ritmici generali, lo schema originario, sarebbe possibile. Ma questo schema sarebbe melico e poetico, e non suscettibile di offrire un giusto fulcro ai vocaboli.
D’altra parte, esiste un verso italiano, che, al pari delle strofe meliche greche, comporta la piú varia mescolanza di ritmi: esiste l’endecasillabo. Questo, variamente combinato coi suoi sottomultipli, il settenario e il quinario, o, secondo la varia opportunità, con ritmi d’altra famiglia, rimane sempre, mi sembra, il migliore strumento per rendere la molteplicità ritmica dei cori.
Io ho aggiunto spesso la rima. Non esiste, come tutti sanno, nel testo greco. Peró, quando le strofe erano musicate, il fine dei versi e dei periodi era certo distinto dalle cadenze, che sono appunto le rime del discorso melico. La nostra rima non è forse inutile a restituire quella ulteriore armonia perduta con la perdita della musica.
E qui bisogna risolvere un altro equivoco. Sin dall’antichità, la poesia di Eschilo fu caratterizzata come dura, aspra, rupestre. Aristofane l’adombrava con questi versi (Rane):
Scotendo della giubba natía le folte chiome,
rotando orrido il ciglio, dal labbro digrignante
l’uno avventa compagini ferree di motti, come
tavole una tempesta con soffio da gigante.
E tale è difatti Eschilo. Ma per l’arditezza e la stranezza delle immagini, per i voli e gli scorci dei concetti, per la libertà fiera nel coniare i vocaboli. Ma questa durezza o asprezza o come vogliate chiamarla, non si estende e non àltera l’armonia del verso. Il suo trimetro giambico, il verso quasi costante delle parti drammatiche, è fra i piú pieni rotondi armoniosi che noveri la poesia greca: piú dei trimetri di Sofocle, piú di quelli di Euripide, che si sbilanciano, gli uni e gli altri, per la copia di battute irrazionali, utili, d’altronde, alla spigliatezza del dialogo, e via via progredienti con l’accentuarsi del carattere drammatico. E persino i cori, che molti vagheggiano come profondi abissi di armonie trascendenti ed ermetiche, sono sempre semplicissimi e chiarissimi, e spesso in ritmi popolari, da canzonetta. S'intende che la musica poteva renderli, e, quasi certamente, li rendeva piú solenni.
Ma quanti non possono accedere al testo, e quanti leggono i versi greci senza tener conto del ritmo, e dunque li sentono davvero come caotici accozzi di sillabe, volentieri si figurano che quella asprezza o durezza debba caratterizzare anche i versi e le strofe. E, se non la ritrovano nella traduzione, dicono che il carattere eschilèo non c’è.
Ora, chi offrisse una traduzione ispirata a questo equivoco, non solo rischierebbe di disgustare e allontanare i lettori sin dai primi versi; ma tradirebbe nel modo piú essenziale la poesia d’Eschilo che, come si libra spesso nel cielo, così ha sempre l’armonia delle sfere.
Or qui, usciti dalle forme, saremmo giunti a parlare del contenuto, o meglio della essenza del dramma di Eschilo. Ma qui, nella prefazione a questo volume che inaugura la collezione dei Poeti greci da me tradotti, debbo dichiarare che, cosí per Eschilo, come per gli altri poeti, quanto piú dalle questioni obiettive mi avvicinerò alle subiettive, tanto piú sarò sobrio. Io intendo compiere opera d'esegeta: intendo portare i poeti di Grecia dinanzi alla sensibilità di ciascun lettore, mettendo in ombra quanto è possibile la mia, che d’altronde è già intervenuta, e quanto, nell’opera della traduzione. Un’opera di poesia tradotta non è certo l’equivalente assoluto dell’opera originale. Ma per asserire, come fa taluno. che l’una non abbia proprio nulla che vedere con l’altra, bisogna aver l'animo temprato sette volte nei fiumi della sofistica. Volere o non volere, se il traduttore non è un guastamestieri, la versione sarà sempre un riflesso abbastanza fedele dell’originale6. E chi sia ignaro della lingua originale, riuscirà sempre, mercè della traduzione, a farsi un idea dell'opera. Ma se io vi offro un mio saggio critico su Eschilo, allora veramente vi presento il mio Eschilo, e vi suggerisco anche le impressioni artistiche. Non dico che sia inutile farlo; ed anch’io l'ho tentato. Ma in questa sede, lo reputo superfluo.
Pur tuttavia, senza quasi distaccarci dal campo puramente obiettivo, possiamo rilevare alcuni caratteri essenziali pei quali la drammaturgia d’Eschilo si distingue piú profondamente dalla drammaturgia moderna.
Osserviamo, anche una volta, la Orestèa, che, per essere una trilogia, consente piú sicure conclusioni. Ora, qui si vede chiaro, mi sembra, come il poeta, postasi innanzi una vasta materia mitica, contenuta nel giro di piú anni, non abbia trascelto questo o quell’episodio che maggiormente lo interessasse, per intrecciarvene poi altri secondarî, in linea subordinata: bensí abbia fatto sfilare dinanzi ai nostri occhi molti episodî. Né li altera per ridurli a speciali leggi drammatiche, né inventa stnazioni nuove che gli giovino ad intrecci.
E neppure tien conto delle elementari esigenze di luogo o di tempo. Delle prime già parlammo. E quanto alle seconde, la semplice esposizione dei drammi basta a provare che i famosi teorici delle ventiquattro ore non dovevano aver letto mai l‘Orestèa. Basta osservare che fra l’Agamènnone e le Coefore intercedono per lo meno dieci anni, il tempo che Oreste da bambino divenga giovine. Però lasciamo andare, queste son come due giornate della trilogia. Ma nell’Agamènnone, in una scena Clitennestra annuncia la presa di Troia, avvenuta in quella medesima notte; e nella scena seguente giunge l’araldo da Troia. E per andare da Troia ad Argo, in quei tempi, ci volevano parecchie settimane. E, per giunta, la traversata era stata impedita da una fierissima tempesta. Altro che ventiquatt'ore!
Dunque, né tempo né luogo, né alcun altro impaccio, né, se preferite, alcun altro legame d’indole drammatica, che costringa il poeta. Il poeta espone liberamente il mito nella successione cronologica dei suoi episodî, in una sequela di scene. E gli episodî che non può direttamente rappresentare, li fa narrare da personaggi o evocare liricamente dal coro. La drammaturgia di Eschilo é una drammatizzata esposizione di miti. Con lui abbiamo il dramma in servizio del mito.
Questa forma, questi caratteri del dramma di Eschilo, erano legati ad una tradizione. Possiamo conoscerla? Quali modelli ebbe dinanzi a sé Eschilo? E donde provenuti? In altre parole, quali furono gli incunaboli, quale l'origine della tragedia?
E súbito ci balza avanti la famosa testimonianza di Aristotele: «La tragedia fu in origine una improvvisazione dei corifei che guidavano i ditirambi».
E che carattere avevano questi ditirambi? Un antichissimo vaso greco dipinto del Museo di Bologna rappresenta appunto un corteo bacchico. Aprono la via due donne, segue un toro, e dietro al toro altre due persone. Viene poi un carro a foggia di barca, tratto da due sileni, che compiono la funzione di cavalli. Sovra il carro è seduto ed avvolto in un gran mantello il nume Diòniso, dinanzi e dietro a lui, altri due satiri suonano il doppio flauto. A poppa del carro è collocata una specie di cesta, che conteneva gli arredi pel sacrificio. Chiudono il corteo un fanciullo affaccendato a sostenere la cesta, una matrona, un altro giovinetto.
Ecco dunque la cerimonia dionisiaca, il ditirambo. Quando il corteo sarà giunto alla mèta, verisimilmente all’aia di Diòniso, il toro verrà sacrificato, e i satiri intoneranno i rozzi loro canti in onore del Nume. Da questi rozzi canti ebbe origine la tragedia.
I monumenti dell'antichissima tragedia mancano assolutamente, le notizie indirette sono scarsissime. Ma anche nella loro scarsità offrono il mezzo di ricostruire con sicura induzione i principali momenti dello sviluppo per cui da queste umili origini si giunge alla solenne tragedia di Eschilo.
In un primo stadio si die’ forma stabile al coro di satiri, e si affidò ad essi, invece delle solite improvvisazioni, un canto già scritto in versi, che fu detto ditirambo (Suida in Arione). Suida attribuisce questa novità ad Arione che perciò sarebbe stato salutato inventore della tragedia. Ma s’intende che i nomi importano poco.
Questi primi canti, d’indole lirica, erano composti, sull esempio della lirica corale che veniva fiorendo per tutta la Grecia, in coppie, corrispondenti di strofe e antistrofe7. Ma ben presto il carattere lirico tramutò in drammatico. Di questo carattere drammatico assunto dal coro, senza partecipazione di attori, abbiamo esplicite testimonianze in Diogene Laerzio ed in Ateneo. Quegli ci dice (III, 50) che il solo coro «rappresentava l’azione»; questi (XIV, 630) che tutta la tragedia si originò dal coro, perché non aveva attori.
Ora, in che dové consistere tale drammatizzazione del coro? Semplicemente in questo: che il coro si scisse in due semicori: l'uno dimandava, l'altro rispondeva. Dialogo diretto, dunque dramma.
Questa ovvia induzione viene confermata, se ce ne fosse bisogno, dal Teseo, ditirambo di Bacchilide, scoperto in questi ultimi anni nei papiri egiziani, e che ci presenta appunto questa forma. Il coro è diviso in due parti. L’una chiede notizie al re Egeo delle gesta del fanciullo Teseo, la cui fama giunge sino ad Atene: l’altro risponde riferendo le notizie meravigliose.
coro
Re de la sacra Atene, dei magnifici
Ionî signore, ond’è che da la bronzea
fauce la tromba un cantico di guerra
fe’ risuonare? Ai limiti
forse di nostra terra
giunse un infesto condottiere? Od impeto
fêr sui pastori, e a forza innanzi cacciansi
tristi predoni la belante greggia?
O il cuor che t'amareggia?
Parla: poiché s’altro mortal di giovani
a sua difesa tien gagliardo stuolo,
a te certo non mancano,
o di Creusa e Pandïón figliuolo.
egeo
Un araldo testé giunse, che l‘istmïa
lunga via fe' pedone; e le incredibili
gesta narra d’un uom valido. A morte
pose il ladrone Sínide,
dei mortali il più forte,
figliuolo del Litèo Croníde, ch’agita
la terra; e il crudelissimo
Scirone uccise, e l'omicida belva
ne la crommíona selva;
e fine pose ai ludi di Cercíone;
e Procuste gittò, da quel gagliardo
prostrato, il duro malleo.
Però con tema all’avvenire io guardo.
coro
Chi dice esser quest'uomo? e la sua patria?
e il vestir? Giunse con un grande esercito,
con guerreschi apparecchi, o inerme e solo,
qual mercante randagio,
sopra straniero suolo,
forte cosí, valente e temerario,
che fiaccò di tali uomini
l'immane possa? Un Dio certo gli regge
i passi, perché legge
ai vïolenti ponga: ché difficile
a chi ognor si cimenta, è da sventura
serbar sé stesso incolume. E il lungo tempo ogni evento matura.
egeo
Dice che due mortali l’accompagnano
soli; e la spada giύ dai fulgenti omeri
pende, e due giavellotti ha ne la mano
lucidi, e sui crin’ fiammei
un vago elmo spartano;
e il sen gli stringe una purpurea tunica,
e una tessala clamide
villosa, e roggia da la sua pupilla
lemnia vampa scintilla;
che adolescente è appena, e d’Ares l’orrido
gioco, e la guerra, e il bronzeo lo appaga
fragore de la mischia,
e cerca Atene, che del bello è vaga.
Cosí l’unità originaria del Coro era franta. C’era dialogo: la lirica era divenuta dramma. A dire il vero, al nostro sentimento repugna pensare la parte di un solo personaggio (qui, per esempio Egèo), affidata ad un coro. Ma si pensi che anche nei primi tentativi moderni di combinazione della musica coi dramma, domande e risposte erano cantate, come nei madrigali, da cori a 5 voci. Cosí ancora, nell’Anfiparnasso di Orazio Vecchi (1594).
Ma, in séguito, ai due semicori si uní un attore. Un solo. Abbiamo la esplicita testimonianza di Aristotele: «Prima di Eschilo - egli dice — la tragedia aveva un solo personaggio». A me sembra che questa singolare limitazione gitti uno sprazzo di luce sulle antiche sorti della tragedia. Perché mai questo personaggio unico? Stabilito il principio di aggiungere al coro personaggi drammatici, non si vede la causa di questa limitazione. Esempî di composizioni drammatiche e di azioni sceniche con pluralità di persone non mancavano, se non altro nelle farse popolari che, come sappiamo, risalivano a grande antichità. Evidentemente, questa limitazione si deve a influsso e legame tradizionale. E il germe della tradizione è, secondo me, in questo fatto: che la tragedia primitiva non volle attingere elementi estranei, bensí adoperò quelli che aveva sotto mano. Nella cerimonia ditirambica, oltre al coro dei satiri, c’era Diòniso. E Diòniso fu assunto ad accrescere il numero degl’interlocutori della tragedia nascente. Già da tempo gli studî archeologici hanno provato che il vestito degli attori tragici era appunto il vestito di Diòniso.
***
E forse possiamo ricostruire ancora qualche altro anello della catena che stringe il ditirambo originario alla tragedia d’Eschilo.
Abbiamo visto che il dramma d’Eschilo — e piú, aggiungiamo, quello di Sofocle e di Euripide — al pari del moderno melodramma, era diviso in tanti pezzi. Ora, una analisi di tutti i drammi greci superstiti, ci mostra come molti di questi pezzi, e massime i corali, avessero forma e contenuto obbligati. E, piú specialmente, gli stàsimi, e specie quelli di Eschilo, che, naturalmente, rispecchiano con maggior fedeltà la tragedia primitiva, contengono nella gran maggioranza preghiere a questa o quella divinità. E preghiere di carattere speciale: invocazioni ai Numi, perché scendano dall’Olimpo fra i loro devoti. Talvolta in una medesima strofa tale invocazione vien ripetuta due o tre volte.
E tale dové essere appunto il contenuto del ditirambo iniziale. Una invocazione insistente, alla quale seguiva la apparizione del Nume.
Ecco dunque, senza voli eccessivi di fantasia, ricostruita la immagine della tragedia primitiva. Il coro dei satiri, diviso in due semicori, rivolgeva ardenti invocazioni al Nume perché si mostrasse ai suoi devoti. Ed ecco il Nume, Diòniso, il primo attore, apparire. Apparire, e, naturalmente, narrare qualche sua vicenda, qualche episodio della sua passione.
E qui altre testimonianze dirette di Aristotele ci permettono di arricchire questa schematica immagine.
La tragedia primitiva aveva breve estensione. Il carattere ne era satiresco, ossia giocoso, e consentaneo alla natura sollazzevole dei satiri. Lo stile, burlesco. Il metro — e si deve intendere il metro della parte piú propriamente drammatica, ossia della narrazione dell’attore e dei suoi dialoghi col coro — il tetrametro trocaico, che corrisponde perfettamente, dal lato ritmico, al nostro ottonario doppio, ed è il metro della poesia popolare originaria di tutti tempi e di tutti i luoghi. Infine, le azioni erano danzate. E a questo proposito, sappiamo da Ateneo (p. 22) che i primi poeti tragici venivano chiamati ὀρχησταί, danzatori.
La forma era, piú o meno, stabilita. Ma un cambiamento profondo, essenziale, avveniva poi nel contenuto: la tragedia perdeva tutti i suoi elementi comici. Come e perché?
Aristotele, con la solita brevità, ci dice che lo stile (λέξις) piú tardi divenne piú dignitoso per la perdita del carattere satiresco. Ora, è facile stabilire il momento in cui avvenne tale trasformazione. Concepire satiri dignitosi è impossibile: dignità e satiri sono termini inconciliabili. Perché il linguaggio divenisse dignitoso occorreva che sparissero i satiri.
E i satiri sparirono quando sparí Diòniso.
Ed anche qui, non sapremmo, e non importa un bel nulla, stabilire date e luoghi precisi. Ma è certo che, mentre la tragedia continuava ad esser chiamata dramma dionisiaco, ed a rimanere sotto la tutela di Diòniso, un bel giorno non si videro piú sulla scena né il Nume vaghissimo, né i suoi compagnoni codiferi. Allora dalle file degli spettatori partí il grido giunto sino a noi: Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον — di Diòniso non c’é piú neppur l'ombra!»
Per quale ragione poi sparisse Diòniso, mi sembra anche facile indurlo. Intanto, per amore di novità. Gli episodî della sua passione erano molti, ma non moltissimi; e si rassomigliavano l’un altro. Dopo un certo tempo, quelle rappresentazioni divenivano note e arcinote.
Ma, innanzi tutto, la tragedia ditirambica, col suo dialogo drammatico, con la sua massa di coreuti pittoreschi, con i suoi cori, con le sue danze, con la scena e col pubblico, schiudeva ai poeti di Grecia un nuovo e fecondo campo di attività artistica.
Finora la ricchissima ganga dei miti aveva avute parecchie elaborazioni. Una plastica, un’altra lineare, una terza narrata, nell’epica, una quarta cantata e danzata, nella lirica corale.
Adesso, il ditirambo drammatico faceva balenare la possibilità di una nuova espressione, che accogliesse in mirabile sintesi tutte le precedenti. Le figure di cui favoleggiavano Omero e Pindaro, avrebbero potuto incarnarsi in vere persone, viventi e favellanti: le sculture mirabili che gremivano i frontoni dei templi, le vie, le agore, potevano, come nel prodigio di Rodi magnificato da Pindaro, muoversi e schiudere le labbra.
Cosí tutta la folla degli eroi e dei Numi si riversò a mano a mano sulle scene, sempre piú belle e lussuose, delle rappresentazioni ditirambiche; e a Diòniso fu serbato l’ufficio dignitoso e rappresentativo di Nume tutelare, e i satiri furono inesorabilmente banditi.
***
Via via, la breve tragedia ditirambica si ampliò. Vi fu, dice Aristotele, una moltitudine, una moltiplicazione di episodî. E l’analisi accurata delle tragedie superstiti, le quali, sotto polpe nuove, racchiudono scheletri antichi, ci permette di definire con sicurezza come avvenne, e quale carattere assunse questa moltiplicazione. Essa fu una vera e propria gemmazione. Al coro primitivo s’era aggiunto il racconto d’un personaggio estraneo al coro. Dopo il racconto, si ripeté un altro brano corale, a questo succedé un nuovo racconto; e cosí via.
Ma in questa serie alterna occorreva introdurre qualche segno che le imprimesse cantiere di organismo, di composizione chiusa, con un principio e una fine ben distinti. E allora, il primo e l’ultimo canto assunsero speciali caratteristiche, di cui parleremo, e che li designarono rispettivamente come il principio e il fine della serie.
Non basta. Abbiamo visto che i canti corali erano strofici: cioè composti di strofe uguali. Avvenne allora naturalmente che questi brani misurati diedero in certo modo il modello anche ai brani drammatici intercalati fra essi. Anche questi riuscirono dunque misurati, sebbene con meno rigore. E cioè, nei dialoghi, unici elementi drammatici della tragedia primitiva, a ciascuno dei due interlocutori veniva assegnato un numero preciso di versi. Per i discorsi lunghi la uguaglianza molto probabilmente non fu assoluta. Ma assoluta diveniva quando il dialogo incalzava. Cosí abbiamo nelle tragedie lunghi dialoghi in cui a ciascuno dei personaggi sono affidati tre versi: in altri, due: assai piú numerose e dilette ai poeti le sticomitíe, i contrasti, in cui due interlocutori recitano alternativamente un verso ciascuno: un incrociarsi e battere di ferri.
E come nelle parti dialogate, cosí negli intrecci fra le parti liriche e le parti drammatiche, si stabilí e rimase poi dommatica una grande simmetria, per la quale la tragedia greca, dalle prime di Eschilo alle ultime di Euripide, assunse il tipo che abbiamo giá caratterizzato.
A questo punto del suo sviluppo, l’organismo della tragedia é concluso. D’ora innanzi, muterà la superficie, ma lo scheletro, la membratura, la sostanza fondamentale, rimangono quelli, cooperando a tale stabilità la tendenza, insita in ogni ramo dell’arte greca, e visibilissima nelle arti figurate, a non compiere salti, ad effettuare ogni progresso mediante piccole, e talora insensibili aggiunte alle forme giá esistenti.
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Nella mia ipotetica ricostruzione delle origini e delle primissime vicende della tragedia, non ho dovuto distaccarmi dalla testimonianza aristotelica. Né me ne ero distaccato, anni sono, nel mio Teatro Greco. Se non che, da piú parti mi fu rivolto il rimprovero che io non abbia tenuto conto delle nuove ricerche, delle nuove scoperte scientifiche.
Ma, vediamo un po’, a che si riducono, in sostanza, queste scoperte? Adoperandosi, secondo la critica manía moderna, a dimostrare che la verità era proprio il contrario di quanto ci avevano trasmesso gli antichi, Crusius e Schmidt fanno derivare la tragedia dal culto degli antenati e dalla celebrazione della passione dell’eroe: culto congiunto con quello di Diòniso per il suo carattere ctonio. Rohde e Dieterich andarono a pescare nel mare infido dei Misteri Eleusini, dove Diòniso aveva pure gran parte: Ridgeway, infine, saltò il Rubicone, staccò il culto di Diòniso dal culto dei morti, e in quest’ultimo cercò l’origine del coro tragico, e, dunque, della tragedia. Οὐδὲν πρὸς τὸν Διόνυσον: di Diòniso non c’è piú neppur l’ombra, esclameremo anche noi, come quell’antico spettatore deluso.
Ora, io ho le mie brave ragioni per non ammirare troppo queste famose scoperte. Ma anche i piú convinti loro zelatori devono ammettere che sono sempre ipotesi. E allora, per accogliere ipotesi, e supponiamole pure abbastanza ben fondate, converrà sbalzar di seggio la testimonianza d’un uomo di genio, che ebbe sott’occhio una copia immensa di documenti? Ma, si obietta, le nuove ipotesi spiegano alcuni caratteri della tragedia che rimangono inesplicati a chi segua la testimonianza aristotelica. Ah, no davvero, signori miei! Quando mi venite a dire che il carattere della tragedia «è determinato da un senso religioso, ma non da un senso religioso dioninisiaco», io vi accoppio con quell’eroe d’una favoletta tedesca che andava a sentir crescere l’erba. Il senso religioso dionisiaco — si obiettò pure,8 — avrebbe dato luogo a piú libere forme» — E chi lo dice? Le creature dell’arte, al pari degli uomini, nascono come possono, e arrivano dove meno si crede. Il tragico ditirambo originario rinchiudeva in sè due germi: uno tragico, l’altro comico, Il comico, a poco a poco, avvizzí, l’altro crebbe, divenne arbusto ed albero fronzuto. Non potrei giurare che avvenisse proprio cosí, ma non c’è nulla d’inverosimile. E finchè la inverisimiglianza non sia ben provata, non c’è proprio ragione di spengere, in tanta oscurità, l’unico raggio di luce: Aristotele.
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E un altro fioco bagliore, in questi ultimi anni, ha brillato in quel fittissimo buio. Già da molto tempo si era osservato che tra gli incunaboli della tragedia bisogna annoverare anche le varie rappresentazioni mitiche che avevano luogo in parecchi riti religiosi, e, in primo luogo, nei Misteri. Ora, qualche anno fa, in una casa pompeiana, s’è scoperta una serie di affreschi, che, senza dubbio, riproducono una rappresentazione dionisaca. Non c’è dubbio, mi pare. L’ha dimostrato, in un dottissimo e ingegnosissimo libro, Vittorio Macchioro9.
Questi affreschi rappresentano una giovane che viene iniziata ai misteri orfici, assistendo e prendendo parte alle seguenti Scene:
I. - Un’agape sacra. Su un plinto siede una sacerdotessa, che con la sinistra scopre un canestro offertole da un’ancella, e con la destra offre un ramo di mirto ad un’altra ministra, che vi versa sopra, da un vasetto, una libagione.
II. - Una satirisca, concepita certo come vergine, offre la mammella ad un cerbiatto. Lí presso, un altro cerbiatto. Un satirello, per contemplare, ha smesso di suonar la zampogna. Séguita invece a suonar la lira un vecchio Sileno. La scena rappresenta, quasi di certo, l’allattamento di Diòniso; e, simbolicamente, la rinascita in Diòniso di chi s’inizia.
III. - È una scena stranissima. Un satiro presenta uno specchio rotondo, e, si direbbe, concavo, ad un adolescente, che vi si contempla. Ma dietro lui un altro fanciullo regge, sospesa in maniera che si rifletta anch’essa nello specchio, un’orrida maschera nera. Certo il primo giovinetto, contemplandosi, riceverà l’impressione che la propria faccia sia orrendamente trasformata. É una scena di affascinazione. E la maschera fosca, con gli occhi spalancati, dove il bianco larghissimo anello della sclerotica cinge la negra pupilla come un macabro alone, è tale, che desta anche in noi un senso di raccapriccio.
IV. - Diòniso stretto alla sua Arianna. Si sa che presiedeva tanto ai misteri, quanto alle rappresentazioni drammatiche.
V. - Un dèmone (o una dimonia?) fústiga una donna nuda. Forse la dolorosa mortificazione era indisperisabile a conseguire la perfezione mistica.
VI. - Una donna ignuda balla, accompagnandosi col suono di due nàcchere. Dietro lei, un’altra donna, interamente vestita, sembra dileguare. Un tirso, fra le due figure, garantisce il carattere dionisiaco.
Queste le figurazioni, eliminata la prima, che non appartiene, mi sembra, alla rappresentazione mistica. Sui particolari possono cadere dubbî; non però sull’insieme; e quelli avanzati con tanta insistenza per condurre questi affreschi nella sfera anodina delle rappresentazioni generiche, sono ispirati alla manía, tanto frequente negli eruditi, di far buio dov’è luce. Nel conplesso, queste pitture dànno veramente un’idea delle rappresentazioni mistiche. Esse ci svelano, in forma concreta, un lembo di quella vita misteriosa che dalle più remote origini accompagna via via il popolo greco, rimanendo nanascosta nell’ombra dei santuarî e delle sette filosofiche, ma proiettando sopra ogni forma d’arte un suo strano colore, scomparso a mano a mano sotto i varî strati della poco veggente erudizione10. E nel nostro caso speciale, tutti vedono quanto il carattere di queste rappresentazioni, pittoresco e taumaturgico, armonizzi con la tragedia di Eschilo. Il quale, nato ad Eleusi, fu, sin da fanciullo, imbevuto di quell’aura mistica. Egli stesso lo dice, nelle Rane d’Aristofane:
Demètra, tu che il pensier mio nutristi,
de’ tuoi misteri fa’ che degno io sia.
Spero che questi elementi, quanto ho potuto obiettivi, gioveranno a guidare il lettore attraverso la poesia eschilèa, alpe sempre sublime e fiorita di selve, ma spesso malagevole e impervia. Serviranno anche, spero, a rendere ragione di certe sue singolarità e stranezze, non imputabili alla minor maestria dell’artista, bensí alla tirannia inviolabile della tradizione.
Tale l’unità di luogo. Intesa l’origine dal dramma tragico, si vede come essa era legata alla continua presenza del còro. Legame di tradizione, dunque, e non già cànone della drammaturgia eschilèa. Tanto vero che Eschilo lo frange.
E dalla stessa presenza del coro derivano anche la debolezza e la inverisimiglianza di molte scene del teatro eschileo, e del teatro greco in genere. E come non sono imputabili al poeta, cosí non sono imputabili alla originaria concezione del dramma.
Sono uno dei fenomeni di sopravvivenza superflua, comuni nell’arte come nella vita. Infatti, sinché la tragedia mantenne il suo carattere primitivo, il coro, anziché incomodo, era necessario. Esso udiva e rispondeva ai racconti dell’unico personaggio. Ma quando i personaggi divennero più numerosi, Eschilo, e poi i suoi successori, naturalmente concepirono una creazione più piena, in cui l’azione, distaccatasi dalla placenta del lirismo, si svolgesse essenzialmente fra i soli personaggi. Ora, quanto più cresceva l’autonomia drammatica, tanto piú il coro assumeva carattere di superfluità. Due personaggi s’incontravano in un urto di passione, d’ira, di amore. Che cosa stavano a fare quei ventiquattro testimonî? Qualche volta la presenza si giustificava; piú spesso riusciva superflua: non di rado, grottesca. Fedra è piena di pudore e di esitazione, e si pèrita di confidare il proprio amore alla fida nutrice. Ma quando poi si decide, ventiquattro corifee, cioè quarantotto orecchie di donna, devono ascoltare il geloso segreto. Un’altra volta le circostanze richiederanno che il coro accorra a difendere qualche persona diletta, che sta per essere sopraffatta, che grida sotto il pugnale degli assassini. Ma il coro ha il suo posto obbligato giú in orchestra, non si può muovere, non può accorrere. Deve chiacchierare, E non sa bene che cosa dire. Cosí avviene nel momento culminante della Medea, quando suonano le grida lamentevoli dei figli uccisi dalla madre snaturata (1271):
i figli
Ahi, che farò? Dove trovare scampo
dalle man’ di mia madre?
coro
Odi la voce dei pargoli, odi?
Misera donna, donna sciagurata!
Entrerò nella casa? Oh, dalla morte
salvar devo i fanciulli!
i figli
Sí per gli Dei, salvateci! Sbrigatevi!
Già del ferro alle reti siam vicini!
E che cosa fa il coro? Accorre? — No. Filosofeggia, e, per associazione d’idee, rievoca la storia d’Ino, che uccise anch’ella i suoi figliuoli:
Misera, dunque sei pietra, o ferro,
che la progenie, da te concetta,
dei tuoi figliuoli, tu stessa uccidi?
D’un’altra donna, d’un’altra ho udito
che sopra i figli gittò le mani:
d’Ino, che i Numi resero folle,
quando errabonda, da le sue case
lei la consorte di Giove spinse.
Piombò la misera nel mare, e ai figli
morte empia inflisse,
spiccando il piede via dai frangenti;
e trovò morte coi due fanciulli.
È grottesco. Ma che colpa ne hanno quelle povere infelici, costrette a non muoversi dall’orchestra?
Avverrà un’altra volta, anzi avviene piú volte, per esempio nelle Coefore, nella Ifigenia in Tauride, nell’Oreste, che i protagonisti ordiscano una trama contro qualche loro feroce nemico. Ma alla trama, segretissima, rischiosissima, assistono di necessità le coreute. Onde i poveri protagonisti devono raccomandarsi: «Per carità, non tradite il nostro segreto!» — «Vi pare! — rispondono quelle — Saremo tombe» — E naturalmente mantengono tutte la parola. Ventiquattro femmine.
Questi e simili altri inconvenienti e bizzarrie derivano dalla presenza del coro. Spesso quella torma d’importuni ci fa addirittura stizza. Ma non dobbiamo credere che desse meno noia ai drammaturgi. Solamente questi non potevano sbarazzarsene. E si industriavano di adoperarla meno peggio che potessero. Possiamo anzi dire che negli artificî, negli spedienti con cui i poeti drammatici adottano questo malagevole elemento arcaico alle necessità che venivano via via emergendo nello sviluppo del dramma, consista la storia tecnica della tragedia, e in genere del teatro greco.
Un ultimo esempio, e questo nella parte drammatica. Abbiamo vista l’origine musicale delle sticomitíe (dialogo a verso contro verso). Senza dubbio la sticomitía offriva il vantaggio di dar rilievo al contrasto, già con la pura forma, col puro suono, all’infuori del contenuto. Ma aveva poi uno svantaggio assai maggiore. Un contrasto condotto secondo quella aderenza alla realtà che deve pure ritrovarsi a base di ogni forma d’arte, non comporta una serie di battute uguali rigorosamente l’una all’altra: ma le richiede ora uguali, ora disuguali, ora lunghe, ora brevi, ora brevissime e monosillabiche. Ma nella sticomitía, dovendo invece dare la medesima lunghezza a ciascuna botta e ciascuna risposta, i drammaturgi erano costretti a ricorrere a riempitivi che rimangono come inutile ripieno intorno alla effettiva ossatura del contrasto. Talvolta un personaggio dovrebbe rispondere solamente un monosillabo affermativo o negativo, levare solo un grido o un gemito. Ma con un grido o un gemito si occupa appena mezzo piede o un piede dei sei del trimetro giambico. Tutti gli altri il poeta deve quindi occuparli con parole superflue, con divagazioni che stemperano e snervano. E cosí avviene che il lettore moderno non iniziato, che legga una tragedia in una delle solite traduzioni, nelle quali la sticomitia è sparita, non si rende conto di tanti inciampi e di tante incongruità nella condotta del dialogo, e prova tedio, e biasima la minore accortezza del drammaturgo. Il tedio è sovente legittimo e ineliminabile. Il biasimo va temperato in questo senso, che il tragediografo era ben conscio anche lui di quegli inciampi e di quelle incongruità, e cercava anzi di appianarli e di temperarli. Modificarli radicalmente, non osava.
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E a questo punto, credo di poter abbandonare il lettore. Ché se poi alcuno, prima di accingersi alla lettura di Eschilo, volesse realmente una disàmina essenziale, o, come si dice ora, una sintesi critica della poesia di Eschilo, io potrei additargli le pagine, in verità poco famose, di Victor Hugo11. Non credo che mi sia sfuggito molto di quanto é stato scritto su Eschilo. Ma non conosco nessuno scritto che quanto le pagine di Victor Hugo penetri a fondo la vera essenza della poesia di Eschilo. I genî s’intendono fra loro, da vetta a vetta, fra le vertigini alpestri.
Note
- ↑ Vedi a questo proposito, nel mio volume Il Teatro Greco, il capitolo su Eschilo.
- ↑ Vedi Il Teatro Greco, pag. 58 sg.
- ↑ Cioè canti a fermo (radice sta, stare). Il primo stàsimo è, nella nomenclatura comune, conglobato con la pàrodos; ma credo erroneamente.
- ↑ Era la famosa παρακαταλογή (Plutarco, De musica, 28). Vedi anche Gevaert, Les problèmes musicaux d’Aristote, pag. 336 sg.
- ↑ Vedi la prefazione al mio Pindaro, Odi e frammenti tradotti (Firenze, Olschki), pag. XXVI sg.
- ↑ Vedi la mia introduzione alle Versioni poetiche di Giacomo Zanella, nuova edizione, Firenze, Le Monnier, 1921.
- ↑ Aristotele, Problemi musicali, 19, 15: διὸ καὶ οἰ διθύραμβοι, ἐπειδὴ μιμητικοὶ ἐγένοντο, οὐκέτι ἔχουσιν ἁντιστρόφους πρότερον δὲ εἶχον.
- ↑ Camillo Cessi, Il dramma greco in «Rassegna Italiana di Scienze e letterature classiche», 1919, pag. 47 sg.
- ↑ Zagreus, Studî sull’orfismo, Bari, Laterza.
- ↑ Vedi il mio libro Nel regno d’Orfeo (Zanichelli), pag. 3 sg., e 16 sg.
- ↑ Tre volte parla a lungo di Eschilo. Nella prefazione a Les Burgraves, e, in William Shakespeare, nel capitolo «Les Génies», III, e nel capitolo «Shakespeare l’ancien».