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xxviii | prefazione |
Ma, innanzi tutto, la tragedia ditirambica, col suo dialogo drammatico, con la sua massa di coreuti pittoreschi, con i suoi cori, con le sue danze, con la scena e col pubblico, schiudeva ai poeti di Grecia un nuovo e fecondo campo di attività artistica.
Finora la ricchissima ganga dei miti aveva avute parecchie elaborazioni. Una plastica, un’altra lineare, una terza narrata, nell’epica, una quarta cantata e danzata, nella lirica corale.
Adesso, il ditirambo drammatico faceva balenare la possibilità di una nuova espressione, che accogliesse in mirabile sintesi tutte le precedenti. Le figure di cui favoleggiavano Omero e Pindaro, avrebbero potuto incarnarsi in vere persone, viventi e favellanti: le sculture mirabili che gremivano i frontoni dei templi, le vie, le agore, potevano, come nel prodigio di Rodi magnificato da Pindaro, muoversi e schiudere le labbra.
Cosí tutta la folla degli eroi e dei Numi si riversò a mano a mano sulle scene, sempre piú belle e lussuose, delle rappresentazioni ditirambiche; e a Diòniso fu serbato l’ufficio dignitoso e rappresentativo di Nume tutelare, e i satiri furono inesorabilmente banditi.
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Via via, la breve tragedia ditirambica si ampliò. Vi fu, dice Aristotele, una moltitudine, una moltiplicazione di episodî. E l’analisi accurata delle tragedie superstiti, le quali, sotto polpe nuove, racchiudono scheletri antichi, ci permette di definire con sicurezza come avvenne, e quale carattere assunse questa moltiplicazione. Essa fu una vera e propria gemmazione. Al coro primitivo s’era